Tabea Nineo 1990
Questa è la quinta e ultima parte del mio saggio. Per comodità del lettore che vorrà leggerlo lo pubblico completo in appendice [E.A.]
13. Progettare? Ma scherzi! «Buone rovine» e storie che scottano
Non posso al momento mostrare esempi pienamente convincenti di poesia esodante (i miei li considero, con modestia indispensabile, dei tentativi in tale direzione). E poi oggi, in tempi di crisi, invitare a parlare di progetto (o a presentare dei progetti da confrontare e scegliere) fa storcere il naso.
Diciamocelo lealmente. Di solito ciascuno di noi segue, se non con sufficienza, con la coda dell’occhio qualsiasi discorso “progettuale”. Lo vive come “calato dall’alto”, roba “da critici” o “da intellettuali”. E, se partecipa a iniziative pubbliche, lo fa con saltuaria eleganza (in modo da esserci e non esserci). Si tratterebbe di riti, ai quali presenziare per cortesia o convenienza.
Ora è pur vero che scrivere poesia è atto compiuto in solitudine e l’intervento altrui è previsto semmai a stadio avanzato o ad operazione compiuta. Ma è proprio così? È sempre stato così ed è irrimediabilmente destinato ad essere così?
Non lo credo. Lo stanno a dimostrare per tutto il Novecento il sussegurisi di iniziativie di gruppi, riviste e la stesura di programmi, manifesti, poetiche. E sono convinto che per ragioni storiche profonde, per mutamenti susseguitisi in tutto il secolo ormai concluso - questa è la mia ipotesi guida - quello che oggi a molti appare un io compatto, unitario e chiuso in sé (tradizionale insomma) nient’altro è oggi che un io-noi.
Al fallimento inevitabile di qualsiasi progetto pensano sia gli individualisti che i comunitaristi, legati per partito preso a due prospettive di solida tradizione “naturalistica”: quella della libertà dell’io, che si affermerebbe nella sua identità esclusivamente contro gli altri e distinguendosi da essi più o meno in toto; e quella della sottomissione indispensabile dell’io in una più o meno rassicurante e autoritaria comunità. Da queste ottiche non si scapperebbe a un aut aut: solitudine orgogliosa o regressione quasi tribale.
Ora il mio invito al progetto, ovviamente una costruzione di tanti io per un noi possibile, che non può dunque essere la scommessa di un solitario, non è richiesta di obbedienza a una poetica elaborata da un io o da un noi (un gruppo, un’istituzione). Non si tratta di una pensata da masticare o digerire o sputare. Si tratta di porsi in autonomia un problema: se ci sono dei punti esatti di raccordo tra la ricerca dell’io e la ricerca del noi. Il progetto è la cornice in cui questi raccordi troverebbero ragion d’essere e senso tramite una serie di scelte mai neutre da parrte di ciascuno e dell’insieme di persone che mano mano partecipano alla costruzione del progetto (io dico di poesia esodante, di un noi possibile).
So che una una visione progettuale chiede a ogni io singolo smussare i suoi spigoli e diventare rotellina che scorre assieme ad altre o, come minimo, di aprire qualche finestra e far scorrer una medesimo vento nella sua stanza.
Una tale proposta, dopo i disastri del Novecento, mano mano che ci allontaniamo da storie, che comunque continuano a bruciare e a sedurre o ossessionale la memoria delle generazioni del secondo Novecento, non è affatto facile da accettare. Le differenze ci sono e resistenti: io posso giudicare nichilismi o deliri solipsistici cose che per altri hanno una sostanza, una “polpa” che io non ho assaggiato; e, viceversa, essi possono diffidare o pensare ogni male possibile della mia proposta di poesia esodante; o dare un altro nome a quello che parrebbe essere la stessa cosa («post-poesia» è il nome che, credo, Linguaglossa gli dà).
E tuttavia, accanto alle differenze che spingono alla frammentazione, che può in certe circostanze essere anche positivamente destruens, ma di per sé, automaticamente, mai si volge in costruzione, esistono spinte, magari deboli, alla cooperazione. E solo l’abbozzo di un progetto nuovo, capace di ricevere una certa attenzione e consenso permetterà poi di capire se le «buone rovine» dei singoli (ciascuno ha le sue) sono compatibili o integrabili con esso.
14. Io, io-noi, Noi, noi possibile.
Le incognite da risolvere, perciò, sono sia sul versante dell’io, che non è più quello di una volta, sia su quello del noi, altrettanto mutato rispetto al passato. Ed è importante che nell’ottica progettuale la ricerca del noi vada considerata decisiva e importante quanto quella dell’io. Non si deve dare più all’io la scappatoia che, nel deserto o nel mare in tempesta del noi, esso sia ancora l’unico “bene rifugio”, la sola ancora di salvezza, il salvagente cui aggrapparsi.
Non è detto che si riesca a far incontrare i due processi dell’io e del noi, ma neppure è già deciso che si fallisca. La prospettiva per collocare in una nuova cornice progettuale sia il lavoro dell’io che del noi tramite l’attivazione degli io-noi più inquieti e dinamici, evitando i due estremi - la chiusura solipsistica, l’imposizione obbligante di un Noi superegoico - ha oggi, a essere prudenti, più fondamento di ieri[1]. Anche dopo le sconfitte pesanti del Novecento. Nella storia (anche nella storia della poesia) restiamo, al di là dei falsi profeti della sua fine, in un campo fluido e pieno di sorprese. Possiamo ancora una volta scommettere. E senza cadere in facili ottimismi.
15. Un rapporto diverso anche tra pochi e molti?
Anche la contrapposizione binaria tra pochi e molti, pur confermandosi come la dominante, appare logorata e, quindi, inadatta a fungere da paradigma di un’opera costruttiva. Accettandola acriticamente, si finisce poi per sorvolare sui complessi intrecci che legano i due blocchi (dei pochi e dei molti), i quali restano sì contrapposti, ma non possono essere più rappresentati come due eserciti. Le energie fluiscono in realtà disordinatamente verso il basso e verso l’alto (o l’apparentemente basso e l’apparentemente alto), dai pochi ai molti e viceversa, aggirando o eludendo spesso gli schieramenti ufficiali.
La stessa vischiosità del ceto medio poetico, cui ho fatto cenno, ne è una prova. Non deriva da una sorta di DNA del ceto medio, ma da influssi anche esterni. È un atteggiamento storico e non dovuto a leggi naturali. E quindi mutevole. Da ciò non deduco che la vischiosità sia un bene in sé, ma che dialogare, polemizzare, criticare da una parte e dall’altra, dalle opposte sponde o sulle sponde apparentemente simili, permette di verificare quali siano i nodi veramente conflittuali e reali, le ragioni profonde del contendere (che ci sono indubbiamente e non sono dovute esclusivamente ai caratteri, alla psicologia, alle passioni, alle ideologie), come vengono rappresentati convenzionalmente.
E perciò nella tesi 3 (qui) ho insistito - e non per pacifismo - sulla necessità di «essere laboratores di poesia (essere in laboratorio), più che oratores della Poesia sacerdotale o bellatores della Poesia d’avanguardia».[2] O nella tesi 4 (qui) ho chiesto di «riaccostare il fare poesia al fare critica e non, come accade oggi, separare o contrapporre le due funzioni». O nella tesi 5 (qui) ho detto: «Essere molti in poesia è rendere scorrevoli i rapporti tra livelli alti medi e bassi del fare poesia (o parapoesia o similpoesia)». O ho accennato, nella tesi 6 (qui), a tutto il lavoro di riflessione da compiere (come io-noi) per «costruire una nuova estetica».Tutte indicazioni che nascono da una visione fluida e in movimento.
16. Vademecum Finale
Visto che a porsi il problema di un progetto in poesia sono in genere degli “umanisti”, è da mettere in conto – preventivamente e senza offesa per nessuno - una faticosa risalita innanzitutto dalla voragine d’ignoranza, snobismo e sottovalutazione degli sviluppi sconvolgenti, non sottovalutabili e neppure degni di semplice esaltazione (la trahison des clercs essendo venuta anche dagli scienziati!) prodottisi nei campi scientifici: dalla comunicazione alla finanza, al militare, al tecnologico. Bisogna sapere che l’oscillazione contraddittoria del mondo contemporaneo fra falsa globalizzazione e convulsioni localistiche è gestita, agli alti livelli, scientificamente (il che non esclude follie) e, ai livelli medi e bassi, anche umanisticamente (con follie di diverso genere forse). Tentare di contrastarla solo umanisticamente non basta. Anche perché ormai maneggiamo, nolenti o volenti, residui frammentati ed eterogenei delle grandi narrazioni dimostratesi insufficienti per capire cosa sta succedendo. Far finta di niente è suicida.
Bisognerà tornare, anche come poeti, a riconoscere e a sfidare i veri convitati di pietra, i poteri dominanti del Capitale Internazionale, che hanno cooptato o subordinato, in modi raffinatissimi o brutali, tutti i tipi di sapere e la maggior parte degli intellettuali (compresi i poeti). Scienze, umanesimi e avanguardismi sono stati quasi pienamente inglobati. Il pensiero critico anticapitalista è ai minimi termini e giudicato da molti un rottame del passato. Oggi però senza ricorrere a tale pensiero critico i nemici “più nemici” restano inaccessibili sia allo sguardo umanista sia a quello neutramente scientifico sia a quello “alternativo”.
Ci sarà da scovarli, strappandoli alle ombre dell’inconscio o alle nebulosità del virtuale, in cui si celano. E ci vorrà un altro sguardo, che non è fornito in anticipo dall’adesione o dall’appartenenza ad una tradizione buona (scientifica o umanistica) o da una scelta anticonformista; ma sorgerà solo se si riuscirà a costruire una nuova critica a stretto contatto con questa, temibile ma non aggirabile “realtà” che ci avvolge e ci chiude in ghetti mentali, anche quando ci permette spostamenti reali o virtuali impensabili alle generazioni più vecchie.
Bisogna che nel ceto medio si sviluppi un processo politico che permetta di vivere la propria condizione reale non come un fastidioso limite da mascherare o rappezzare. Bisogna che il “cattivo soggetto” impari a riconoscersi come possibile “buon soggetto” e a riconoscere di non essere una copia degradata rispetto ai modelli alti dell’intellettuale borghese o eretico-borghese, ma di potersi manifestare in tutta la sua pienezza, rifiutando i ruoli di intellettuale intrattenitore o educatore dei barbari da integrare nella falsa res-publica del Capitale.
E perciò bisogna moltiplicare i luoghi dove elaborare una poetica “cetomedista”, una paziente e amorosa critica inter nos (non ipocrita, non diplomatica, non cannibale/fratricida, ma severa, seria, argomentante); e procedere a una bonifica con tutti i sensi rivolti all’extra nos. Luoghi pensati sulla “taglia” dell’attuale ceto medio. Luoghi per uscire dal guazzabuglio di marxismi residuali, psicoanalismi, ecologismi, estetismi postmoderni in cui ancora ci dibattiamo; e rinvigorire un pensiero critico adeguato al paesaggio sconvolto in cui ci siamo venuti a trovare. Luoghi dove si sia capaci di dialoghi viso a viso, non virtuali (senza negare il valore della comunicazione virtuale) per permettere a singoli e gruppi d’incontrarsi, discutere, scambiarsi scritti privati, ma tendenzialmente pubblici, vagliare qualità e contenuto dei medesimi, ripulirsi dalle inevitabili tensioni, invidie, antipatie e simpatie, attrazioni e repulsioni, pregiudizi, avendo presente che l’obiettivo è di arrivare ad altri mondi, agli altri di cui si parla (e di misurarsi con i convitati di pietra che ci dominano). Solo così il “cattivo soggetto” potrà farsi le ossa ed evitare gregarismi e scorciatoie.
Ci vuole - e qui torno alla mia posizione - un esodo dalle forme istituzionali consolidate. Non si scappa. Nell’ Egitto del servilismo e della subordinazione non si costruisce per l’esodo, per il noi possibile.
La forma provvisoria dei laboratori (dal foglio personale, alla rivista povera, al foglio volante, al sito anticonformista su Internet, alla rivista “carbonara” accolta in qualche piega istituzionale) è quasi d’obbligo oggi, se non si vuole restare nella nicchia di un privato ampiamente colonizzato o aggregarsi ai potentati che controllano ottusamente una sfera pubblica devastata. Anche nei casi dove sembrasse giusto restaurare e non radere al suolo quello che ancora regge (solo però se regge!), è bene sapere che il sostegno a vecchie istituzioni in vista di una loro rifondazione, che di solito pare preferibile alla ricerca autofinanziata o di gruppo, s’accuccia all’ombra di un paternalismo istituzionale, sempre meno illuminato e in fondo paralizzante.
Da questo lavoro potrà venire un’immagine positiva del ceto medio poetico: non succube dei massmedia, né infantilmente onnipotente, non arruffona, in contatto vivo con i bisogni degli altri/ le altre, capace di confrontarsi (senza demonizzarla) con l’intellettualità accademica umanistica e scientifica.
Solo a queste condizioni potrà affiorare una poesia esodante, né di epigoni né d’avanguardie, né prona alle Corporazioni né tentata dai nichilismi da ghetto; e che si ponga a mezzo – spezzandone l’incantesimo - fra il silenzio o la riflessione interiore dell’impolitico e il fracasso e gli spasimi dell’attualità politica. E allora forse il termine stesso di poesia esodante potrà essere indifferentemente sostituito o mantenuto, poiché il contenuto positivo, oggi inabissatosi, avrà raggiunto nuova evidenza.
