Mi è stato chiesto di comporre
un ricordo di Antonia Pozzi (quest’anno è il centenario della nascita) attraverso la selezione di alcune sue poesie.
Lo faccio volentieri.
La sua scrittura in versi – e la
sua vita – attestano quanto per uno spirito libero in un corpo di donna fosse
difficile tollerare le limitazioni culturali, storiche direi, a tale esigenza
di piena espressione di sé in relazione con il mondo. Non mi sembra un caso che
Antonia si sia uccisa, a 26 anni, dopo che le era stato impedito di vivere il
suo primo grande amore, senza che alla sua produzione in versi fosse stato dato
riconoscimento di pubblicazione, in una atmosfera socio-culturale resa
invivibile dalle leggi razziali appena promulgate. Pur nelle inevitabili
differenze storiche, l’attualità di questa “giovinezza che non trova scampo” mi
sembra evidente.
Spirito vivo e acuta
sensibilità. Una percezione della natura
insieme drammatica e consolatrice. La poesia, specchio di onestà interiore, le
è necessaria, le fa in un certo senso ‘prendere peso’, in una relazione forse
non facile ma comunque sempre possibile:
Oh, tu bene mi
pesi
l’anima, poesia:
tu sai se io manco
e mi perdo,
tu che allora ti
neghi
e taci.
[…]
Questi versi sono i primi della
poesia intitolata Preghiera alla poesia,
a p. 191 del volume edito da Garzanti (gli elefanti poesia) nel 2001 (ristampa
2004), curato da Alessandra Cenni e Onorina Dino, che qui stabiliscono per
l’insieme delle poesie di Antonia Pozzi il titolo Parole. Da questa pubblicazione traggo le poesie che seguono [ma
certi titoli mi sanno tanto di aggiustamenti paterni].
Nota:
Antonia Pozzi
nasce nel febbraio del 1912 a Milano e vi muore suicida nel dicembre del
1938.
Notizie circa
la sua vicenda esistenziale si trovano nel sito dell’Enciclopedia delle donne
alla voce che la riguarda, a cura di Matteo M. Vecchio. Da lì si accede pure ad
un sito ugualmente dedicato ad Antonia che comprende anche una bibliografia
molto ampia. Vi è incluso anche Poesia che mi guardi, a cura di G. Bernabò e O. Dino
(Bologna, Sossella, 2010), che contiene in dvd il film Poesia che mi guardi, realizzato sulla figura della poetessa
lombarda da Marina Spada (quello segnalato da Rosanna in un precedente blog).
Pace
ad
A. M. C.
Ascolta:
come sono vicine le campane!
Vedi: i pioppi, nel viale, si protendono
per abbracciarne
il suono. Ogni rintocco
è una carezza fonda, un vellutato
manto di pace, sceso dalla notte
ad avvolgere la casa e la mia vita.
Ogni cosa, d’intorno, è grande e ombrosa
come tutti i ricordi dell’infanzia.
Dammi la mano: so quanto ha doluto,
sotto i miei baci, la tua mano. Dammela.
Questa sera non m’ardono le labbra.
[…]
Ma vieni: camminiamo: anche l’ignoto
non mi spaventa, se ti son vicina.
Tu mi fai buona e bianca come un bimbo
che dice le preghiere e s’addormenta.
Carnisio, 3 luglio 1929
Filosofia
Non trovo più il mio libro di filosofia.
Tiravo in carrettino
un marmocchio di otto mesi – robetta molle, saliva,
sorrisino.
Quel che m’ingombrava le mani, l’ho buttato via.
Il fratellino di quel bimbetto,
a due anni è caduto in una caldaia d’acqua bollente:
in ventiquattro ore è morto, atrocemente.
Il parroco è sicuro che è diventato un angioletto.
La sua mamma non ha voluto andare al cimitero
a vedere dove gliel’hanno sotterrato.
Pei contadini, il lutto è un lusso smodato:
la sua mamma non veste di nero.
Ma quando quest’ultima creaturina,
con le manine, le pizzica il viso,
ella cerca il suo antico sorriso:
e trova soltanto un riso velato – un povero riso in
sordina.
Oggi, da una donna, ho sentito
che quella mamma, in chiesa, non ci vuole più andare.
Stasera non posso studiare,
perché il libro di filosofia l’ho smarrito.
Carnisio, 7 luglio 1929
Vertigine
Afferrami alla vita,
uomo. La cengia è stretta.
