domenica 11 marzo 2012

Marina Pizzi
Cantico di stasi (2011-2012)



1.
in un ospizio di foglie
la pigrizia dell’angelo.
si secca la gioia di dio
pertugio di lacrime.
incline al giocondo arenile
balbetta d’eco la conchiglia.
in mano all’armonia dell’inguine
resta la giara senza l’olio santo
prosciugato dal resto del mondo.
mandami un calesse avrò già pianto
nel dilemma scortese del fango.
è tutta qui la resina del dubbio
quando la casa crolla tutta sicura
di stare in piedi. i duri fratelli
hanno lasciato la casa dopo il saccheggio.
in un tuono di vendetta la scaturigine
del sacco chiuso a bomba. intorno le vipere
spasimano gl’intrecci. l’ironia del vicolo
spadroneggia sugli amanti senza riparo.

2.
quale imbrunire mi offuscherà la fronte
nella schiera di nuvole nemiche
scacchiere senza angeli di fianco.
oggi il diverbio è pastore di se stesso
quasi un convulso esodo di stasi
verso l’ombra che per tutti c’è.
in un buio di casale voglio l’occaso
della pace. in primavera si addice
la mia voglia di avverare aiuto
almeno alle fontane senza acqua
battesimali di cenere per sempre.
la croce sulla fronte non basta
il salario di essere felici, anzi
la casta delle ronde tonifica il demonio.
i prìncipi sono pochi e i sudditi
immensi. così lo stato delle fosse
vive, lo stato del dominio delle cose
fatte ad arco per castigare meglio.
3.
posso dormire una notte di scalee
quando le donne con lo strascico
giocano a copiar principesse.
presepe laconico guardarti
dentro il cullare delle darsene oleose
materne quanto un albero di riva.
in mano alla questura di dare appello
la turba che bada la scommessa
di perire sasso senza turbe
né baveri alzati da ubriaco.
4.
così si dice pianga la lucciola
quando la manna si fa spazzatura
presso la porta dorata del folletto.
il bimbo gioca a se stesso da piccolo
ma non lo sa e non è felice appieno.
si sa che è uno zero lunatico questo
tuo perno senza cibo sfinito nella ruggine.
nella sabbia che fatica le staffette
corre la fiamma a cercar di amare
le zuffe di ferrosi amanti.
in un duetto di fragole di maggio
invento le gole di fratelli golosi
così noiosi da sembrar gemelli.
l’arena di truppa non fa finir la guerra
né la buona cucina invita qualcuno
per esorcizzare il rantolo.
la pagnottella con il prosciutto è leccornia
da altare. tu inventa una steppa che
sappia grilli parlanti come le gemme
delle favole. dividi con me questo
cimitero acquatico di fuoco. io non
voglio chiamarmi più marina né in altro modo.
5.
ho imparato a giocare con le statue
in grandi mari a tuffarci insieme
inguine di donna la marea
sotto la guerra di perdere i bambini
in preda alla resina dei barbari.
in mezzo all’avarizia della bara
sono rimasta cenere sgraziata
dai sassolini dei venti più potenti.
in mano alla paglia dei falò
da viva imparai le ceneri
le belle faville che non smettono.
i cortili dei vivi avevano altarini
acquitrini per i pesci rossi
non peccatori i miti degli amori
aperti a mo’ di libri sui davanzali.
in barca sulla fronte dell’anarchia
la chela del granchio non osò toccarla
anzi si ritrasse per un fido di elemosina.
6.
La finestra dello scontento
             