23 luglio 2012
[Fine]
[1] È quel che ho cercato di dire parlando degli intellettuali di massa e periferici ( e quindi anche dei poeti) che vivono una situazione del tutto diversa da quelli tradizionali. Ne trovo una conferma anche in queste parole di Romano Luperini: «I nuovi intellettuali, privi di autorità e di centralità, stanno cercando forme di organizzazione d d’intervento che sembrano possedere due fondamentali caratteristiche: agiscono dal basso, puntando sulla relazione orizzontale a rete, su connessioni fra loro liquide e veloci, e agiscono collettivamente, cercando intese capaci di formare movimenti o gruppi mobili, che si aggregano e si disgregano facilmente, ma che implicano comunque un’idea di comunità. Non hanno più nulla della figura tradizionale dell’intellettuale-uomo di cultura, orgoglioso della propria missione individuale e della singolarità del proprio sapere-potere. Della loro passata funzione probabilmente conservano solo questo: la volontà di capire e di intervenire con la loro voce. Tutto sommato non è poco». ( R. Luperini, Otto tesi sulla condizione attuale degli intellettuali, p.14, in Allegoria n. 64 luglio-dicembre 2011
[2]. E ho precisato: «Solo in un’attività di laboratorio le due spinte fondamentali del fare poesia - quella espressiva dell’ ‘io’ (privata, individuale, apparentemente libera) e quella pubblica del ‘noi’ (sorvegliata, critica, pedantemente normativa) - potranno ritentare un confronto. Il laboratorio può/deve funzionare da cerniera tra il momento della ricerca in solitudine dei singoli poeti e il momento dell’incontro con gli altri».
APPENDICE. Saggio completo
PER UNA POESIA ESODANTE
La poesia passata a contrappelo.
Sulla ex-piccola borghesia o ceto medio in poesia
di Ennio
Abate
Divergevano due strade in un bosco
ingiallito, e spiacente di non poterle fare
entrambe uno restando, a lungo mi fermai
una di esse finché potevo scrutando
là dove in mezzo agli arbusti svoltava.
Poi presi l’altra, così com’era,
che aveva forse i titoli migliori,
perché era erbosa e non portava segni;
benché, in fondo, il passar della gente
le avesse invero segnate più o meno lo stesso,
perché nessuna in quella mattina
mostrava
sui fili d’erba l’impronta nera di un passo.
Oh, quell’altra lasciavo a un altro giorno!
Pure, sapendo bene che strada porta a strada,
dubitavo se mai sarei tornato.
Io dovrò dire questo con un
sospiro
in qualche posto fra molto molto tempo:
divergevano due strade in un bosco, ed io…..
io presi la meno battuta,
e di qui tutta la differenza è venuta.
(Robert Frost, “La strada non
presa”, Traduzione di G. Giudici)
1.Coincidenze
Sul sito
(cuginastro?) di LPLC ho letto «Il romanzo nell’epoca della postletteratura» qui. Il saggio - una introduzione di Carlo
Carabba a L'inferno del romanzo del
francese Richard Millet - sfiora appena il tema ‘poesia’, ma ho trovato delle
coincidenze non casuali tra i suo concetti di «epoca della postletteratura» (la
nostra d’oggi) o di «estetica postletteraria» e i discorsi sulla «post-poesia»
o sul’«epoca della stagnazione» spesso accennati, sul questo blog e altrove, da
Giorgio Linguaglossa.
Per farsi un’idea, vediamo nella sintesi di
Carabba cosa si intende per
«postletteratura». Per Millet:
«Postletterario
è chi «scrive senza avere letto» (af. 277), la sua principale caratteristica è
scrivere senza rendere conto di trovarsi in una tradizione: «Nei postletterari,
tutto risiede nella postura, vale a dire nell’ignoranza della tradizione e
nella fede nei poteri di immediatezza espressiva del linguaggio» (af. 346), o
anche «postletteratura come confutazione dell’albero genealogico» (af. 233).
L’autenticità data dall’immediatezza è obiettivo dello scrittore postletterario
e prova della sua validità: «L’ignoranza della lingua in quanto prova di
autenticità: ecco un elemento dell’estetica postletteraria» (af. 3); «il
romanziere postletterario scrive addossato non alle rovine di un’estetica
obsoleta ma nell’amnesia volontaria che fa di lui un agente del nichilismo, con
l’immediatezza dell’autentico per unico argomento» (af. 92). […] In poche
parole l’autore postletterario è quello che considera la letterarietà come un
disvalore, che rinuncia a interrogare la tradizione a favore di uno
spontaneismo compositivo, in cui l’atto creativo può rispondere a certe regole
più o meno apprendibili e formalizzabili, ma mai a uno sguardo sull’«abisso
come principio di conoscenza» (af. 290)».
Ed
ecco come (sempre nella sintesi di Carabba) vengono indicati i dilemmi
dell’estetica (o del gusto) nell’«epoca della postletteratura» e si potrebbe
aggiungere senza forzare troppo della «post-poesia»:
«E la
domanda regina che comprende tutte le altre è: nell’epoca del «totalitarismo
della democrazia» chi decide del gusto? Una maggioranza sovrana, un capitalismo
che manipola una maggioranza bovina, sfruttandone le pulsioni più basse, un establishment culturale fintamente
indipendente e colto ma in realtà profondamente superficiale e «postletterario»
o un drappello di uomini coraggiosi e nobili che oppongono una sapienza dolente
e dolorosamente acquisita alla stoltezza dei tempi? O è ancora possibile
pensare, almeno in qualche misura, a un buon gusto cartesianemente diffuso in
parti simili tra gli esseri umani? In un motto è la questione irrisolvibile
degli arbitri elegantiae e delle preferenze
irragionevoli del pubblico.
L’oggi del
blog e il domani dell’ebook portano con sé la paura di cui Millet parla, di una
cattiva orizzontalità (come la proverbiale notte delle vacche nere di Schelling
su cui ironizza Hegel) in cui tutti i romanzi avranno pari dignità e sarà
impossibile tentare di ristabilire gerarchie che non siano quelle del mero dato
commerciale.
Pare che Alberto
Arbasino osservasse che, con i criteri delle classifiche di vendita, il miglior
ristorante del mondo sarebbe McDonald’s. Eppure laddove alla tirannia del
mercato si è sostituita quella della critica letteraria, i risultati sono stati
ancora peggiori. Lo stato della poesia oggi è miserevole. Non è letta, non è
amata, anche molti lettori colti (e conoscitori dei poeti della tradizione)
davanti a una raccolta scritta da un poeta contemporaneo storcono il naso e
alzando le spalle si schermiscono con finta umiltà: «Sai, io la poesia non la
capisco.» Così al poeta non resta, se vuole essere letto e apprezzato, che
rifugiarsi in scuole e consorterie, che – più rigide dei corsi di scrittura
creativa – impongono regole a cui non si può non rifarsi e da cui si ingenera
un fiorire di poeti indistinguibili gli uni dagli altri, poesie di maniera,
banalmente e interamente aderenti a un modello.
La
letteratura, dunque, non può fare a meno di un pubblico. Può darsi che Millet
abbia ragione, e da fare non resti nulla, se non contemplare, con la
soddisfazione e il dolore di Cassandra, la fine già in atto.»
Noto che
da più parti ci poniamo gli stessi problemi. Giancarlo Majorino» ha parlato di
recente di «dittatura dell’ignoranza».[1]
Anche il mio discorso sui “moltinpoesia”(qui)
rientra in questa cornice. Come vi rientra quello che Giorgio Linguaglossa va
facendo da tempo sul «predominio culturale della piccola borghesia», sul quale
concentrerò la mia attenzione in questo scritto, partendo da una domanda: perché si oscilla tanto tra disperazione, profetismi, piccole risse,
ripetizioni in farsa di vecchie
contrapposizioni?
2. Uscire dal pantano. Siamo tutti ex-piccolo borghesi, meglio cetomedisti
Provo a
dare una risposta: perché stiamo parlando di noi stessi, delle nostre
ambivalenze, delle nostre sudditanze convenienti e mascherate, delle nostre
eroicistiche ma a volte inconcludenti solitudini. Perché, in altri termini, siamo tutti ex-piccolo borghesi, siamo i cetomedisti della poesia.
Non è
un’affermazione qualunquista. Né vuole essere solo provocatoria. È che i
discorsi inter nos tendono al
moralismo (io sono diverso - e sotto sotto superiore - da questi a cui mi
rivolgo) invece che alla politicità (siamo
tutti io-noi diversi, discordi, in cerca di un noi possibile, ma non più
garantito). E moralistico è stato l’uso della categoria piccola
borghesia, che da marxista è diventata
negli anni Ottanta del Novecento berardinelliana-enzensbergerghiana;[2]
Il moralismo non ci fa vedere quanto sia cambiata la realtà della società né
capire che il ceto medio, concetto sostitutivo, sia in effetti un
‘concetto-ripostiglio’ troppo vago: rimanda a una realtà che andrebbe indagata,
ma che nessuno o pochi indagano. Queste
cose in parte le avevo già scritte nel 2010 a Giorgio Linguaglossa in una lunga
lettera che ho richiamato nel post
precedente (qui);
e avevo citato pure una delle poche
analisi serie del fenomeno, quella di Sergio Bologna (qui).
Senza ricevere né smentite né approvazioni. E anche questo me lo spiego con la
vischiosità della nostra condizione.
Vivendola dall’interno, anche le differenze che tentiamo di stabilire (che io
tento a stabilire, che Giorgio o altri tendono a stabilire) non riescono a portare più a uno scontro chiarificatore
neppure tra noi. Eppure è necessario uscire da questo caos calmo”[3]
Perché questa vischiosità? Procedo per piccoli passi…
3. Non esiste
un «paradigma stilistico-politico della piccola borghesia»
Se si
potesse parlare di un mandato affidato
dal Capitale alla piccola borghesia (per me non più piccola borghesia ma almeno ceto
medio), (come una volta si parlava di mandato della classe egemone o
subordinata agli intellettuali, poeti compresi), il discorso potrebbe già
diventare meno nebuloso. Ma tale mandato non esiste. Chiediamoci, infatti,
se il «predominio culturale» sia oggi davvero quello della piccola
borghesia, come sostiene Giorgio. Anche se
certi suoi rappresentanti
pubblicano con Mondadori e altri no, una differenza stilistica discriminante
tra loro e i non pubblicati dalle grandi case editrici non c’è. E non ritengo possibile parlare di
stile internazionale della piccola
borghesia, come Giorgio ha fatto, ad esempio, nel post su Hass (qui).
In Italia
i poeti che egli colloca nel “quotidianismo” o nel “minimalismo
lombardo-romano”, volendo accettare senza cavillare la giustezza delle
categorie, non sono davvero dominanti,
non sono veri «funzionari del capitale» (La Grassa[4]).
Hanno semmai un certo seguito e una funzione sociale minima (ne ha di più la
narrativa alla Saviano…) e il loro ruolo è appena di prestigio, onorifico.
Neppure il sistema massmediatico preferisce e potenzia i “quotidianisti” o i “minimalisti” ma i reality show. Forse si potrebbe dire che
“i quotidianisti” si siano adeguati al sistema massmediatico imitandone
gregariamente quello stile emozionale, pubblicitario, spettacolarizzato. Non
per questo ricevendo un mandato o svo3lgendo un’azione di evidente egemonia
culturale, che è al massimo di nicchia.
Per me -
e qui una ragione di dissenso con Giorgio - non c’è, non si è affatto affermato
un «paradigma stilistico-politico della piccola borghesia del Ceto Medio
Mediatico». La crisi della poesia non è dovuta all’affermazione di tale
paradigma. La crisi, semmai, nasce dal non avere più questo ceto medio in
poesia (ma operante anche in letteratura o nei vari saperi umanistici) la
possibilità di autorappresentarsi
rapportandosi o a un noi borghese o a un noi proletario.
I dubbi
perciò su questo primato sono tanti e richiederebbero analisi puntuali e
documentate, che qui non posso neppure
tentare. Allora - direi - possiamo pure criticare un certo settore della poesia
d’oggi - i “quotidianisti” o i “minimalisti” -, ma non perché abbiano vinto e
imposto un loro paradigma, ma perché si sono adagiati nella “quotidianietà” e
non si pongono di fronte al vuoto che si
è creato (quello che ho chiamato una volta del «Conflitto sconfitto»). Non sono
in grado di nominarlo, dirlo anche in poesia, ma ci danzano su, ignorandolo,
infittendo la rete dei loro pensierini poetici chiusi in un presente che non
scorre, che è senza porte verso il passato e senza finestre verso il futuro; e
che essi registrano nella sua “prosasticità” senza vie d’uscita.
Allo
stesso tempo, però - questa è la mia convinzione - dobbiamo anche criticare i
nostalgici della poesia premoderna, perché anch’essi sfuggono lo stesso vuoto
magari finendo in qualche Arcadia artificiale o passato mitico ridotto a culto privato; e
rimangono - per l’oggi - negli
interstizi di questa società più o meno fieri
e imbronciati.