E l’abisso è un risucchio spaventoso
che ci vuole assorbire.
Vedi: la falda erbosa, da cui balza
questo zampillo estatico di rupi,
somiglia a un camposanto sconfinato,
con le sue pietre bianche.
Io mi vorrei tuffare a capofitto
nella fluidità vertiginosa;
vorrei piombare sopra un duro masso
e sradicarlo e stritolarlo, io,
con le mie mani scarne;
strappare gli vorrei, siccome a croce
di cimitero, una parola sola
che mi desse la luce. E poi berrei
a golate gioiose il sangue mio.
Afferrami alla vita,
uomo. Passa la nebbia
e lambe e sperde l’incubo mio folle.
Fra poco la vedremo dipanarsi
sopra le valli: e noi saremo in vetta.
Afferrami alla vita. Oh, come dolci
i tuoi occhi esitanti,
i tuoi occhi di puro vetro azzurro!
Pasturo, 22 agosto 1929
Abbandonati in braccio al buio
monti
m’insegnate l’attesa:
all’alba – chiese
diverranno i miei boschi.
Arderò – cero sui fiori d’autunno
tramortita nel sole.
[s. d.]
La roccia
Trine di betulla
nella valle
i pensieri –
ma ieri
quando soli erravamo
sulla nuda montagna –
il taglio
delle rupi più eccelse
era il disegno
della mia forza –
in cielo.
E non parlare di rovina
tu cuore –
fin che uno spigolo nero a strapiombo
spacchi l’azzurro
e una corda s’annodi all’anima
bianca
come le ossa del falco
che sul torrione più alto
regalmente ha voluto
morire.
8 settembre 1933
da “La vita sognata” (25 agosto-25
ottobre 1933)
Ricongiungimento
Se io capissi
– quel che vuol dire –
credo che la mia vita
qui – finirebbe.
Ma per me la terra
è soltanto la zolla che calpesto
e l’altra
che calpesti tu:
il resto
è aria
in cui – zattere sciolte – navighiamo
a incontrarci.
Nel cielo limpido infatti
sorgono a volte piccole nubi
fili di lana
o piume – distanti –
e chi guarda di lì a pochi istanti
vede una nuvola sola
che si allontana.
Voto
Ed è tanta la pace
ch’io dico:
– oh, possa tu incontrare la donna
che ti ridìa
la creatura che abbiamo sognata
e che è morta –
dico:
– si faccia solco
almeno per te
la fossa
e si confonda con la pioggia del cielo
il mio pianto:
bagni il tuo crescere
senza essere scorto –
Sfiducia
Tristezza di queste mie mani
troppo pesanti
per non aprire piaghe,
troppo leggere
per lasciare un’impronta –
tristezza di questa mia bocca
che dice le stesse
parole tue
– altre cose intendendo –
e questo è il modo
della più disperata
lontananza.
16 ottobre 1933
Servire
Teresa o Catina
portano nei cortili
aspri canti di fieno.
Poi nel buio
mani rosse aggrappate al davanzale
spargono in un sussurro
i peccati
della domenica.
[s. d.]
Sgelo
Ora la vuota strada
ci sospende
ai suoi lumi:
per aeree tombe portati,
mentre fuggono
acque lontane in basso
le parole.
E già domani
ad uno sbocco giungeremo:
sgelo
cauto senza schianti,
la neve.
Lenta scendendo
ritroverò il tepore del mio volto:
quando
il suolo lieve mi fiorirà
la grazia
delle tue labbra.
18 dicembre 1935
Incantesimi
Alti orli ghiacciati
si disfecero al mondo.
Solcava
lenta e lieve la barca
laghi d’oro,
andando così nel sole
abbracciati.
Gracili reti bionde
imprigionavano l’ora.
E nacquero brividi;
crebbero
voci tristi;
fischiò
a sponda il dilacerarsi delle canne.
Belve chiare
guardarono dal folto
a lungo
il tramonto nell’acqua,
andando così verso l’ombra
io libera
e sola per sempre.
22 dicembre 1935
Maggio desiderio di morte
Sul monte
un convento di foglie
salva il riso d’azzurri fiori.