lungo le rotte del mio sacrificare
la calca della palude. nell’interno
del diamante vedo il cestino
delle inutili stimmate. sono molto a soffrire
questo marziano d’ansia.
indarno gli appunti non spiegano
la disgrazia delle mosse senza rispetto
le malizie che contengono l’arrivo
sulle supplenze del vento sempre contro
il beneficio del faro tutto stante.
in gara con la rondine che vince
si ritiri la noia che dà da piangere
al cinereo bastone del basto dentro.
qui si immola l’avarizia del contendere
solo acquazzoni con le morse delle gocce.
in mano alla pietà della risacca
le scorie nelle mani sono l’affetto
di gente morta nel giardino delle meraviglie
così si dice nelle fole di vinti talami.
la paura del soldato è lo steccato
dinamitardo. qui se ti affretti a scappare
apra la sorte il vento e l’avarizia crepi.
7.
quale bistro truccherà il mio zaino
in perla d’indovino finalmente
per correre alla maniera dell’atleta
con la lancia in resta e la corona in testa.
nulla parlerà di regole oceaniche
visto che lo stagno piange fanciullo
e la pallottola ha trascorso la nuca.
così morta la ciurma della ronda
nulla potrà cantare alla madre del bivacco
l’accomodo di dirle una pietà.
alla cometa del rantolo maniaco
si scomoda il respiro per spirare
la corta moda di morire sùbito.
in mano al dado del sicario
si ottenebra la calce del loculo
quale più oscuro anfratto di bracconaggio.
in mano alla caduta della rotta
faccio ammenda di me nei secoli
per le placente irrise che non ebbi.
8.
dio di cancrene stare zitto
sul filo del rasoio come abaco
atto al rasoterra. l’alone della terra
è fiato smesso pronto per il sottomesso
fato di sospiro. e sempre rantola il guasto
della conca in culmine di oceano. iddio
canuto questo scempio fiumara di fumo.
addio al sasso che giocò al vetro rotto
dentro il cortile d’infanzia. è giara di veleno
l’alunno zoppo che non può scalciare
contro la poca aureola del sogno.
in lutto guarderò la sedia vuota
dove rantolò la scherma di Ulisse
il bel cerchio di restare vivi.
in fondo è un cipresseto anche l’annuncio
di chiamarsi al dondolo. muore la spada
d’accatto quando giocare sfuggiva la cavia.
oggi si accantona il bacio
per un giro ancora.
9.
mi metterò l’occaso in riva al sangue
e capirò perché la luna è piena
o spicchio di capestro. l’alunno saturnino
della pena gravita una roccia. dove da oggi
è turno di scempio prestare il rantolo
occludere la fiaccola del coraggio. in stato di
omuncolo regalo assiomi miracolosi
d’asma. eppur domani sia consono
il re del soqquadro per la caligine
del retro stato. un fato di nebbia
mi epuri l’odio. non basta raccontarsi
un enigma se la storia è dio. è da sùbito
l’urto con la fossa certa. d’animo e conclave
non avrò amore nel furto di esserci. la cenere
d’olimpio dove si culla il sole senza speranza.
e la darsena si acclude all’osso di sterco
al comignolo che ottura il cielo
verso la rottura col mito. in fase maschia
non sarà riscossa espugnare il rantolo.
10.
finalmente avrò un bottone d’agio
finalmente. e dietro l’ambito delle vene
rosse non ci sarà più il sangue, ma la fine
dolcissima della vita. nel ginnasio degli angeli
voglio andare dove la pena non è neppure
un ricordo. nelle scalee di prìncipi e tiranni
resta l’odore della morte per il popolo dei
gioghi. gigli secchi comprendono le tombe
quando nessuno si ricorda più
di quali stati fu il cruciverba e la badata
stasi di dormire raccolti in un apice
di piume. lo sterzo è la vendetta del morente
con urli o silenzio secondo la paura.
immersi in un letamaio di giullari
si contamina restare stamberghe di sé.
11.
lasciami andare a un sinonimo di eclissi
dove l’abaco conti solo miti
e siluri di alfabeti miracolosi
dove la cornucopia è sazia
e la viltà non ha indici
né sbagli di scommesse.
intagli di meraviglie starti a guardare
nell’eremo che soqquadra le pianure
perdurando le eresie del bello
sotto le cimase dell’esodo folclorico
e le rotte evangeliche del sorriso.
indarno il quadro scoppia di bellezza
se questo deserto è prova di catrame
e la trama del foglio perde la scrittura.
il trono maniacale dell’estetica
espunge il costato dell’arsura
questa bravura di piangere per sempre
nonostante le zeppe sotto la lavagna.
il crudo amore inguaia la progenie
misfatto editto per la solitudine
tutte già belle le turbe delle spose.
12.
mia madre è morta di strano cuore
una maretta intrisa di preghiera
la mia di sapida bestemmia
dove la pietà si annulla in urlo.
in un covo di rettitudine blasfema
ho sopportato l’agonia la gogna
dell’attesa e il silenzio finale.
con un pellegrinaggio di lenzuola
la giornata si fa atroce come la purea
di tutti i giorni e le cibarie pessime.
escludo da me la veglia della gioia
questa vanga di fanga e di gran fuoco
quando i fiori si gettano per terra
a piramide profumata. si toglie tutto
anche la croce per la cenere maligna.
resti o svapori poco importa alla baldanza
di lucciole letargiche e fuochi fatui.
i lavori degli uomini continuano
a trasportare morti per furti futuri.