Da questa
rimozione del vuoto (che è per me
soprattutto vuoto storico, sociale,
politico) complicazioni e equivoci
irrisolti e inediti.
4. La piccola borghesia ai tempi di Fortini e Montale
Provo,
facendo un altro passo, a riallacciarmi a un mio commento sul nodo
Montale-Fortini-Mengaldo (qui);
e in particolare al punto in cui scrivevo «c’è piccola borghesia e piccola
borghesia» e mi dichiaravo - ancora una volta e per le stesse ragioni già
indicate - contrario ad «un’assolutizzazione della categoria ‘piccola borghesia’» o di quella affine di «ceto medio».
Può
servire un confronto con queste due figure: Fortini e Montale. Fortini si poteva rapportare ancora a un noi reale e
storicamente solido (il movimento operaio, i “paesi allegorici” che per lui
furono l’Urss, il Vietnam, poi la Cina). Quel noi ai suoi occhi pareva potesse
ereditare una grande tradizione classico-borghese (lucacciana o adorniana) da
contrapporre all’invasione dell’industria culturale, a cui Pasolini parve
cedere. Poteva anche ricorrere fiduciosamente alla «sublime lingua borghese»
come argine ai linguaggi dei mass media. O sentire ancora la “lotta per i
comunismo” come un processo di inveramento possibile dei valori della Totalità
Umanistica. Proprio quei valori che, forti in passato, il Moderno aveva
spezzato o accantonato, promettendo di sostituirli con altri ben più
universali. Poteva, infine, pensare alla propria poesia come un omologo
anticipato della Forma, che l’umanità, uscendo dalla servitù capitalistica,
avrebbe potuto dare alla propria vita,
E, sul
versante opposto, un Montale, proprio
rimuovendo quel noi e il conflitto storico, che invece Fortini (o
Pasolini) accoglieva come elemento
fondamentale della propria poesia (in modi in realtà non coincidenti nei due
autori…), poteva rinchiudersi altero e modesto allo stesso tempo nella turris
eburnea del suo Io esistenziale; e rivolgersi all’Altro, distanziandosi nel
contempo dagli altri («ciascuno riconosce i suoi»…). O, dopo Satura, accogliere con suprema ironia la “non poesia” dei linguaggi
quotidiani, lui, si, cooptato per questa
sua aderenza piena allo spirito del tempo
dei dominanti nell’élite dei privilegiati della Cultura mediatica.
5. Foto di gruppo del ceto medio intellettuale e
poetico odierno
Il ceto
medio che opera oggi - qualcuno, seguendo i suoi intrecci crescenti coi
processi d’informatizzazione, l’ha definito dei «lavoratori della conoscenza» -
ha visto, invece, davvero chiudersi la porta in faccia dagli sviluppi della
storia recente; e si trova in una specie di pantano (o di limbo a seconda i
gusti), nel quale è quasi impossibile pensare a vere alleanze con gli ignoti
che stanno più in basso nella scala sociale o sperare in consistenti
cooptazioni nella cerchia di quelli - malnoti o altrettanto ignoti - che stanno
in alto.
Una
posizione di guida intellettuale (magari non partitica come nelle sue forme classiche furono la sartriana
e la fortiniana, a me più note) non è
più e da tempo alla nostra portata.
Questo
vale anche in poesia. E sarebbe deleterio scimmiottarne il modello.
Quella
funzione di guida presupponeva, infatti,
un inserimento, riconosciuto e riconoscibile, in istituzioni allora
vivaci (editoria, università, riviste o giornali di partito). Si era comunque
più vicini alle condizioni di vita delle élites industriali ed umanistiche (si
pensi al ruolo avuto da Adriano Olivetti). Condizioni che oggi si sono disfatte
o sono state del tutto subordinate alle regole del capitale (e non solo quello
“mediatico”). Né quelle condizioni di
vita né quel tipo di lavoro intellettuale sono, dunque, più accessibili agli
intellettuali di massa o periferici.
Son cose
che avevo cominciato a pensare e a scrivere
fin dagli anni Ottanta, accorgendomi di quanto questo ceto medio
allargato è (noi siamo con lui) dentro circuiti di lavoro intellettuale
flessibili, fungibili, periferici (davvero un lavoro come un altro) e
moltissimi dei suoi rappresentanti finiscono anche nei gironi infernali del
lavoro precarizzato e della disoccupazione. Quindi quella funzione - tipica, riconosciuta e riconoscibile - dell’intellettuale
e del poeta, comunque esterna alle attività strettamente professionali
(molti sono stati e sono i poeti impiegati o insegnanti) o esercitabile in un tempo libero meno
coattivo, teleguidato, asfissiante di quello d’oggi - non è più praticabile.
Specie per quanti - ripeto - finiscono precari o disoccupati[5]
e, dunque, ancor più “ai margini”.
Eppure
quella funzione è indispensabile.
Perché se manca, se viene meno del tutto, se
chi più la vede sfuggire non
tenta di afferrarla coi denti, non ci sarà più critica, non ci sarà più cultura che non sia quella
imposta dai dominatori e dai loro funzionari attraverso i mass media.
E allora
quella funzione critica universale, svolta in passato dagli
intellettuali tradizionali in istituzioni
relativamente autonome dai poteri forti (economici e politici), va
comunque svolta o perseguita entro queste nuove, degradate condizioni. Dovunque
noi ci ritroviamo a vivere e a “lavorare” (finché ce lo permettono)[6].
6. Un “cattivo soggetto”
Questo
ceto medio (in via d’impoverimento) è, dunque,
un “cattivo soggetto”, che poco somiglia all’intellettuale o al poeta di
una volta. Ma esso è, però, l’unico serbatoio sociale da cui – non so dopo
quanti sforzi e fra quanto tempo – ci si può aspettare l’emergere di singoli e
gruppi capaci di pensare e affrontare
i confusi problemi d’oggi:
globalizzazione, trasformazione del lavoro, revanscismi etnici, ritorno del
sacro, ecc. E, farci i conti - tanto per non dimenticare l’argomento - anche in
poesia.
Si tratta
di una vasta fascia scolarizzata, culturalizzata, non più
interessata saltuariamente alla
produzione culturale, ma spesso consumatrice
indefessa e ossessiva della vasta gamma di cultura-merce che sotto la
spinta del Capitale ha assunto dimensioni
del tutto incontrollabili.
Essa,
com’è stato da tempo detto, potenzialmente costituisce anche il blandito o
vituperato pubblico della poesia.
Che però, pur attivo in proprio e in forme per lo più “selvagge” ( e quindi
meno pubblico come quelli che c’erano una volta o pubblico sui generis), resta fuori o alla periferia degli Istituti
universitari, delle Fondazioni, delle Case editrici, dei Giornali, dei Clubs,
eccetera, nelle pieghe sociali e istituzionali, in cui è possibile una
sorta di semiclandestinità del lavoro
culturale (e anche poetico) tra l’amicale e il professionale.
Nei
confronti degli appartenenti a tale ceto medio pare venga eseguita giorno dopo
giorno da invisibili custodi una sadica condanna kafkiana: “Entra, se vuoi, nel
mondo della cultura…Ma solo come consumatore! Sii eco (“Hai letto l’ultimo
libro di Eco?”) e basta...
Esiste
dunque - e se ne discute - una intellettualità di massa periferica anche in
poesia, economicamente garantita o fragilmente precaria e che s’aggira alla
ricerca di identità e di riconoscimento; e prova tutte le strade per
guadagnarsi sia da vivere (per sostenere
la sua “vocazione” alla poesia) sia per esprimersi anche nelle forme più o meno
gregarie che le vengono offerte da Case
della poesia, associazioni culturali, premi letterari, festival. E, nel
frattempo, si prepara, approfondisce,
divora libri, sorbisce corsi di
aggiornamento, seminari, convegni, conferenze, apparizioni fulminee di maitres
à penser doc, di cui annota religiosamente anche le sputacchiate. In
soldoni: lavora gratis,
consumando soprattutto la cultura
che passa per il mercato. E poi, quando apre gli occhi e
s’accorge che tirare per la giacca il santo protettore prescelto o sgomitare-
essendo in centinaia o migliaia - è vano
(per le leggi ferree del mercato si è pubblico e si deve restare pubblico e al massimo si può concedere (o ci si
concede) uno slam, un karaoke, un microfono aperto di pochi minuti),
delusa, si chiude nel privato, va negli orienti della mistica o riscopre in
modi consolatori i miti delle antiche aristocrazie o riparla (a vanvera) di rivoluzione. Ma non
riesce a pensare e a progettare davvero l’esperienza coatta di cui soffre, a costruire schemi diversi da
quelli obbligati della cultura dominante mercantile.
Questo
ceto medio (in via d’impoverimento), che coltiva riscatti individualistici immaginari e viene
blandito con false promesse, può (mai dire: dovrà) emanciparsi, riconoscere
sprechi e dissipazioni della propria intelligenza e dei propri sentimenti
e costruirsi un’idea meno fantasmatica del Lavoro, della Cultura, della Storia,
della Società in cui viviamo?
E agire per affermarla?
7. Inchiesta e scommessa
Per
trovare una risposta seria alla domanda appena posta, ci vorrebbe un’inchiesta
seria, una conoscenza precisa di cosa ribolle nelle profondità di tale
“nebulosa poetante”, che è prima di tutto un variegato e complicato calderone
sociale: com’è composto? da quali
tensioni è attraversato? quali sono le partizioni oggettive e soggettive al suo
interno? e - per quel che ci riguarda - come i singoli o le varie frange
rappresentano in poesia -
esplicitamente o implicitamente - questa loro condizione? che consapevolezza ne
hanno? come si collocano poi di fronte ai fantasmi degli altri (quelli di sotto e quelli di sopra…) o al fantasma Mondo?
Un’inchiesta
del genere non è oggi, così come stanno (caoticamente) le cose, pensabile o
praticabile da isolati, anche se
tentativi che muovono in tale direzione non mancano.[7]
Che fare allora? Piangerci addosso? Continuare
a rissare in bicchier d’acqua? Sollevare
le solite polemiche umorali che interessano sì e no un centinaio di
addetti ai lavori? A me verrebbe da dire, soprattutto ai più vecchi che una
storia alle spalle ce l’hanno, che c’è - prima ancora dell’inchiesta improponibile
seriamente per assenza di sostegni veri - da fare una scommessa. E a favore
della costruzione di un progetto, che intenda uscire sia da contrasti di poetiche
non veramente discriminanti sia dal pluralismo che fa convivere tutto e
tutti.
8. Contraddizioni interne a gruppi diversi,
concorrenti ma in modi subordinati
Chiarito
che siamo tutti ceto medio e che non è possibile più essere dei piccolo
borghesi alla Montale o alla Fortini (a seconda delle preferenze), ci restano
del passato vari modelli: eroicistici, nicciani, “neo/neon/avanguardistici” o
fortiniani, montaliani, ecc. Sono necessari (ciascuno porta con sé -
ammettendolo o negandolo - le sue «buone
«rovine»), ma da soli insufficienti per la chiarificazione della
situazione presente e in mutamento. Sono simboli non trascurabili, sintomi di
adesioni profonde a una storia o a una visione del mondo, ma da soli non
decisivi.[8] Nello specifico del discorso poetico,
ne consegue che, come dice Linguaglossa, è vero: la “democratizzazione” dei
linguaggi poetici “quotidiani” subisce l’egemonia di quelli dei mass media ed
è ad essi subordinata (e depauperata
delle sue potenzialità). Anche perché la democrazia e la poesia non possono
ridursi alla dimensione del quotidiano. Né esse possono esserci (ammesso che le
si trovi dove si dice che siano) soltanto nel quotidiano. È però vero pure che
l’aristocraticismo - opposto della
medaglia -, che oggi permane negli interstizi o nelle frange del ceto medio più
ai margini dalle mode “democratiche” e muove una critica in parte accettabile a tale fasulla democratizzazione, limitandosi a
fare il broncio e a richiamandosi all’antico, al premoderno o alle Origini,
resta un aspetto, complementare ma non
alternativo della situazione di stallo.
E riesce patetico coi suoi tratti di nobiltà decaduta quanto l’altro -
il democraticismo - appare arrogante,
rampante o falsamente modesto.
Le
critiche di Linguaglossa ai settori “democraticisti” della ricerca poetica
odierna avrebbero però un buon valore euristico, anche ai fini dell’inchiesta
che ho evocato, se appunto fossero depurate dal moralismo o dalla pretesa di
rappresentare la “linea”” o la poetica
buona. Che manca e andrebbe cercata. Qui
un altro punto di dissenso. Mi va bene dibattere tra contrapposizioni interne alla ex-piccola borghesia, come
quella tra i poeti proposti da Giorgio (Madonna, Busacca, ecc.)
e i minimalisti-quotidianisti, o, per stare a Pozzoni, tra i poeti che scrivono
poesie e i poeti che dicono di fare “non poesie”, ma non riesco a pensare che
queste siano le differenze ultime e determinanti e che, confliggendo tra loro e
portando a una chiarificazione auspicabile, ci faranno uscire dalla crisi della
poesia. Anche se - nolenti o volenti - la «post- poesia» ci avesse spinto su un
nuovo terreno, come Linguaglossa sostiene, non stiamo affatto per entrare nella luce di una nuova aurora.