E tu férmati pallido sole,
questa tempia
che affonda nel muschio
configgi alla terra,
da’ al peso
eternità primaverile.
maggio 1936
5 commenti:
Grazie cara Marcella, per questo "sacro" femminile, intriso di forza fino alla sua fine... purtroppo- Ciao Emy
molto molto gradita la lettura di questo post , proprio in questo giorno per giunta, cara..cara Marcella,
grazie nella memoria attiva di quello sguardo pozzoso a piu pozzi,e purtroppo anche fino all'abisso che l'ha risucchiata
grazie di quel "tu poesia che mi guardi" che è tutto , quintessenza in un quintetto nitido di ogni polifonia.
Ti ringrazio anche di avermi incluso per quel film che ti dissi, un abbraccio grande . rò
Ciao Marcella. Grazie per questa selezione in omaggio ad una delle tante illustri vittime della segregazione femminile. La poesia di Antonia Pozzi tocca sempre sul vivo: "andando così verso l’ombra/io libera/e sola per sempre.", versi come questi sono pieni di vitalità dolente, di forza, di amore.
Maria Dilucia:
Oggi a Roma è morto il poeta Elio Pagliarani
tratta da Inventario privato
di Elio Pagliarani
:::
Che ci portiamo addosso il nostro peso
lo so, che schermaglia d’amore è adattamento,
guizzo, resistenza necessaria perché baci
la nostra storia i nostri uomo-donna
non solo all’ombra dei parchi
l’imparo ora, forse.
Oh, ma scompagina come il vento
freddo di viale Piave i giorni scorsi, e spaura,
quanto di me non solo porto
sulle spalle, ma mi tocca travasare
adattare al tuo fusto flessibile
e scontroso.
Io che speravo
necessario e sufficiente solo il fiore
che affiora, tocco con le carezze oltre che il tuo
fusto flessibile lo specchio la certezza
di come sia insufficiente il mio amore
per la tua capacità di comprenderlo,
per la tua capacità di comprenderlo
come sia immane il mio bisogno d’amore.
Ringrazio Maria di questo ricordo di Elio Pagliarani, purtroppo in morte.
La morte di Pagliarani mi colpisce e genera ricordi anche sul piano personale. Fu ad un suo laboratorio nel 1988 che per la prima volta osai mettere in comune alcuni versi. Non l’avrei fatto se non avesse in sostanza preteso che li dicessimo a memoria. E pochissimi ricordavano a memoria i propri versi. La consistente silloge che subito dopo venne pubblicata su “Ritmica”, la rivista da lui diretta (la prima, per me, pubblicazione) ebbe un titolo che lui stesso scelse traendolo da uno dei versi. E quando la mia prima raccolta venne pubblicata rischiai di avere una sua presentazione. Mi disse: ormai faccio solo una presentazione all’anno e l’ho promessa da poco a Marco Caporali.
Ma il ricordo più personale che lo riguarda è un sogno. Facevo dall’adolescenza un sogno-incubo, sempre lo stesso, in cui in casa mi trovavo davanti inaspettato un grosso leone e m’affannavo ogni volta a chiudergli una porta in faccia, ma di nuovo compariva in un’altra stanza, tranquillo lui, per me minaccioso. Nell’ultimo di questi sogni (perché poi non ce ne sono stati più) i leoni erano più d’uno. Tra loro una leonessa ferita. E lì non mi limitavo a chiudere porte. Arretravo sempre di più verso la porta d’ingresso. Davanti a quella porta mi si para Elio Pagliarani, col suo papillon sull’abito intero, benevolo ma fermo. Mi dice sorridendo: “Adesso basta”. E mi sveglio.
La cosa sorprendente (o forse no) è che non solo non ho mai più fatto quel sogno ma l’unica volta che ho sognato un grande orso (sostituto del leone, credo) che cercava di entrare dalla porta della casa in cui stavo, nonostante il timore che a porta chiusa sentivo avendo capito che di grizzly si trattava (ero in una baita tra i boschi e i suoi unghioni facevano un rumore eloquente sul legno), ho io stessa aperto la porta, il grizzly è entrato e io l’ho abbracciato.
Come dire che per diversi anni la funzione per me ‘salvifica’ della poesia si è’ incarnata’ in lui.
La morte si stempera, credo, solo nel ricordo. Pagliarani rimarrà nella storia della poesia italiana. Noi ricordiamolo con i suoi versi. Ecco l’XI dei suoi Epigrammi ferraresi, che mi ha fatto pensare alla sua morte:
Il nostro capitano è andato innanzi alle ferite.
E il XIV (che è un augurio):
Avevano questa sanità: avevano l’occhio vivo
e poca repugnantia.
Un caro saluto a tutti
Marcella
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