si ruba ai morti tanto non costa niente
e la baldoria non barcolla un attimo.
13.
l’arringa del salice piangente
ingenera chissà quale soccorso
verso il sudario della donna in lacrime
sul crimine d’intendere l’area del pozzo.
quale dolore t’infilzò la milza oh fratello
del bosco? quale scoscesa realtà
volle sedurti al panico? intùito vederti
ormai che morta fu la nenia di
baciarti oltre. così commosso l’antro
del mio bene non trova strada sul dazio
del sale. ora me ne andrò per far cometa
il sogno. al vespro la madre non rincasa.
tu sapevi che piangere è morire lungo
la rotta del salario chiuso. misure d’asma
non trovarla più.
14.
vado all’espatrio ogni notte
con un tatuaggio nel cervello
botta e risposta senza fine
la mia carriera visitata da ferri
arroventati. nei denti un faro
di conchiglia. una perplessa
aurora quanto un cimitero
divelto. miserere del respiro
continuare la scansione del
tempo. vocativo d’estro volerti
accanto. camminami sul petto
abbi pietà del mito che ci rese
fragili. passa la vendetta un canestrello
di vespe. la grazia occulta della siepe
è un buon cammino nonostante
non sapere l’aldilà. incudine di putti
verremo uccisi tutti.
15.
qui si sale in coda all’erba vinta
alla riscossa che non sa di niente
né di pane azzimo la scuola.
il perno della foce è dietro l’angolo
una madonna in estro di fallacia
per un girotondo di perle senza
viottolo. si sta conserti mappamondi
in torto sull’occaso di dar spallate al mondo.
16.
al caso del mio cantuccio si cammina
a vuoto. fantasma di rovina accavalla
le gambe come una signorina. inganno
in camice chirurgico non sa operare
la rima con la vita. tacita piange la zucca
delle ceneri parenti, padre e madre simili
al cemento. urlo l’uno silenziosa l’altra
la cuccagna dell’aldilà è da vedere
con l’esame dei bocciati. le spalle ordinate
di soldatini morti. le cicale hanno smesso
per pietà di far tormento al calco dell’estate.
intruglio di penombra questa perpetua
stasi. sentire addosso le resine è cimelio
d’altitudine contro la pozza del seminterrato
d’oggi. ordigno di cometa sapere le regole
del tempo vetuste come la luna presa.
17.
le gambe affusolate dell’origine
incutono un rispetto solitario.
l’indagine di me si fa all’oscuro
dove tramonta l’ebete maligno
e si ristora la belva addormentata.
in un canestro di vuoto il lamento
della giacca lasciata lungo il viale
nero di cornacchie di malaffare.
una cura a salve mi promette pace
cornucopia di ragnatele per salvare
l’eco del tunnel che fa stramazzare
i passeri e i velluti delle spose.
in me silente la bramosia del secolo
consacra bancarelle di molestie
per le stelle che non riescono a salire.
indagine di cometa starti a guardare
alunno che non seppe la lezione
né il rospo cavernoso da salvare.
18.
quale sarà l’occaso che mi stroncherà
il viso. la giostra sarcastica che non giocherà
pietà. mano alla nebbia forestiera
si chiude il parnaso dei cipressi
i pioppi segaligni che stanno stare
al fianco della gara dei ribelli.
in tutta gratitudine voglio chiamarti
amore segno di velluto per la notte.
invece la guerra è alle porte dove
si disprezza il giorno. in un fagottello
di ghiande ho messo via chi sono
una manciata di eremi dismessi
dove piange la fanga abbandonata
l’indirizzo illusorio sul palmo della mano.
19.
Aletta di digiuno guardarti il viso
morto all’altezza della favola
di trovar vita. mitezza d’aquila
la foce senza genitori, sola.
sul foglio di ruggine è caduta
la rondine. in un dirupo di squallido
meandro si azzera la fanciullaggine
la gita pazza di rompere l’argine.
diceria del canneto amarti
sotto i sassi della discordia
la lampada canuta senza luce.
invano questo restare invano
stani nei vespri le stanze più belle
le astenie pro capite di lividi.
è un gennaio afoso quasi un agostano
storpio stanato da chissà quale bestemmia.
guancia di meringa la tua anima
manciata sulla luna e di ricordo.
20.
la gita sotto il crepuscolo
ladrone di speranza
dove si attiene il bozzolo di nascita
la stampella certa del divenire
acrobata di sterco sulla terra.
l’indugio qui a carponi trottola
di niente e sghignazza la fola della fortuna
lontana dove non avviene aureola di sole
né apostrofe d’amore. il nulla dove si aggioga
la clessidra ha il basto certo della risacca
l’acume vuoto di perdere ossigeno.
21.
scansione di autunno le foglie
che vegliano l’amore restio
sul greto della voglia di morire
incudine e martello un solo trespolo
per allontanare la furia della luce
e l’ìndice a cimelio della scorta
d’ombra. bravura già sarà non aver
malore né languore di tirannide la
trottola incapace di pietà. tu dammi
un angolo di cipresso una leccornìa
per la vergogna di esistere e la stazione
dentro l’occhio pavido di dadi da lanciare.
me includi l’arena della giacca per un gioco
di cristalli con le domeniche fangose
sotto guanciali nebbiosi, tragici.
il grappolo di mimosa è fregato
dal fischio del vento senza avvento
nel chiodo dell’orecchio saturnino
nomea di sé giammai l’armistizio.