A me non
pare che precursori di tale nuova aurora
possano essere i linguaggi “morti” di Madonna o di Busacca (come non lo sono
quelli dei “quotidianisti”). Perché la subordinazione, sostanzialmente
politica, la vedo negli uni e negli altri. La vedo in entrambe le poetiche.
Entrambe per me sono poetiche di
sconfitta o risposte reattive di autodifesa dopo una sconfitta di fronte a
un mutamento della società che non riescono a pensare e a rappresentarsi e di
fronte alla crisi della poesia, che stava maturando da tempo ed è poi esplosa
(all’ingrosso) nella metà degli anni Settanta. Sono false risposte o - al
meglio - mezze risposte. Sia sul piano politico sia su quello estetico. Non un
paradigma vincente o addirittura dominante.
Nelle
prime c’è troppa nostalgia per qualcosa di morto e l’accettazione della
sconfitta politica (complementare). Nelle seconde c’è il riconoscimento che il
morto è davvero morto, ma questa contrattazione, che potrebbe essere un
vantaggio, si perde nella rincorsa a bere il più in fretta possibile la “tazza
del consolo” della semplice accettazione del presente così com’è, senza
interrogarsi più su chi lo impone e cosa viene indirettamente così imposto alla
stessa ricerca poetica.
9. Scommessa e terreno di chiarimento
A me pare
realistico, invece, pensare che le classi (soprattutto quelle popolari e lavoratrici) siano state
sconvolte; e siano per ora impotenti,
comunque disgregate, fluide nei loro contorni, che erano invece abbastanza
netti e affidabili una volta. Siano cioè incapaci di autoriconoscersi e di
ricostruire alleanze e progetti. E in mezzo ai residui dei tradizionali
raggruppamenti una volta fondamentali (borghesia e proletariato, dominatori e
dominati) vedo questo vasto e arlecchinesco ceto medio in via di crescente
impoverimento o in uno stato di
ebollizione perlopiù populistica (si veda il fenomeno dei grillini[9]).
In esso si agita di tutto. E vi si fanno
sentire - in modi dissonanti, cacofonici o nichilistici - gli echi di sconfitta
del fascismo, delle lotte contadine prima e di quelle operaie; il risentimento dei figli di costoro
acculturatisi dagli anni Cinquanta in poi e collocatisi nelle istituzioni come
“intellettuali periferici”; e l’odio sordo, appena trattenuto e mascherato
dalle pensioni dei genitori o dei nonni, delle nuove generazioni alle prese con
la disoccupazione crescente e i lavori precari. (In questi discorsi “da ceto
medio” mancano, per ora e non a caso: - i nuovi poveri o gli immigrati, tenuti
a bada un po’ da tutti e magari affidati ai preti della Caritas; - i nuovi
ricchi o gli “immigrati di lusso” e cosmopoliti, ben asserragliati nei loro
covi di lusso).
Il ceto
medio è nel pantano, senza autonomia culturale
e senza consapevolezza della situazione reale (si veda il silenzio e la
rimozione sulla crisi!), in cui si trova. E non sa quale strada prendere (come
il personaggio della poesia di Frost posta in exergo[10]).
Perciò il
discorso va spostato sulla scommessa in
un progetto da fare, sulla scelta della
strada da imboccare e sulle difficoltà che incontra una tale ipotesi di lavoro.
Devo a questo punto raccontare qualcosa che mi
riguarda, ma che in piccolo rivela queste difficoltà e accresce la necessità di
chiarezza e di scommessa: o in un senso o in un
altro.
Convinto
che una differenziazione all’interno del ceto medio (in cui ai livelli
medio-bassi rientro) vada stimolata, in questi anni ho fatto spesso
riferimento, anche in poesia e nei discorsi sulla poesia, a eventi politici
minori o maggiori: in particolare le sconfitte elettorali della sinistra nel
2008, gli indisturbati attacchi israeliani contro Gaza nel 2009, le nuove
“guerre umanitarie” che dal 1990 all’ultima contro la Libia proseguono). A me
erano parsi rilevanti e capaci di
indurre una qualche reazione “brechtiana” o “fortiniana” o indurre almeno ad
approfondire anche la riflessione sulla crisi della poesia, che altrimenti
somiglia sempre più a una discussione sul sesso degli angeli.
Preciso
subito, contro la malafede in agguato, che tale reazione per me non significa né produzione immediata e reattiva
di una poesiola contro la guerra né dare
il proprio obolo alla cosiddetta “poesia civile”.
Ora,
quando, ad esempio, nel 2004, scrissi Contro i poeti che in tempo di guerra non
tremano abbastanza o, altre volte, ho pubblicato poesie
“politiche” sul blog, sono
fioccate accuse del tipo: Ma perché ti
tiri fuori da noi (intesi noi di sinistra o democratici)? Da quale pulpito tieni la tua lezione? Perché non vai a Gaza?
Hai forse un mandato dagli irakeni o dai palestinesi di Gaza per parlare a nome
loro?
È un
fatto che queste critiche o il silenzio
(in fondo complice) su certe vicende di guerra da parte di colleghi o
amici denota una differenza sia sul piano politico (io non voto da tempo i
partiti che hanno appoggiato le guerre, gli altri forse sì o sicuramente sì)
sia sul piano della ricerca critica e poetica (per me tali temi entrano
sia in poesia sia nella riflessione critica e sono convinto che possono indurre
dei chiarimenti anche nello “specifico”; altri li evitano o li tacciono,
suppongo in base alla convinzione che la poesia è autonoma dalla storia. Più
banalmente e drasticamente mi è stato detto: “ tu mescoli poesia e politica e fai
brutte poesie e cattiva politica”).
Essendo il discorso su tali questioni pieno di vecchi
trabocchetti, devo ancnora riprecisare che non semplifico affatto il rapporto tra poesia e politica. Ma
insisto sulla sua importanza e consistenza di fronte a chi lo nega o sorvola.
Non sono certamente gli eventi esterni o la storia a guidare direttamente o
immediatamente la mente e la mano del poeta. Figuriamoci. Né sono così
schematico dal disconoscere la verità, ormai banalizzata, per cui un testo
poetico, anche trattando solo di un fiore, possa contenere più storia o
politica di un testo di piatta propaganda o d’immediato sdegno. (Di solito
faccio l’esempio di Celan, a cui m’inchino).
Resta il
fatto che c’è la possibilità di misurare una poesia dai suoi legami espliciti o
impliciti con la storia (e la politica). E questo per me è un criterio valido che può avviare
un chiarimento nel ceto medio poetico. La poesia va
misurata con qualcosa di esterno alla poesia. Per alcuni può essere Dio, per
altri il bisogno di Bellezza o di libertà. Persino il criterio dell’ autonomia
della poesia è esterno. Per me è il bisogno di polis (o il dramma derivante dall’assenza di polis). Questa misura esterna è necessaria. Quando viene celata o
mascherata, impedisce o danneggia il chiarimento che potrebbe avvenire. Bisogna
dialogare, polemizzare criticare affinché tale chiarimento avvenga fino in
fondo.
10. Riepilogando. Un criterio politico-poetico come
misura delle poetiche
Come ho
detto nella tesi 1 (qui)
credo che siamo in una insoddisfacente Babele poetante, subiamo una cattiva
globalizzazione e operiamo in un “cattivo” ceto medio, che non è in grado, così
pare (in assenza di una più precisa analisi), di porsi i problemi poetici e
politici della “globalizzazione” o farsi voce del nostro tempo. Riproduce,
invece, in piccolo il caos globale e frammentato. E in tale caos c’è spazio -
tanto la frammentazione è ormai
dominante - per il “nuovo” e per il “vecchio” purché devitalizzati: il
Web, la rivoluzione dei trasporti, le biotecnologie ma anche le piccole patrie,
i dialetti (magari “meticciati”), i ritorni al mito (ma congelato e
privatizzato).
Nessuna nuova polis (globale) si sta costruendo
mentre gli stati-nazione vengono sconvolti. La falsa democratizzazione (non
solo della poesia) convive con le false élite. L’opposizione storica
pochi/molti rimane intatta
nell’ideologia e nell’immaginario in ogni campo, pur svelando ogni campo una
microfisica dei poteri che non corrisponde alla macrofisica ufficiale e
convenzionale.
I pochi
difendono coi denti le posizioni di vantaggio ereditate o acquisite ma non
godono con agio la loro superiorità. I molti s’illudono ancora di partecipare prima o poi al “banchetto”
culturale (oggi soprattutto mediatico) e dilapidano le loro energie.[11]
Mentre pochi superstiti di vecchie vicende politiche e
cultural-letterarie si ritagliano la loro monacale “torretta d’avorio” (o
osservatorio) rischiando di murarvisi
dentro da soli e di lavorare (come Gramsci) für
ewig. Questo a me pare il quadro veritiero della situazione subordinata (e
non solo in poesia) del ceto medio.
Ora,
accantoniamo per semplificare il discorso, la buona e la malafede ideologica, contorno riducibile ma non
eliminabile dei nostri stessi discorsi, i quali pur quando mirando al vero o al
reale, per il semplice fatto di essere noi in questa condizione di vita, posson
distrarsi e intendere fischi per fiaschi. E diciamo che è compito indispensabile del pensiero critico
e poetico (che può svilupparsi in chunque) smuovere la vischiosità
“cetomedista”. E per farlo bisogna che questi signor chiunque non rifuggano dal
piano che a me pare dirimente, quello poetico-politico. Perché soprattutto qui
è possibile intendere come tale vischiosità “cetomedista” è al contempo
prodotto (offensivo-difensivo) dello stesso
ceto medio e “suggerimento” imposto dall’esterno: dall’agire
conflittuale di altri attori, quelli dominanti soprattutto o decisori (come li
definisce G. La Grassa), essendo, come detto, quelli dominati (proletariato,
classi inferiori, popoli, ecc) in grande difficoltà e non capaci di scuotere la
«gabbia d’acciaio» di Das Kapital mondializzatosi.
Su questo
piano, trascurato o rimosso negli ultimi decenni dalle ideologie del
postmodernismo (“società trasparente”, “fine della storia”, intellettuali
non più universali ma avviatisi con disincanto alla Baricco sulla via del disincanto,
dell’intrattenimento e della spettacolarizzazione) ogni scelta di ciascuno di
noi - simbolica o pratica (quindi dal voto alle elezioni ai rapporti di
collaborazione culturale che stabiliamo) - potrebbe e dovrebbe arrivare ad un chiarimento anche nelle sue implicazioni di poetica.[12]
In un’ottica progettuale (che io chiamo della poesia
esodante ed altri possono chiamare
in altri modi) ogni scelta, se svuota il possibile progetto, risulterebbe
dannosa e condannabile.
11. Apro parentesi. Cosa intendo per poesia esodante
In questi anni ho tentato varie volte di definire cosa
intendere per poesia esodante. L’ho
fatto partendo da alcune mie poesie, e in particolare da un testo, Dialogo
del Vecchio scriba e del giovane
giardiniere (2002-2009),
dove ho fissato il passaggio dal
mio giovanile, fiducioso, accostamento alla cultura umanistica (unica stella
osservabile e accostabile allora per me dal Sud d’Italia) a una fase successiva
di contestazione delle idee ricevute e di ricerca poi di un tipo di poesia che
tenesse in conto l’esperienza “demitizzante” fatta da immigrato in una città
moderna e industriale come Milano (e la sua periferia).
Oggi chiamo questa ricerca con un
nome un po’ complicato: «esodante» (da
‘esodo’, che fa riferimento sia al libro della Bibbia sia al dibattito sul
concetto attuale di esodo, sviluppatosi in Italia attorno agli anni ’80-’90 del
Novecento, condotto con varie sfumature da autori che andavano da Walzer a
Negri, a Virno a De Carolis e che ho seguito dalla mia collocazione di
“intellettuale periferico”). Potrei più
semplicemente dire, per farmi intendere dai veri ingenui (non dai falsi
ingenui): esodo come fuoruscita dai discorsi da cui si proviene (di sinistra o
di destra); e, nel campo di cui ci stiamo occupando, poesia che non si ferma
alla poesia.
In successive altre poesie e
riflessioni ho tentato poi, dopo lo shock di quello che ho chiamato immigratorio,[13] di elaborare lo shock delle nuove
guerre “umanitarie”, tenendomi a distanza sia dal “dogma” dell’autonomia della
poesia sia da certa “poesia civile” o “avanguardista” a mio parere standardizzata,
riducendo il tasso di liricità (senza mai abolirlo, però) e assumendomi i temi di un noi o, più precisamente, di un inquieto io/noi permeabile all’orrore della storia e delle società e in
distacco crescente dalle tradizioni culturali del periodo storico in cui mi
sono formato (che possono indicare sempre coi nomi comuni e ideologici di destra/sinistra e cattolicesimo/comunismo).
