1.
in un
ospizio di foglie
la pigrizia
dell’angelo.
si secca la
gioia di dio
pertugio di
lacrime.
incline al
giocondo arenile
balbetta
d’eco la conchiglia.
in mano
all’armonia dell’inguine
resta la
giara senza l’olio santo
prosciugato
dal resto del mondo.
mandami un
calesse avrò già pianto
nel dilemma
scortese del fango.
è tutta qui
la resina del dubbio
quando la
casa crolla tutta sicura
di stare in
piedi. i duri fratelli
hanno
lasciato la casa dopo il saccheggio.
in un tuono
di vendetta la scaturigine
del sacco
chiuso a bomba. intorno le vipere
spasimano
gl’intrecci. l’ironia del vicolo
spadroneggia
sugli amanti senza riparo.
2.
quale
imbrunire mi offuscherà la fronte
nella
schiera di nuvole nemiche
scacchiere
senza angeli di fianco.
oggi il
diverbio è pastore di se stesso
quasi un
convulso esodo di stasi
verso
l’ombra che per tutti c’è.
in un buio
di casale voglio l’occaso
della pace.
in primavera si addice
la mia
voglia di avverare aiuto
almeno alle
fontane senza acqua
battesimali
di cenere per sempre.
la croce
sulla fronte non basta
il salario
di essere felici, anzi
la casta
delle ronde tonifica il demonio.
i prìncipi
sono pochi e i sudditi
immensi.
così lo stato delle fosse
vive, lo
stato del dominio delle cose
fatte ad
arco per castigare meglio.
3.
posso
dormire una notte di scalee
quando le
donne con lo strascico
giocano a
copiar principesse.
presepe
laconico guardarti
dentro il
cullare delle darsene oleose
materne
quanto un albero di riva.
in mano
alla questura di dare appello
la turba
che bada la scommessa
di perire
sasso senza turbe
né baveri
alzati da ubriaco.
4.
così si
dice pianga la lucciola
quando la
manna si fa spazzatura
presso la
porta dorata del folletto.
il bimbo
gioca a se stesso da piccolo
ma non lo
sa e non è felice appieno.
si sa che è
uno zero lunatico questo
tuo perno
senza cibo sfinito nella ruggine.
nella
sabbia che fatica le staffette
corre la
fiamma a cercar di amare
le zuffe di
ferrosi amanti.
in un
duetto di fragole di maggio
invento le
gole di fratelli golosi
così noiosi
da sembrar gemelli.
l’arena di
truppa non fa finir la guerra
né la buona
cucina invita qualcuno
per
esorcizzare il rantolo.
la
pagnottella con il prosciutto è leccornia
da altare.
tu inventa una steppa che
sappia
grilli parlanti come le gemme
delle
favole. dividi con me questo
cimitero
acquatico di fuoco. io non
voglio
chiamarmi più marina né in altro modo.
5.
ho imparato
a giocare con le statue
in grandi
mari a tuffarci insieme
inguine di
donna la marea
sotto la
guerra di perdere i bambini
in preda
alla resina dei barbari.
in mezzo
all’avarizia della bara
sono
rimasta cenere sgraziata
dai
sassolini dei venti più potenti.
in mano
alla paglia dei falò
da viva
imparai le ceneri
le belle
faville che non smettono.
i cortili
dei vivi avevano altarini
acquitrini
per i pesci rossi
non
peccatori i miti degli amori
aperti a
mo’ di libri sui davanzali.
in barca
sulla fronte dell’anarchia
la chela
del granchio non osò toccarla
anzi si
ritrasse per un fido di elemosina.
6.
La finestra
dello scontento
lungo le
rotte del mio sacrificare
la calca
della palude. nell’interno
del
diamante vedo il cestino
delle
inutili stimmate. sono molto a soffrire
questo
marziano d’ansia.
indarno gli
appunti non spiegano
la
disgrazia delle mosse senza rispetto
le malizie
che contengono l’arrivo
sulle
supplenze del vento sempre contro
il
beneficio del faro tutto stante.
in gara con
la rondine che vince
si ritiri
la noia che dà da piangere
al cinereo
bastone del basto dentro.
qui si
immola l’avarizia del contendere
solo
acquazzoni con le morse delle gocce.
in mano
alla pietà della risacca
le scorie
nelle mani sono l’affetto
di gente
morta nel giardino delle meraviglie
così si
dice nelle fole di vinti talami.
la paura
del soldato è lo steccato
dinamitardo.
qui se ti affretti a scappare
apra la
sorte il vento e l’avarizia crepi.