*Nota

Marina Pizzi è nata a Roma, dove vive, il 5-5-55.
Ha pubblicato i libri di versi: "Il giornale dell'esule" (Crocetti 1986), "Gli angioli patrioti" (ivi 1988), "Acquerugiole" (ivi 1990), "Darsene il respiro" (Fondazione Corrente 1993), "La devozione di stare" (Anterem 1994), "Le arsure" (LietoColle 2004), "L'acciuga della sera i fuochi della tara" (Luca Pensa 2006), “Dallo stesso altrove” (La camera verde, 2008, selezione),  “L’inchino del predone (Blu di Prussia, 2009), “Il solicello del basto” (Fermenti, 2010), “Ricette del sottopiatto”(Besa, 2011);
Sue poesie sono state tradotte in Persiano, in Inglese, in Tedesco.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Non dico che la leggibilità debba essere un fine. Ammetto che l'oscurità possa far parte di un certo tipo di linguaggio poetico. Non ne sono quasi mai infastidito, anzi. Qui però, mi spiace dirlo (perché comprendo il lavoro del poeta e profondamente lo rispetto...), siamo molto spostati verso il limite di uno spettro che va dalla piana leggibilità alla totale illeggibilità. Pare una scrittura in codice, fra versi che in molte occasioni ricordano i messaggi lanciati da radio Londra ai partigiani, e un oracolo dell'antica Grecia. A complicare e rendere difficile la vita al lettore anche l'abolizione delle maiuscole. Mi pare che davvero si pretenda da tale fantomatico lettore molta ma molta pazienza, forse, per come la vedo io, un po' troppa. Una interpretazione parola per parola di una scrittura lunga come questa, senza possederne il codice interpretativo, base di ogni lavoro di decrittazione, è una sfida che pochi possono raccogliere. Allora quale può essere l'obiettivo dell'autore? Quello di essere letto non mi pare il principale. Non credo che ci si possa aspettare che il lettore medio arrivi in fondo senza esserselo chiesto più e più volte.
Ciao
Flavio

Anonimo ha detto...

Non ho compreso il senso , ma dal linguaggio ne esco angosciata. Emilia

Anonimo ha detto...

Tutto è già scritto, non resta che trarne altro senso (il proprio) attraverso un'opera semplice di spremitura.
Sottolineature da libri qualsiasi per trarne un codice cifrato (il proprio).
Non fosse per la serietà e l'incazzatura che la sovrastano, direi che questo scrivere è divertente. A me sembra non ci sia nulla di difficile.
Post-moderno nel post-sperimentalismo? No, sarebbe cadere nel tranello. Il linguaggio non-condiviso rivela sottobanco una poesia convenzionale, ma sepolta e riesumata.
Qual'è stata la chiave di decifrazione ( ci vuol altro che la traduzione) in persiano, inglese e tedesco?
mayoor