Tenendo saldamente d’occhio questo mio percorso esistenziale, poetico e
intellettuale, propongo qui, a titolo di
chiarimento e schematicamente, queste definizioni-tesi sulla poesia esodante:
a. La poesia esodante, essendo scritta in Italia, dunque in
città occidentalizzate, si sofferma per forza di cose sull’ovattato orrore
quotidiano (di “pace”, parcellizzato, quotidiano, normale), ma si sporge sull’orrore storico del mondo, quello passato
e quello presente e si sofferma sulla
politica dei potenti, su guerre,sofferenze, fatti di sangue.
b. La
poesia esodante si sforza di destarsi
dal sogno della poesia. Almeno un po’. Ma questo po’ conta. (Perché una certa poesia ha
messo radici nel sogno e là vuole unicamente o soprattutto permanere).
c. La poesia esodante è tentativo di rompere gli steccati
(tutti e non solo quelli che comodamente attribuiamo agli altri) in cui oggi
sta una certa poesia (minimalista, orfica, formalistica, verginale, adamitica, fatua o agghindata di tecnicismi e
manierismi). E rimettersi a contatto con la realtà e i conflitti sociali, come fecero a suo
tempo le avanguardie, i neorealisti e più di recente le neoavanguardie).
d. La poesia esodante rifiuta la netta distinzione tra
poesia e politica (pur sapendo i pericoli di una cattiva mescolanza tra le due
attività, non evitati dai sunnominati
movimenti: surrealisti, neorealisti, neoavanguardie). Non chiede ai poeti di
tramutarsi in politici o di mescolarsi
con loro, ma di maneggiare la politicità
del linguaggio (anche di quello poetico) e farla incontrare con quella di veri
costruttori di polis.
e. La
poesia esodante abbandona l’oasi di piacere-libertà-bellezza della Poesia. Che
non esiste. Che è un’ideologia della poesia, non dissimile dal vischioso
petrolio di brutti pensieri-teorie-ideologie
prodotto a barili dagli specialisti dell’orrore del mondo e della storia
(teorici, intellettuali, moralisti).
f. La poesia esodante mira a ciò che la poesia migliore - che
parta dall’io lirico o da un noi epico -
ha sempre fatto: pensare l’orrore del mondo e della storia. Non ha cambiato il
mondo, ma la testimonianza dell’orrore l’ha sempre data e in modi spesso più
penetranti di altri saperi. La poesia esodante non cambierà il mondo? E con
questo? Può però pensarlo! Non ha armi per rivoltarsi assieme ad altri? Forse,
ma sa che nel passato ci sono stati
poeti capaci di pensare, poetare e anche
agire con altri, molti altri e non le solite élite dei potenti.
g. La poesia esodante è quella di poeti che sanno di non essere liberi. Che non cercano nella
poesia compenso individuale alla illibertà crescente delle società. Che non
coccolano una loro presunta libertà, che
consisterebbe (come fossimo ai tempi della Controriforma) nello scrivere al di
fuori delle “precettistiche”. Visto che il vero, unico, Precetto, cui siamo
tutti sottomessi, anche quando scriviamo
poesie, anche quando assaggiamo un pizzico di “felicità” in poesia, è quello
del Capitale, un Padrone e Nemico che pochi tra noi oggi sanno nominare,
riconoscere e contrastare.
h. La poesia esodante sa che la bellezza, quella
che poesia è ancora in grado di attingere, è segnata dall’orrore e vi convive.
La bellezza non è tutto, non viene neppure «innanzitutto»; e, se la si indaga
senza innamoramento estetico, non può che mostrare anch’essa l’orrore del mondo
e della storia. È segnata da quello. Gronda, pur essa, di «lagrime e sangue»,
che non si vogliono vedere. Lo sapeva bene, perché l’orrore storico stava per
ghermirlo e la bellezza non gli fu scudo sufficiente dai colpi mortali in
arrivo, Walter Benjamin. Affermare, come alcuni insistono, l’ inscindibilità
di poesia e bellezza è non tener conto che la poesia, se copre con
la bellezza l’orrore, di esso si nutre e si fa complice. Meglio che la poesia
esodante sappia mostrare la fragilità e la forza dei desideri umani senza
ricorrere al feticcio della Bellezza.
i. La poesia esodante non liquida la domanda
fondamentale su quali siano i modi con cui la realtà può entrare in poesia. Sa
che essa “così com’è” non entra nelle
parole della poesia come in una scatoletta preconfezionata. Come del resto non
entra in una formula matematica o chimica o in un concetto filosofico. Sa che
la realtà sfugge alla forma, non coincide con essa. Sa che la forma (e la forma
in generale, non solo la “bella forma”) è in sé
già distanziamento (problematico), se non repulsione (problematica)
della realtà. Fortini ricordava che la
forma è segnata dal marchio secolare dei dominatori. E lo stesso marchio segna
pure la “non forma”, adottata da quanti (le avanguardie) hanno creduto così di
aver trovato una scorciatoia per trasgredire e aggirare il potere della forma.
l. La poesia esodante riconsidera dal suo punto
di vista i tentativi sia dei poeti fedeli alle forme della tradizione, che in quelle vecchie botti hanno immesso nuovo
vino sia dei poeti che hanno voluto ”slogare” le forme tramandate fino a farsi
“camaleonti” e a mimare quelle caotiche
o mostruose o
“patologiche” accumulatesi in epoca moderna e postmoderna. Pensare in poesia
l’orrore del mondo non può
significare cedere a tale orrore, al
Niente, all’«enorme, indomabile inconscio biologico, un inconscio preumano
e postumano, dove tutto è in metamorfosi» (Berardinelli), che troppi vedono scorrere e gonfiarsi nel
fondo dell’abisso storico degli ultimi secoli o
di tutti i secoli. Non ne verrebbe un linguaggio (perché sempre al
linguaggio il poeta deve approdare) che riassumerebbe in sé la “forma informe” o «senza limiti e senza
confini» del mondo com’è, ma la negazione del fare poesia.
m. La poesia esodante non
è surrogato o ripresa dell’impegno (etico, politico) in poesia. Guarda
con rispetto a quell’esperienza, la difende dalla denigrazione degli odierni
revisionismi, però non si fa riassorbire in quei discorsi. Per la semplice
ragione che sono venute meno tutte le condizioni che li permisero negli anni
del secondo dopoguerra e attorno al biennio ’68-’69. Riproporli
artificiosamente (come si è tentato di recente con l’antologia «Calpestare
l’oblio») mostra presto l’equivoco di ogni rifondazione. La poesia esodante
sa che la sua eticità e politicità sono
da costruire e da controllare su un terreno ignoto, non su quello di una
qualche rassicurante tradizione.
n. La poesia esodante si distanzia sia dal formalismo
(o estetismo) sia dal contenutismo (spesso mera propaganda dell’ideologia del
Noi dominante). Il contenuto, però, va giudicato anche quando ben formalizzato!
Contenuti che, con i saperi in nostro
possesso, giudichiamo nichilistici, prevaricatori, individualisti, antisemiti,
razzisti, anche se raggiungessero in poesia una forma esteticamente originale o
persino sbalorditiva, pur essendo de-realizzati (una cosa è ammazzare, altra
rappresentare un omicidio) non diventano “altra cosa”, non vengono mai del
tutto “sublimati”; e non devono pertanto sfuggire a una verifica critica rigorosa. La loro messa in forma non li “riscatta”. Restano latenti con la
loro carica positiva o negativa (o ambigua) nell’opera. Tra tirannide e
libertà, dominio e lotta per liberarsi
dal dominio o ridurlo il contrasto è ineliminabile (e storicamente irrisolto).
La poesia lo può attenuare, svelare (Foscolo), occultare ma lo può anche
sottilmente esaltare, non essendo mai del tutto neutra. La poesia esodante,
dunque, è sempre accorta alla doppia faccia della poesia: oggetto estetico con
un suo particolare fascino; grumo di contenuti conflittuali mai del tutto
spenti.
o. La
poesia esodante resta poesia e si muove
all’interno del discorso dell’«ambivalenza». Non è discorso diretto, ma
indiretto. Non può essere mai immediatamente discorso politico (anche se -
ripeto - è in rapporto con la politicità innanzitutto del proprio linguaggio).
E non può essere neppure discorso immediatamente corporeo, emotivo,
vitale. Può muoversi in una zona
definibile lirico-politica o dell’io/noi.
È/potrebbe essere poesia esodante quella che rivela una sua politicità, anche quando parla di una rosa (Celan
per tutti). O quella che ha una sua liricità, anche quando parla di un orrore storico ben preciso e
nominabile con altri saperi. Riconosce che anche nell’io isolato ci può essere
non solo universalità generica ma
politicità. E sa pure che il noi non è sempre e solo ideologia, negazione della individualità, comunitarismo più o meno
fusionale e tribale.
p. La poesia esodante è critica continua, intelligente,
tenace, di tutto quanto ci impedisce di accedere a una maggiore
comprensione della realtà (e della poesia e delle forme e delle tecniche per
dir meglio e con più efficacia quello che abbiamo da dire su noi e sul mondo).
Tale critica è in parte accompagnamento (musica di sottofondo) dell’atto
poetico e in parte svolta proprio tramite esso.
La poesia esodante non si dà perciò un fine astratto da raggiungere
(fosse la bellezza, la morale, l’impegno politico o altro) Essa deve criticare i Valori se si presentano come astrazioni
pericolose, ideologie, impedimenti della stessa ricerca poetica. Per poesia
esodante non s’intende la propaganda di un valore qualsiasi, né una
forma laico-borghese di religione o un’autoterapia o un’autoconsolazione.
S’intende, invece, un’attività intuitiva-pensante in sintonia per quanto
è possibile (come accade anche per le scienze e altre forme di conoscenza) con
le trasformazioni del mondo reale (preciso: interno ed esterno; soggettivo e
oggettivo).
12. Progettare? Ma scherzi! «Buone rovine» e storie
che scottano
Non posso
al momento mostrare esempi pienamente convincenti di poesia esodante (i miei li
considero, con modestia indispensabile, dei tentativi in tale direzione). E poi
oggi, in tempi di crisi, invitare a parlare di progetto (o a presentare
dei progetti da confrontare e scegliere)
fa storcere il naso.
Diciamocelo
lealmente. Di solito ciascuno di noi segue, se non con sufficienza, con la coda
dell’occhio qualsiasi discorso “progettuale”. Lo vive come “calato dall’alto”,
roba “da critici” o “da intellettuali”. E, se partecipa a iniziative pubbliche,
lo fa con saltuaria eleganza (in modo da esserci e non esserci). Si tratterebbe
di riti, ai quali presenziare per cortesia o convenienza.
Ora è pur
vero che scrivere poesia è atto compiuto in solitudine e l’intervento altrui è
previsto semmai a stadio avanzato o ad operazione compiuta. Ma è proprio così?
È sempre stato così ed è irrimediabilmente destinato ad essere così?
Non lo
credo. Lo stanno a dimostrare per tutto il Novecento il sussegurisi di iniziativie di gruppi, riviste e la stesura di programmi, manifesti, poetiche.
E sono convinto che per ragioni storiche profonde, per mutamenti susseguitisi
in tutto il secolo ormai concluso - questa è la mia ipotesi guida - quello che
oggi a molti appare un io compatto, unitario e chiuso in sé (tradizionale insomma) nient’altro è
oggi che un io-noi.
Al
fallimento inevitabile di qualsiasi progetto pensano sia gli individualisti che i comunitaristi,
legati per partito preso a due
prospettive di solida tradizione “naturalistica”: quella della libertà dell’io, che si affermerebbe
nella sua identità esclusivamente contro gli altri e distinguendosi da essi più
o meno in toto; e quella della sottomissione indispensabile dell’io in una più
o meno rassicurante e autoritaria comunità. Da queste ottiche non si
scapperebbe a un aut aut: solitudine orgogliosa o regressione quasi tribale.
Ora il
mio invito al progetto, ovviamente una costruzione di tanti io per un noi
possibile, che non può dunque essere la scommessa di un solitario, non è
richiesta di obbedienza a una poetica elaborata da un io o da un noi (un
gruppo, un’istituzione). Non si tratta di una pensata da masticare o digerire o
sputare. Si tratta di porsi in autonomia un problema: se ci sono dei punti
esatti di raccordo tra la ricerca
dell’io e la ricerca del noi. Il progetto è la cornice in cui questi raccordi
troverebbero ragion d’essere e senso tramite una serie di scelte mai neutre da
parrte di ciascuno e dell’insieme di persone che mano mano partecipano alla
costruzione del progetto (io dico di poesia esodante, di un noi
possibile).
So che
una una visione progettuale chiede a
ogni io singolo smussare i suoi spigoli e
diventare rotellina che scorre
assieme ad altre o, come minimo, di aprire qualche finestra e far scorrer una
medesimo vento nella sua stanza.
Una tale
proposta, dopo i disastri del Novecento, mano mano che ci allontaniamo da
storie, che comunque continuano a bruciare e a sedurre o ossessionale la
memoria delle generazioni del secondo Novecento, non è affatto facile da
accettare. Le differenze ci sono e resistenti: io posso giudicare nichilismi o
deliri solipsistici cose che per altri hanno una sostanza, una “polpa” che io
non ho assaggiato; e, viceversa, essi possono diffidare o pensare ogni male
possibile della mia proposta di poesia
esodante; o dare un altro nome a quello che parrebbe
essere la stessa cosa («post-poesia» è il nome che, credo, Linguaglossa gli
dà).
E
tuttavia, accanto alle differenze che spingono alla frammentazione, che può in
certe circostanze essere anche positivamente destruens, ma di per sé, automaticamente, mai si volge in
costruzione, esistono spinte, magari deboli, alla cooperazione. E solo
l’abbozzo di un progetto nuovo, capace di
ricevere una certa attenzione e consenso permetterà poi di capire se le
«buone rovine» dei singoli (ciascuno ha
le sue) sono compatibili o integrabili con esso.