7.
quale
bistro truccherà il mio zaino
in perla
d’indovino finalmente
per correre
alla maniera dell’atleta
con la
lancia in resta e la corona in testa.
nulla
parlerà di regole oceaniche
visto che
lo stagno piange fanciullo
e la
pallottola ha trascorso la nuca.
così morta
la ciurma della ronda
nulla potrà
cantare alla madre del bivacco
l’accomodo
di dirle una pietà.
alla cometa
del rantolo maniaco
si scomoda
il respiro per spirare
la corta
moda di morire sùbito.
in mano al
dado del sicario
si
ottenebra la calce del loculo
quale più
oscuro anfratto di bracconaggio.
in mano
alla caduta della rotta
faccio
ammenda di me nei secoli
per le
placente irrise che non ebbi.
8.
dio di
cancrene stare zitto
sul filo
del rasoio come abaco
atto al
rasoterra. l’alone della terra
è fiato
smesso pronto per il sottomesso
fato di
sospiro. e sempre rantola il guasto
della conca
in culmine di oceano. iddio
canuto
questo scempio fiumara di fumo.
addio al
sasso che giocò al vetro rotto
dentro il
cortile d’infanzia. è giara di veleno
l’alunno
zoppo che non può scalciare
contro la
poca aureola del sogno.
in lutto
guarderò la sedia vuota
dove
rantolò la scherma di Ulisse
il bel
cerchio di restare vivi.
in fondo è
un cipresseto anche l’annuncio
di
chiamarsi al dondolo. muore la spada
d’accatto
quando giocare sfuggiva la cavia.
oggi si
accantona il bacio
per un giro
ancora.
9.
mi metterò
l’occaso in riva al sangue
e capirò
perché la luna è piena
o spicchio
di capestro. l’alunno saturnino
della pena
gravita una roccia. dove da oggi
è turno di
scempio prestare il rantolo
occludere
la fiaccola del coraggio. in stato di
omuncolo
regalo assiomi miracolosi
d’asma.
eppur domani sia consono
il re del
soqquadro per la caligine
del retro
stato. un fato di nebbia
mi epuri
l’odio. non basta raccontarsi
un enigma
se la storia è dio. è da sùbito
l’urto con
la fossa certa. d’animo e conclave
non avrò
amore nel furto di esserci. la cenere
d’olimpio
dove si culla il sole senza speranza.
e la
darsena si acclude all’osso di sterco
al
comignolo che ottura il cielo
verso la
rottura col mito. in fase maschia
non sarà
riscossa espugnare il rantolo.
10.
finalmente
avrò un bottone d’agio
finalmente.
e dietro l’ambito delle vene
rosse non
ci sarà più il sangue, ma la fine
dolcissima
della vita. nel ginnasio degli angeli
voglio
andare dove la pena non è neppure
un ricordo.
nelle scalee di prìncipi e tiranni
resta
l’odore della morte per il popolo dei
gioghi.
gigli secchi comprendono le tombe
quando nessuno
si ricorda più
di quali
stati fu il cruciverba e la badata
stasi di
dormire raccolti in un apice
di piume.
lo sterzo è la vendetta del morente
con urli o
silenzio secondo la paura.
immersi in
un letamaio di giullari
si
contamina restare stamberghe di sé.
11.
lasciami
andare a un sinonimo di eclissi
dove
l’abaco conti solo miti
e siluri di
alfabeti miracolosi
dove la
cornucopia è sazia
e la viltà
non ha indici
né sbagli
di scommesse.
intagli di
meraviglie starti a guardare
nell’eremo
che soqquadra le pianure
perdurando
le eresie del bello
sotto le
cimase dell’esodo folclorico
e le rotte
evangeliche del sorriso.
indarno il
quadro scoppia di bellezza
se questo
deserto è prova di catrame
e la trama
del foglio perde la scrittura.
il trono
maniacale dell’estetica
espunge il
costato dell’arsura
questa
bravura di piangere per sempre
nonostante
le zeppe sotto la lavagna.
il crudo
amore inguaia la progenie
misfatto
editto per la solitudine
tutte già
belle le turbe delle spose.