13. Io, io-noi,
Noi, noi possibile.
Le
incognite da risolvere, perciò, sono sia sul versante dell’io, che non è più
quello di una volta, sia su quello del noi, altrettanto mutato rispetto al passato. Ed è importante
che nell’ottica progettuale la ricerca del noi vada considerata decisiva e
importante quanto quella dell’io. Non si deve dare più all’io la scappatoia
che, nel deserto o nel mare in tempesta del noi, esso sia ancora l’unico “bene
rifugio”, la sola ancora di salvezza, il salvagente cui aggrapparsi.
Non è
detto che si riesca a far incontrare i due processi dell’io e del noi, ma
neppure è già deciso che si fallisca. La prospettiva per collocare in una nuova
cornice progettuale sia il lavoro dell’io che del noi tramite l’attivazione
degli io-noi più inquieti e dinamici, evitando i due estremi - la chiusura
solipsistica, l’imposizione obbligante
di un
Noi superegoico - ha oggi, a essere prudenti, più fondamento di ieri[14].
Anche dopo le sconfitte pesanti del Novecento. Nella storia (anche nella storia
della poesia) restiamo, al di là dei falsi profeti della sua fine, in un campo
fluido e pieno di sorprese. Possiamo ancora una volta scommettere. E senza
cadere in facili ottimismi.
14. Un rapporto
diverso anche tra pochi e molti?
Anche la
contrapposizione binaria tra pochi e molti, pur confermandosi come la
dominante, appare logorata e, quindi, inadatta a fungere da paradigma di
un’opera costruttiva. Accettandola acriticamente, si finisce poi per sorvolare
sui complessi intrecci che legano i due blocchi (dei pochi e dei molti), i
quali restano sì contrapposti, ma non possono essere più rappresentati come due
eserciti. Le energie fluiscono in realtà disordinatamente verso il basso e
verso l’alto (o l’apparentemente basso e l’apparentemente alto), dai pochi ai
molti e viceversa, aggirando o eludendo
spesso gli schieramenti
ufficiali.
La stessa
vischiosità del ceto medio poetico, cui ho fatto cenno, ne è una prova. Non
deriva da una sorta di DNA del ceto medio, ma da influssi anche esterni. È un
atteggiamento storico e non dovuto a leggi naturali. E quindi mutevole. Da ciò
non deduco che la vischiosità sia un bene
in sé, ma che dialogare,
polemizzare, criticare da una
parte e dall’altra, dalle opposte sponde o sulle sponde apparentemente simili,
permette di verificare quali siano i nodi veramente conflittuali e reali, le
ragioni profonde del contendere (che ci sono indubbiamente e non sono dovute
esclusivamente ai caratteri, alla psicologia, alle passioni, alle ideologie),
come vengono rappresentati convenzionalmente.
E perciò
nella tesi 3 (qui) ho
insistito - e non per pacifismo
- sulla necessità di «essere laboratores di poesia (essere in laboratorio), più che oratores della
Poesia sacerdotale o bellatores della
Poesia d’avanguardia».[15]
O nella tesi 4 (qui) ho chiesto di
«riaccostare il fare poesia al fare critica e non,
come accade oggi, separare o contrapporre le due funzioni». O nella tesi 5
(qui) ho detto: «Essere molti in poesia è rendere scorrevoli i rapporti
tra livelli alti medi e bassi del fare poesia (o parapoesia o similpoesia)». O
ho accennato, nella tesi 6 (qui), a
tutto il lavoro di riflessione da compiere (come io-noi) per «costruire una nuova estetica».Tutte
indicazioni che nascono da una visione fluida e in movimento.
15. Vademecum finale
Visto che a porsi il problema di un progetto
in poesia sono in genere degli “umanisti”, è da mettere in conto –
preventivamente e senza offesa per nessuno - una faticosa risalita innanzitutto
dalla voragine d’ignoranza, snobismo e
sottovalutazione degli sviluppi sconvolgenti, non sottovalutabili e neppure
degni di semplice esaltazione (la trahison
des clercs essendo venuta anche
dagli scienziati!) prodottisi nei campi scientifici: dalla comunicazione alla
finanza, al militare, al tecnologico. Bisogna sapere che l’oscillazione
contraddittoria del mondo contemporaneo fra falsa globalizzazione e convulsioni
localistiche è gestita, agli alti
livelli, scientificamente (il che non esclude follie) e, ai livelli medi e
bassi, anche umanisticamente (con follie di diverso genere forse). Tentare di
contrastarla solo umanisticamente non basta. Anche perché ormai maneggiamo,
nolenti o volenti, residui frammentati ed eterogenei delle grandi narrazioni dimostratesi insufficienti
per capire cosa sta succedendo. Far finta di niente è suicida.
Bisognerà
tornare, anche come poeti, a riconoscere e a sfidare i veri convitati di
pietra, i poteri dominanti del Capitale Internazionale, che hanno
cooptato o subordinato, in modi raffinatissimi o brutali, tutti i tipi di
sapere e la maggior parte degli intellettuali (compresi i poeti). Scienze,
umanesimi e avanguardismi sono stati quasi pienamente inglobati. Il pensiero
critico anticapitalista è ai minimi termini e giudicato da molti un rottame del
passato. Oggi però senza ricorrere a tale pensiero critico i nemici “più
nemici” restano inaccessibili sia allo sguardo umanista sia a quello
neutramente scientifico sia a quello “alternativo”.
Ci sarà
da scovarli, strappandoli alle ombre dell’inconscio o alle nebulosità del
virtuale, in cui si celano. E ci vorrà
un altro sguardo, che non è fornito in anticipo dall’adesione o
dall’appartenenza ad una tradizione buona (scientifica o umanistica) o
da una scelta anticonformista; ma sorgerà solo se si riuscirà a
costruire una nuova critica a stretto contatto con questa, temibile ma
non aggirabile “realtà” che ci avvolge e ci
chiude in ghetti mentali, anche quando ci permette spostamenti reali o virtuali impensabili alle
generazioni più vecchie.
Bisogna
che nel ceto medio si sviluppi un processo politico che permetta di vivere la
propria condizione reale non come un fastidioso limite da mascherare o
rappezzare. Bisogna che il “cattivo
soggetto” impari a riconoscersi come possibile “buon soggetto” e a
riconoscere di non essere una copia
degradata rispetto ai modelli alti dell’intellettuale
borghese o eretico-borghese,
ma di potersi manifestare in tutta la sua pienezza, rifiutando i ruoli di intellettuale
intrattenitore o educatore dei barbari da integrare nella falsa res-publica del Capitale.
E perciò
bisogna moltiplicare i luoghi dove elaborare una poetica “cetomedista”, una
paziente e amorosa critica inter nos (non ipocrita, non diplomatica, non
cannibale/fratricida, ma severa, seria, argomentante); e procedere a una bonifica con tutti i sensi rivolti all’extra nos. Luoghi pensati sulla “taglia”
dell’attuale ceto medio. Luoghi per uscire dal guazzabuglio di marxismi residuali, psicoanalismi, ecologismi,
estetismi postmoderni in cui ancora
ci dibattiamo; e rinvigorire un pensiero
critico adeguato al paesaggio sconvolto in cui ci siamo venuti a trovare.
Luoghi dove si sia capaci di dialoghi viso a viso, non virtuali (senza
negare il valore della comunicazione virtuale) per permettere a singoli e
gruppi d’incontrarsi, discutere, scambiarsi scritti privati, ma tendenzialmente
pubblici, vagliare qualità e contenuto dei medesimi, ripulirsi dalle
inevitabili tensioni, invidie, antipatie e simpatie, attrazioni e repulsioni,
pregiudizi, avendo presente che l’obiettivo è di arrivare ad altri mondi, agli
altri di cui si parla (e di misurarsi con i convitati di pietra
che ci dominano). Solo così il “cattivo
soggetto” potrà farsi le ossa ed
evitare gregarismi e scorciatoie.
Ci vuole
- e qui torno alla mia posizione - un esodo
dalle forme istituzionali consolidate. Non si scappa. Nell’ Egitto del servilismo e della subordinazione non si
costruisce per l’esodo, per il noi possibile.
La forma
provvisoria dei laboratori (dal foglio
personale, alla rivista povera, al foglio volante, al sito
anticonformista su Internet, alla rivista “carbonara” accolta in qualche piega
istituzionale) è quasi d’obbligo oggi, se non si vuole restare nella nicchia di
un privato ampiamente colonizzato o aggregarsi ai potentati che
controllano ottusamente una sfera pubblica devastata. Anche nei
casi dove sembrasse giusto restaurare e non radere al suolo quello che ancora
regge (solo però se regge!), è bene sapere che il sostegno a vecchie
istituzioni in vista di una loro rifondazione, che di solito pare preferibile
alla ricerca autofinanziata o di gruppo, s’accuccia all’ombra di un
paternalismo istituzionale, sempre meno illuminato e in fondo paralizzante.
Da questo
lavoro potrà venire un’immagine positiva del ceto medio poetico: non succube
dei massmedia, né infantilmente onnipotente,
non arruffona, in contatto vivo con i bisogni degli altri/ le altre,
capace di confrontarsi (senza demonizzarla) con l’intellettualità accademica
umanistica e scientifica.
Solo a
queste condizioni potrà affiorare una poesia esodante, né di epigoni né
d’avanguardie, né prona alle
Corporazioni né tentata dai nichilismi
da ghetto; e che si ponga a mezzo –
spezzandone l’incantesimo - fra il silenzio
o la riflessione interiore dell’impolitico e il fracasso e gli spasimi
dell’attualità politica. E allora
forse il termine stesso di poesia
esodante potrà essere indifferentemente sostituito o mantenuto, poiché il
contenuto positivo, oggi inabissatosi, avrà raggiunto nuova evidenza.
18- 23
luglio 2012
[2] Cfr. Alfonso Berardinelli, L’esteta
e il politico. Sulla nuova piccola borghesia, Einaudi, Torino 1986
[3] Caos calmo è un film del 2008 diretto da Antonello Grimaldi e interpretato da Nanni Moretti,
[4] Gianfranco La Grassa, Gli strateghi del capitale, manifesto
libri, Roma 2005.
[5] Quante accuse moralistiche sulla “disaffezione”
verso la poesia o la scarsità dei
lettori di poesia cadrebbero se si tenesse conto di tali impedimenti spesso
materialissimi.
[6] In tal senso tutte le critiche che
possono essere mosse (e che io pure
muovo) ai “moltinpoesia” andrebbero nettamente distinte: ci sono quelle intimidatorie, che vorrebbero
interdire lo stesso esercizio della scrittura poetica, atto comunque di
iniziale emancipazione da una passività sociale e culturale ad un tempo; e ci
sono quelle che, proprio tramite la critica alle forme più ingenue o
consolatorie dello scrivere poesie, intendono
incoraggiare a cogliere la necessaria complessità e severità dell’esercizio poetico a cui ci si
avvia. Come sempre le critiche possono essere paralizzanti o educative.
[7] Tutte le note di letture, le recensioni, la crescente ma disordinata catalogazione di
testi su innumerevoli riviste e ora
anche siti o blog del Web potrebbero
offrire un quadro d’insieme. Non solo scoraggiante, come molti snob tendono a
dire (ma neppure incoraggiante).
[8] Ad es., la contrapposizione che Ivan
Pozzoni ha fatto (qui)
tra contestatori come lui e codini come me, ammesso che i termini siano adatti,
è tutta di parole e appunto simbolica. Allude a vecchie contrapposizioni ma non
alla nuova, vera contrapposizione per ora non esplicitabile proprio per la
mancanza di condizioni reali che le
potrebbero dare un senso non puramente
soggettivo o personale. Egli si può appellare alla figura di Papini ed io, per
controbattergli a quella di Fortini e Linguaglossa a quella di Ripellino o Mandel'štam e i quotidianisti a quella di Sereni
o di Giudici, e così via. Ma ne
deriverebbero delle pose “discepolari”, che svelano solo gli “immaginari di
partenza” di ciascuno di noi, quelli a cui siamo più legati. Perché al presente
né un individualismo anarco-aristocratico o papiniano di cui parlava Pozzoni né
un fortinismo “comunista” né ogni altra
impostazione hanno più dalla loro una
accertabile “sostanza” attiva
nell’oggi. Ci vuole una cornice, un
progetto entro il quale questi riferimenti simbolici assolverebbero alla funzione benefica che ha
un riferimento al passato. Sono i vivi che interrogano e scelgono il passato e
non viceversa. Basti pensare che, a meno
che tutto il ceto medio in blocco non condivida la reale politica di potenza
dei dominatori d’oggi (statunitensi soprattutto e ancora), non esiste di fatto
nessuna politica di potenza
alternativa né un movimento di
rivolta che preluda che so ad un neo-comunismo, che potrebbero portare una
parte del ceto medio a decidersi di uscire dal vago.
[9] «Il primo testo, quello di Graheme
Turner [Ordinary People and the Media.