12.
mia madre è
morta di strano cuore
una maretta
intrisa di preghiera
la mia di
sapida bestemmia
dove la
pietà si annulla in urlo.
in un covo
di rettitudine blasfema
ho
sopportato l’agonia la gogna
dell’attesa
e il silenzio finale.
con un
pellegrinaggio di lenzuola
la giornata
si fa atroce come la purea
di tutti i
giorni e le cibarie pessime.
escludo da
me la veglia della gioia
questa
vanga di fanga e di gran fuoco
quando i
fiori si gettano per terra
a piramide
profumata. si toglie tutto
anche la
croce per la cenere maligna.
resti o svapori
poco importa alla baldanza
di lucciole
letargiche e fuochi fatui.
i lavori
degli uomini continuano
a
trasportare morti per furti futuri.
si ruba ai
morti tanto non costa niente
e la
baldoria non barcolla un attimo.
13.
l’arringa
del salice piangente
ingenera
chissà quale soccorso
verso il
sudario della donna in lacrime
sul crimine
d’intendere l’area del pozzo.
quale
dolore t’infilzò la milza oh fratello
del bosco?
quale scoscesa realtà
volle
sedurti al panico? intùito vederti
ormai che
morta fu la nenia di
baciarti
oltre. così commosso l’antro
del mio
bene non trova strada sul dazio
del sale.
ora me ne andrò per far cometa
il sogno.
al vespro la madre non rincasa.
tu sapevi
che piangere è morire lungo
la rotta
del salario chiuso. misure d’asma
non trovarla
più.
14.
vado
all’espatrio ogni notte
con un
tatuaggio nel cervello
botta e
risposta senza fine
la mia
carriera visitata da ferri
arroventati.
nei denti un faro
di
conchiglia. una perplessa
aurora
quanto un cimitero
divelto.
miserere del respiro
continuare
la scansione del
tempo.
vocativo d’estro volerti
accanto.
camminami sul petto
abbi pietà
del mito che ci rese
fragili.
passa la vendetta un canestrello
di vespe.
la grazia occulta della siepe
è un buon
cammino nonostante
non sapere
l’aldilà. incudine di putti
verremo
uccisi tutti.
15.
qui si sale
in coda all’erba vinta
alla
riscossa che non sa di niente
né di pane
azzimo la scuola.
il perno
della foce è dietro l’angolo
una madonna
in estro di fallacia
per un
girotondo di perle senza
viottolo.
si sta conserti mappamondi
in torto
sull’occaso di dar spallate al mondo.
16.
al caso del
mio cantuccio si cammina
a vuoto.
fantasma di rovina accavalla
le gambe
come una signorina. inganno
in camice
chirurgico non sa operare
la rima con
la vita. tacita piange la zucca
delle
ceneri parenti, padre e madre simili
al cemento.
urlo l’uno silenziosa l’altra
la cuccagna
dell’aldilà è da vedere
con l’esame
dei bocciati. le spalle ordinate
di
soldatini morti. le cicale hanno smesso
per pietà
di far tormento al calco dell’estate.
intruglio
di penombra questa perpetua
stasi.
sentire addosso le resine è cimelio
d’altitudine
contro la pozza del seminterrato
d’oggi.
ordigno di cometa sapere le regole
del tempo
vetuste come la luna presa.
17.
le gambe
affusolate dell’origine
incutono un
rispetto solitario.
l’indagine
di me si fa all’oscuro
dove
tramonta l’ebete maligno
e si
ristora la belva addormentata.
in un
canestro di vuoto il lamento
della
giacca lasciata lungo il viale
nero di
cornacchie di malaffare.
una cura a
salve mi promette pace
cornucopia
di ragnatele per salvare
l’eco del
tunnel che fa stramazzare
i passeri e
i velluti delle spose.
in me
silente la bramosia del secolo
consacra
bancarelle di molestie
per le
stelle che non riescono a salire.
indagine di
cometa starti a guardare
alunno che
non seppe la lezione
né il rospo
cavernoso da salvare.
18.
quale sarà
l’occaso che mi stroncherà
il viso. la
giostra sarcastica che non giocherà
pietà. mano
alla nebbia forestiera
si chiude
il parnaso dei cipressi
i pioppi
segaligni che stanno stare
al fianco
della gara dei ribelli.
in tutta
gratitudine voglio chiamarti
amore segno
di velluto per la notte.
invece la
guerra è alle porte dove
si
disprezza il giorno. in un fagottello
di ghiande
ho messo via chi sono
una
manciata di eremi dismessi
dove piange
la fanga abbandonata
l’indirizzo
illusorio sul palmo della mano.
19.
Aletta di
digiuno guardarti il viso
morto
all’altezza della favola
di trovar
vita. mitezza d’aquila
la foce
senza genitori, sola.
sul foglio
di ruggine è caduta
la rondine.
in un dirupo di squallido
meandro si
azzera la fanciullaggine
la gita
pazza di rompere l’argine.
diceria del
canneto amarti
sotto i
sassi della discordia
la lampada
canuta senza luce.
invano
questo restare invano
stani nei
vespri le stanze più belle
le astenie
pro capite di lividi.
è un
gennaio afoso quasi un agostano
storpio
stanato da chissà quale bestemmia.
guancia di
meringa la tua anima
manciata
sulla luna e di ricordo.
20.
la gita
sotto il crepuscolo
ladrone di
speranza
dove si
attiene il bozzolo di nascita
la
stampella certa del divenire
acrobata di
sterco sulla terra.
l’indugio
qui a carponi trottola
di niente e
sghignazza la fola della fortuna
lontana
dove non avviene aureola di sole
né
apostrofe d’amore. il nulla dove si aggioga
la clessidra
ha il basto certo della risacca
l’acume
vuoto di perdere ossigeno.
21.
scansione
di autunno le foglie
che
vegliano l’amore restio
sul greto
della voglia di morire
incudine e
martello un solo trespolo
per
allontanare la furia della luce
e l’ìndice
a cimelio della scorta
d’ombra.
bravura già sarà non aver
malore né
languore di tirannide la
trottola
incapace di pietà. tu dammi
un angolo
di cipresso una leccornìa
per la
vergogna di esistere e la stazione
dentro
l’occhio pavido di dadi da lanciare.
me includi
l’arena della giacca per un gioco
di
cristalli con le domeniche fangose
sotto
guanciali nebbiosi, tragici.
il grappolo
di mimosa è fregato
dal fischio
del vento senza avvento
nel chiodo
dell’orecchio saturnino
nomea di sé
giammai l’armistizio.
*Nota
Marina Pizzi è
nata a Roma, dove vive, il 5-5-55.
Ha pubblicato i
libri di versi: "Il giornale
dell'esule" (Crocetti 1986), "Gli angioli patrioti"
(ivi 1988), "Acquerugiole"
(ivi 1990), "Darsene il respiro"
(Fondazione Corrente 1993), "La
devozione di stare" (Anterem 1994), "Le arsure" (LietoColle 2004), "L'acciuga della sera i fuochi della tara" (Luca Pensa 2006), “Dallo stesso altrove” (La camera verde, 2008, selezione), “L’inchino
del predone (Blu di Prussia, 2009), “Il
solicello del basto” (Fermenti, 2010), “Ricette del sottopiatto”(Besa, 2011);
Sue poesie sono
state tradotte in Persiano, in Inglese, in Tedesco.
3 commenti:
Non dico che la leggibilità debba essere un fine. Ammetto che l'oscurità possa far parte di un certo tipo di linguaggio poetico. Non ne sono quasi mai infastidito, anzi. Qui però, mi spiace dirlo (perché comprendo il lavoro del poeta e profondamente lo rispetto...), siamo molto spostati verso il limite di uno spettro che va dalla piana leggibilità alla totale illeggibilità. Pare una scrittura in codice, fra versi che in molte occasioni ricordano i messaggi lanciati da radio Londra ai partigiani, e un oracolo dell'antica Grecia. A complicare e rendere difficile la vita al lettore anche l'abolizione delle maiuscole. Mi pare che davvero si pretenda da tale fantomatico lettore molta ma molta pazienza, forse, per come la vedo io, un po' troppa. Una interpretazione parola per parola di una scrittura lunga come questa, senza possederne il codice interpretativo, base di ogni lavoro di decrittazione, è una sfida che pochi possono raccogliere. Allora quale può essere l'obiettivo dell'autore? Quello di essere letto non mi pare il principale. Non credo che ci si possa aspettare che il lettore medio arrivi in fondo senza esserselo chiesto più e più volte.
Ciao
Flavio
Non ho compreso il senso , ma dal linguaggio ne esco angosciata. Emilia
Tutto è già scritto, non resta che trarne altro senso (il proprio) attraverso un'opera semplice di spremitura.
Sottolineature da libri qualsiasi per trarne un codice cifrato (il proprio).
Non fosse per la serietà e l'incazzatura che la sovrastano, direi che questo scrivere è divertente. A me sembra non ci sia nulla di difficile.
Post-moderno nel post-sperimentalismo? No, sarebbe cadere nel tranello. Il linguaggio non-condiviso rivela sottobanco una poesia convenzionale, ma sepolta e riesumata.
Qual'è stata la chiave di decifrazione ( ci vuol altro che la traduzione) in persiano, inglese e tedesco?
mayoor
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