The Demotic Turn (2010) ], ci spiega consapevolmente la forma
sociale del nuovo populismo. Il demotic turn è infatti la
rappresentazione sociale egemone della ordinary people , profondamente radicata
nelle culture popolari attuali (che sono prevalentemente digitali). Una
rappresentazione che esce da diversi decenni di narrazioni mediali, compresa la
loro recente rielaborazione del web 2.0, dai reality, dalla continua
compenetrazione tra star system e gente ordinaria (che crea il linguaggio
popolare sulle star), dai microfoni aperti alle trasmissioni radiofoniche,
dalle miriadi di rappresentazioni di tutto questo nei cellulari sugli
smartphone, dal riflesso di questa egemone dimensione simbolica nella vita
quotidiana. Ecco quindi le forme di connessione sociale del nuovo populismo
nella rappresentazione della ordinary people, forme che sono profondamente
innestate nelle nuove figure del lavoro precario e instabile. Il “né di destra
né di sinistra” di Grillo, un classico del populismo vecchio quasi quanto la
destra e la sinistra, guarda quindi a questa rappresentazione italiana della
ordinary people, alle sue forme di connessione simbolica e quindi in una
pluralità di piattaforme mediali che elaborano identità valide anche per le
figure sociali del lavoro.» (da http://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/2186-nique-la-police-beppe-grillo-e-la-regressione-modernizzatrice.html)
[10] A riportare la mia attenzione su di
essa è stato un post di G. La Grassa
letto sul Web.
[11] Proprio qualche giorni fa in
auto ho ascoltato un’intervista a
Federico Rampin che parlava da New York su denaro, ricchezza e crisi. Analogie con quella del ’29,
richiami a Il grande Gatsby di
Fitzgerald e conclusione realistica: il sogno
americano non esiste più, i ricchi che erano pochi sono diventati sempre
più ricchi e pochi e i poveri diventano sempre più poveri e tanti (compresi
settori del ceto medio). Poi la morale
destinata alla consolazione edificante del ceto medio. Non esiste mica solo la
ricchezza del denaro, esiste anche quella della cultura. E questa tramite il
Web è a disposizione di tutti (ergo:
lasciate che i ricchi restino ricchi di denaro e voi arricchitevi di cultura).
[12] Da
quest’ottica una scelta - ad esempio quella di entrare in una ideale Casa della
Poesia, pur sapendo che essa è solo una facciata (fu il caso di Montale, premio
Nobel per la poesia proprio quando la sua produzione, con Satura, prendeva atto che la Poesia non c’era più), o della
moltiplicazione delle Case della poesia nelle città e nei quartieri in base
alla logica dell’imitazione acritica o
dell’adesione al criterio del “piccolo è bello”; oppure l’altra, apparentemente
contrapposta, di fingere un assalto al Palazzo d’inverno delle grandi
case editrici, ricalcando le orme della neoavanguardia o di ogni sovversivismo piccolo borghese - può
essere giudicata e approvata o riprovata in base a un
chiaro criterio.
[13] Vedi Ennio Abate, Immigratorio, Edizioni CFR, Piateda 2011
[14] È quel che ho cercato di dire
parlando degli intellettuali di massa e periferici ( e quindi anche dei poeti)
che vivono una situazione del tutto diversa da quelli tradizionali. Ne trovo
una conferma anche in queste parole di Romano Luperini: «I nuovi intellettuali,
privi di autorità e di centralità, stanno cercando forme di organizzazione d
d’intervento che sembrano possedere due fondamentali caratteristiche: agiscono
dal basso, puntando sulla relazione orizzontale a rete, su connessioni fra loro
liquide e veloci, e agiscono collettivamente, cercando intese capaci di formare
movimenti o gruppi mobili, che si aggregano e si disgregano facilmente, ma che
implicano comunque un’idea di comunità. Non hanno più nulla della figura tradizionale
dell’intellettuale-uomo di cultura, orgoglioso della propria missione
individuale e della singolarità del proprio sapere-potere. Della loro passata
funzione probabilmente conservano solo questo: la volontà di capire e di
intervenire con la loro voce. Tutto sommato non è poco». ( R. Luperini, Otto tesi sulla condizione attuale degli
intellettuali, p.14, in Allegoria n. 64 luglio-dicembre 2011
[15]. E ho precisato: «Solo in
un’attività di laboratorio le due spinte fondamentali del fare poesia - quella
espressiva dell’ ‘io’ (privata, individuale, apparentemente libera) e
quella pubblica del ‘noi’ (sorvegliata, critica, pedantemente normativa) -
potranno ritentare un confronto. Il laboratorio può/deve funzionare da
cerniera tra il momento della ricerca in solitudine dei singoli poeti e
il momento dell’incontro con gli altri».
22 commenti:
Caro Ennio,
innanzitutto grazie, grazie per il grande lavoro che ci hai donato con tano entusiasmo. Spero di poter mettere in pratica gran parte delle tue "proposte" anche se non riesco ancora a non pensare che anche la poesia è e sarà sempre figlia del suo tempo, e oggi il tempo non è un buon tempo. Non si può scrivere , fuori dal momento che viviamo ma questa è solo una mia idea che tutto sommato mi fa scrutare nell'oggi per trovare un seme, una vita anche piccola nuova che mi parli di un senso vero, compiuto per migliorare anche l'amore di cui stiamo perdendo il suo più grande significato. Ciao una piccola borghese. Emy
tolgo quella virgola dopo "scrivere" e chiedo scusa .Emy
Scrive Adorno nella sua "Teoria estetica": «nel mondo disincantato il fatto arte è... uno scandalo, riflesso dell'incanto che il mondo non tollera. Ma se l'arte accetta tutto ciò senza lasciarsi scuotere, se si pone ciecamente come incanto, allora, contro la propria pretesa di verità, si abbassa ad atto di illusione e allora veramente si scava la fossa. In mezzo al mondo disincantato anche la più remota parola di arte, spogliata di ogni edificante conforto, suona romantica. Nella sua storia filosofica dell'estetica Hegel costruisce, come fase finale, la fase romantica; ma la sua estetica viene verificata anche dalla fase antiromantica mentre invece questa soltanto, nera com'è, può superare il mondo disincantato, cancellare l'incanto che il mondo produce mediante il prepotere della propria manifestazione, mediante cioè il carattere feticistico della merce. Le opere d'arte, esistendo, postulano l'esistenza di un non esistente ed in tal modo vengono a conflitto con la reale inesistenza di questo» (p. 85) «L'arte è razionalità che critica la razionalità senza sottrarlesi; non è un prerazionale o un irrazionale che... sarebbe anticipatamente condannato alla menzogna». (p. 80)
Caro Abate,
La ringrazio anch'io per la pazienza e per il grande lavoro svolto con questo pezzo, che stampo e conservo. Mi pare di capire che lei si trovi piu' a suo agio con l'azione sociale e che su quella tenti di basare un'estetica. Apprezzo l'affermazione che gli umanisti da soli, non riusciranno ad uscire dal cul-de-sac in cui si sono ficcati e che c'e' bisogno dell'altro corno del sapere, diciamo piu' pragmatico (analitico, invece che continentale, in termini filosofici) per fare un passo avanti. Questo potrebbe spiegare i punti comuni col mio scritto, verso una poesia *esodante*.
Resta il fatto che, come vede anche dai commenti su questo stesso sito, quel che alla fine importa sono le poesie, i testi letterari propri, ai quali ognuno si avvicina non solo in maniera teorica ma principalmente emozionale, pre-verbale, diremmo estetica. Insomma, un approccio di sensibilita' invece che di intelligenze. E' un approccio che preferisco anch'io, molto piu' sintetico e rivelatore.
Saluti. Giuseppe Cornacchia
IL POST-CONTEMPORANEO
lo spartiacque del 1950
«Senza dubbio la nuova poesia non ripeterà le esperienze degli ultimi cinquant’anni. Sono irripetibili. E sono ancora sommersi i mondi poetici che attendono di essere scoperti da un adolescente il cui viso sicuramente non vedremo mai. Ma forse non sarà del tutto temerario descrivere dall’esterno alcune circostanze con le quali i nuovi poeti si confrontano. Una è la perdita dell’immagine del mondo; l’altra, la comparsa di un vocabolario universale, composto da segni attivi: la tecnica; e un’altra ancora, la crisi dei significati».
Sono parole di Octavio Paz, del 1956, che ritengo oltremodo valide oggi, a distanza di più di sessant’anni dalla loro stesura. Sì, anch’io ritengo che non siano più ripercorribili le esperienze compiute nella seconda metà del Novecento, il secolo che si è concluso richiede una nostra riflessione, non possiamo archiviarlo con superficialità. E mi chiedo: che cosa ci lascia in eredità il Novecento ora che il suo profilo si allontana sempre più velocemente dalla nostra vista? Per rispondere a questa domanda partirò dalla poesia degli autori nati a ridosso dello spartiacque del 1950.
In Italia avviene che presso i poeti nati, grosso modo, negli anni precedenti e, comunque, intorno al 1950, la scrittura poetica resti ancora agganciata alla sella teurgica della tradizione e si riscatti non grazie al télos ma per la forza-lavoro che è costata. Quel che è certo è che, negli anni della maturità di quei poeti, il discorso poetico fondato sul polinomio proposizionale e sulla scatola acustica e morfologica della tradizione, finirà col trovarsi colpito a morte da questa crisi della Ragione poetica. Il discorso poetico suasorio-imbonitorio che punta al significante viene ad essere sostituito, presso i poeti nati prima o intorno al 1950, da un discorso sull’essenza della scrittura, sull’identità auto-dis-locantesi dell’«io», sulla accettazione della «perdita», dell’«assenza», della mancanza dei «fondamenti» visti come caratteristiche costitutive dell’essere sociale: interi generi subiscono una eclissi, il genere romanzo in versi subirà un oscuramento, e così il pastiche, la procedura sperimentale, le istanze mitopoietiche, orfiche. Il discorso ondulatorio-suasorio del tipo della poesia del tardo Bertolucci de La camera da letto (1984) diventerà sempre più un problema. Il discorso poetico diventa il terreno del dispiegamento del «senso» come effetto di superficie, qualcosa che non si iscrive né nella sommità delle Origini né nelle altitudini della Coscienza né nella profondità dell’Inconscio, come quel quid che si presenta come superficiale nell’accezione di ciò che sta in superficie, che galleggia in superficie ma non soltanto come segno o traccia di qualcosa di assente, o che è stato perduto o il prodotto di un’origine, un segno o un sintomo, ciò di cui il «senso» sarebbe effetto. Qualcosa che non si rapporta più alla totalità (perduta o da edificarsi), ma evento-effetto di qualcosa di singolare, di accadimentale, di slegato, di casuale, di fortuito, costitutivamente in rovina, in derelizione, in stato di frammento, relittuale. È quindi l’assenza di fondamento che produce il «senso» ed è quindi inutile oltre che insensato inneggiare una palinodia malinconica sulla fine dei fondamenti. È quindi l’accettazione della dimensione relittuale della poiesis la posizione di partenza di questi poeti. L’età della lirica è diventata un lontano ricordo.
Ennio Abate:
Provo a rispondere qui ai commenti ricevuti dal mio saggio in 5 puntate sulla poesia esodante:
- a Mayoor:
Il “ceto medio poetico”, di cui parlo è quello che prevalentemente si interessa *ancora* alla poesia. Il resto davvero è indifferente alla poesia. Come “l’operaio esodato” ( nel senso di scacciato dal lavoro, che è diverso dal significato che io do ad ‘esodo’) di cui riferisce Emy, la quale - beata lei! - si consola sostenendo che, comunque, è ‘poeta’ inconsapevole.
Se ne parlo come di un “cattivo soggetto” non è in riferimento al problema della lettura o meno di poesie ( si può benissimo essere “buoni soggetti” e non leggere poesie…), ma in riferimento ai grandi aggregati sociali (dominanti-dominati, decisori-non decisori) che stanno facendo la storia (in male, ma la stanno facendo). È questo che dovrebbe preoccupare anche chi si occupa di poesia. Ma mi pare che da quest’orecchio tu non ci senta più. E semplifichi le cose: « Per giungere a maturazione basterebbe che il "cattivo soggetto" capisca di essere responsabile di come si evolve la società, l’umanità, e il mondo intero». E sei invaghito dalle «comunicazioni che s’accorsiano sempre di più». Ma, caro “cattivo soggetto”, sei davvero convinto che davvero così si vada «al sodo» e che «è nella brevità che ci si esprime creativamente»?
Detto poi (indirettamente) a uno come me che ha creduto di esprimersi creativamente con ben cinque post a puntate è davvero il complimento che mi attendevo!
- a Giuseppe Cornacchia:
Capisco la sua esigenza in coerenza col suo metodo di matrice analitica e pragmatica. Avevo pensato in effetti, anni fa, quando questo discorso della “poesia esodante” me lo rimuginavo da solo, a fare una lista a mio uso e consumo di scrittori di riferimento da rileggere alla luce di questa mia prospettiva per vedere o di trovare delle pezze d’appoggio alla mia esigenza o obiezioni significative per metterla meglio a fuoco o irrobustirla con delle critiche implicite.
Devo dire che non sono andato molto avanti nel lavoro, ma se avessi tempo scaverei nelle seguenti opere:
- la Commedia di Dante; i Sepolcri di Foscolo; lo Zibaldone e le Operette morali di Leopardi; i romanzi di Verga; le poesie e alcuni romanzi di Pavese; la Ricerca di Proust; le poesie e parte del teatro di Brecht; l’opera di Fortini (per ovvie ragioni anche biografiche mie, ma che intendo come crocevia critico - quasi vademecum orientativo - tra le aree culturali dell’Italia, della Francia e della Germania e quindi viatico ad esplorazioni in queste aree); il Don Chisciotte di Cervantes; gli scrittori viennesi contemporanei di Freud.
- a Giorgio Linguaglossa:
Credo di aver chiarito a sufficienza nel mio lungo scritto limiti e potenzialità di quello che tu tendi a mitizzare e ad assolutizzare come una sorta di Moby Dick e che per me è - realisticamente parlando - un “soggetto socio-culturale” (dormiente e gregario per il momento e senza garanzia di risveglio).
Ho anche spiegato che non c’è da temere di essere «fagocitati». Nel senso che ci siamo dentro tutti, io, te, Mayoor, Cornacchia, Pozzoni, Emy ecc.
Tu dici che è meglio trarsene fuori come il barone di Münchhausen?
Ma così si fa dispetto al prof Magrelli e a Mariangela Gualtieri, non al Convitato di Pietra Das Kapital che io vedo come motore anche delle nostre miserie poetiche.
A Emy:
Anch’io preferirei che i commenti a un saggio discorsivo e dialogante ( credo) vadano scrtti in modi discorsivi e dialogante non in poesie che mi paiono senza un riferimento al testo del post.
Per la verità è da giorni che tento di commentare questo tuo lungo scritto, senza riuscirci perché non oltrepassavo i ringraziamenti. E non si fa, bisogna anche tener conto delle osservazioni esperte degli amici della critica e questo supera le mie capacità perché, come sai, la maggior parte della mia esperienza è data dalle arti visive più che dalle lettere.
Ho apprezzato particolarmente quest'ultima parte di questo tuo "manifesto" quando, se ho ben capito, unisci la polis alle istanze individuali dichiarando un'apertura che non avevo ancora ben constatato ( se non nei fatti), che m'è parsa una presa di coscienza, tua personale, frutto dei molti ripensamenti, quelli che immagino abbia chiunque si porti nel cuore e nella testa l'eredità di Fortini.
E poi c'è un ostacolo che per me è diventato un vero rompicapo: come si può avere un rapporto con la polis se la si giudica negativamente nella premessa di ogni analisi? E come può il linguaggio della polis contaminare una poiesis tanto ideale com'è la poesia, se quest'ultima insiste a considerarsi (così mi pare di capire dalla critica) come una roccaforte chiusa in se' e tesa a prodursi solamente in altezza? Inevitabilmente le novità del linguaggio, piacciano o meno, accadranno solo all'esterno. E non saranno certo le amplificazioni mediatiche, qualora ce ne fossero ( ma non ce ne sono), a risolvere rimettendo i poeti in cattedra… insomma, spero di "avermi spiegato". Tanto più che sono un pubblicitario, ho trascorso la vita cercando di capire come comunicare mediaticamente e non ho mai vomitato davanti ad un detersivo.
Non discuto sulla validità di poesia e critica militante ( anche su questo hai detto bene invitando a non temere il realismo, a tener conto del contesto eccetera), ma è poesia che apprezzo quando il soggetto si fa protagonista reale ( non solo ideologico), quando cioè evita di scrivere traendo dai giornali… e l'han fatto in molti, Fortini compreso. E questo basterebbe, a meno che qualcuno sappia davvero cantare… ma non ne ho ancora letti.
E già che ci sono, vorrei anche dire che ciò che fa tramontare definitivamente gli ultimi 50 del novecento della nostra poesia è proprio principalmente la forma (da pubblicitario direi la confezione) più che la sostanza. E' carta da parati, per giunta logorata. Buona per la didattica, per tenere la schiena in posizione corretta mentre si scrive. E questo vale per Bertolucci, Erba, Fortini, Giudici, Saba, Sereni… Montale e Luzi compresi (che per me restano le migliori confezioni regalo, per chi s'accontenta o per chi abbia gusti raffinati). Così dicendo è come riconoscessi, a distanza di cent'anni, che fu il futurismo la sola espressione italiana di rilievo internazionale. E questo a me basta per ridimensionare parecchie faccenduole, compresa quest'ultima del minimalismo.
Quindi, confusamente come al mio solito, ti ringrazio. Sto qui volentieri, imparo e penso. Quanto a scrivere è altra cosa, non nascondo che la critica mi fa traballare. Fortuna che è traballante anch'essa. Oggi pensavo che non si dovrebbe parlare di esistenzialismo lombardo senza citare Luzi, che lo so che è toscano ( scrive bene anche per questo), ma che importa. E tutto ciò è appassionante.
mayoor
Vorrei aggiugere ancora una piccola cosa: non chiediamo alla poesia ciò che non potrà mai dare, la critica coglie di essa la sua vita ,il suo nascere e il suo morire, tutto il resto è del poeta , non fatelo impazzire! (Non è una poesia... così tanto per rassicurarvi...) Emy
E' il mondo che è impazzito, dice il pazzo :) Così ci si adegua, magari sperando che grazie alla pazzia torni a scorrere un rivolo di creatività individuale, nonché di umanità. Ognuno cantando sulle corde che gli sono proprie. Questa è pratica di libertà, e chi può dire che non sia contagiosa? Fa più rabbia questo tempo di crisi: m'hanno aumentato l'affitto e tolto l'uso della cantina. Tra poco esco per firmare il nuovo contratto, e ringraziare. E magari gli canto anche una serenata. Non è da pazzi?
Ciao Emy, anche tutto questo è del poeta.
Un abbraccio da mayoor
NOOO! Caro Mayoor è da pazzi togliere l'uso della cantina a un poeta!
è come togliere ad un critico la sua biblioteca o ad una chiesa i confessionali o ad una madre le foto dei figli quand'erano piccoli o a un giardino i semi o a Montecitorio gli scemi! Ciao Mayoor un grande abbraccio e forza, l'artista ce la fa SEMPRE. Emy
beh proprio una chiesa no, ma ci accatasto i quadri vecchi. Divaghiamo in attesa delle ire di Ennio? Anche lui ne ha di quadri suoi, chissà dove li tiene...
m
No,no io non ho divagato : era poesia esodante (in cantina) . Emy
Hofmannsthal, nelle vesti di Lord Chandos, confessa che ormai la poesia, con i suoi temi tradizionali, non dice più nulla al suo spirito. Dichiara Lord Chandos che ormai ha perduto «ogni facoltà di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento». Non sono la bellezza di Elena, la fondazione di Roma o l'omicidio di un re a costituire la «datità» che Eliot avrebbe in seguito chiamato il «correlativo oggettivo» di una emozione. Non sono, in realtà, nient'altro che «cose da nulla»: «Un innaffiatoio, un erpice abbandonato su un campo, un cane al sole, un povero cimitero, uno storpio, una piccola casa di contadini, in tutto ciò mi si può palesare la rivelazione».
La rivoluzione delle cose poetiche di cui parla Hofmannsthal nel 1908 è qualcosa di analogo alla rivoluzione silenziosa che sta accadendo nei nostri anni che chiamiamo «poesia esondante» (E. Abate), «post-poesia» (io), «post-contemporaneo» (R. Bertoldo), e così via. C'è in atto una rivoluzione degli oggetti in poesia. In parole povere, la poesia si sposta, si ritira dai soliti «oggetti» noti (dell'esistenzialismo lombardo e dal minimalismo) per approdare verso altri «oggetti». Ed è bene ripeterlo: oggi certe tematiche non ci dicono più nulla, sono diventate talmetne di pubblico dominio che, come una massa monetaria, passano di mano in mano in modo irriflesso e subliminale. In modo simile, riempire una poesia di «oggetti» riconoscibili porta fatalmetne quella poesia verso l'insignificanza, la noia, non risveglia più la nostra attenzione; davanti a certe poesie il nostro cervello dorme. Così comedichiarava Mandel'stam di dormire dinanzi lle poesie dei simbolisti russi!.
La post-poesia (o poesia che esonda dai propri argini e si riversa all'esterno della forma-poesia)va alla ricerca di una nuova serie di «oggetti linguistici». Ma questa ricerca non è come la ricerca dell'Eldorado! non si tratta di cercare le pepite d'oro! si tratta di munirsi di un pensiero critico che sia critico verso una intera cultura che ha prodotto certi oggetti e altri ne ha invece interdetti. È che occorre essere coscienti che l'esaurimento di una certa cultura implica anche l'esaurimento, la fine della poesia che quella cultura ha prodotto... e qui intervengono le resistenze di chi è rimasto indietro, dei re-trogradi come anche di chi credi di essere in avanti, dei pro-gressisti.
È di nuovo la querelle des anciennes et des modernes che ciclicamente si ripresenta.
Ennio Abate a Giorgio Linguaglossa:
La post-poesia (o poesia che esonda dai propri argini e si riversa all'esterno della forma-poesia)va alla ricerca di una nuova serie di «oggetti linguistici». Ma questa ricerca non è come la ricerca dell'Eldorado! non si tratta di cercare le pepite d'oro!
Ottimo. Ma dove cerchiamo? Abbiamo un quadro di dove siamo?
Provate a sentire Aldo Giannuli qui:
http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=mD0clLiRGTg
Questo di cui mi parla mi pare il grande oggetto rimosso e non solo dai poeti.
"come si può avere un rapporto con la polis se la si giudica negativamente nella premessa di ogni analisi?". Vorrei chiarire il senso di questa domanda posta troppo di getto. Do per scontata la critica al sistema sociale, che è negativa ed è ben visibile a tutti, non mi riferivo a questo, bensì al linguaggio. Linguaglossa scrive: "riempire una poesia di «oggetti» riconoscibili porta fatalmetne quella poesia verso l'insignificanza, la noia, non risveglia più la nostra attenzione; davanti a certe poesie il nostro cervello dorme." Concordo sul fatto che non si possa essere ne' retrogadi ne' progressisti (l'entusiasmo dei futuristi proveniva dal romanticismo. Il '900 ha versato abbastanza acqua sul fuoco...), questo dovrebbe vanificare anche la ricerca di nuovi "oggetti linguistici". Infatti il punto sta nell'accoglierli o meno all'interno dei processi creativi. I nuovi oggetti non sarebbero da ricercare in quanto sono già in uso, sono nel linguaggio di tutti... ma vengono vissuti dagli intellettuali come minacce, imbarbarimenti, povertà d'alienazione, accettazione passiva dei linguaggi messmediatici eccetera. Nessuno che si ponga il problema di usarli diversamente, creativamente. E' il linguaggio del nostro tempo, piaccia o meno, e può sembrare progressista solo se confrontato col passato. Son pepite di plastica ma possono essere comunque usate con creatività. La forma scadente del linguaggio, se scadente è, andrebbe quantomeno resa visibile. E una possibilità potrebbe essere anche quella di far in modo che la bellezza si spogli di certi paludamenti e tenti la sua catarsi.
mayoor
Ennio Abate:
"I nuovi oggetti non sarebbero da ricercare in quanto sono già in uso, sono nel linguaggio di tutti... " (Mayoor)
Indicando il link che porta al video di Aldo Giannuli ho voluto proprio segnalare che certi oggetti, non immediatamente percepibili, come ad es. la crisi, non sono affatto nel linguaggio di tutti o lo sono in maniera molto approssimativa e che per afferrarli ci vogliono invece dei concetti.
Sarà più complicato, ma la realtà ( gli oggetti) non è solo quella che sta sotto il nostro naso e nel nostro linguaggio...
Son cose risapute e attentamente monitorate da tempo. Che poi la prima cosa da fare sia quella di diffondere consapevolezza mi sembra davvero troppo poco. Temo la visione marxista che vede il pachiderma capitalista pericolosamente in equilibrio sul filo... cade, sta per cadere? Temo per chi ci sta sotto, e temo per gli stolti che non s'interrogano sulle buone cose che andrebbero fatte in una società diversa da questa che rischia il tracollo.
mayoor
Ennio Abate:
Le metafore ("il pachiderma capitalista") a volte servono solo a distrarre.
Giannuli parla della crisi, di un "oggetto" che il "popolo" e i "poeti" non vedono (o non vogliono vedere) e andrebbe smentito o approvato.
Questi sono gli "stolti".
Le "buone cose che andrebbero fatte" non si fanno
ricorrendo appunto allo spauracchio o alla realtà della crisi.
P.s.
Ma allora questo rischio di "tracollo" c'è o non c'è?
Il pachiderma tracolla. Lo disse bene anche il tuo maestro di realtà. Il suo aspetto di pachiderma è reso evidente dalla globalizzazione, nell'800 infatti qualche landa desertica c'era ancora. Ma le ragioni del tracollo sono complesse e non si possono dire qui, brevemente.
mayoor
Ilaria , sei forte! Emy
In questo momento sono in Sicilia, ma appena torno a Padova lo faccio. Ilaria.
Cara Ilaria, forse per l'età o/e forse per i bollori di un'estate bieca, il mio vecchio pc ieri ha dato forfait (fortuna che avevo fatto il backup di tutti i documenti!) e ora ne sto usando un altro. Purtroppo così si è perso anche quello... ma magari qualcun altro lo ha fatto. Chissà se chi di dovere ha imparato almeno una lezione...
Allora a Piove. Bene.
Posta un commento