Amelia Rosselli L’opera poetica, I Meridiani, Mondadori, Milano 2012
Era tempo che si attendeva questo Meridiano
dedicato alla poesia di Amelia Rosselli. Finalmente abbiamo in un unico volume
tutte le poesie di una tra le maggiori personalità poetiche di livello europeo
del Novecento introdotte da un accurato e ampio apparato filologico di
Francesco Carbognin, Chiara Carpita, Silvia De March e Gabriella Palli Baroni,
oltre a una puntuale prefazione di Emmanuela Tandello.
«La nostra poesia moderna è, per grandissima
parte, post-pascoliana». Questa asserzione di Giacomo Debenedetti, contenuta
nella sua monografia sul poeta di Romagna, non ha soltanto importanza sul piano
ermeneutico ma ne ha anche sul piano strategico e «politico». Possiamo affermare che questa affermazione è
vera fino alla apparizione di Variazioni
Belliche (1960-1961) edito nel 1964 di Amelia Rosselli, un libro
assolutamente fuori della tradizione «pascoliana» della poesia italiana. E
arriviamo al nodo della questione: quali sono le condizioni storico-sociali e,
più precisamente, poetiche, che hanno determinato il trionfo del «pascolismo»
come teatro di agnizioni stilistiche per la costruzione degli assi egemonici
del secondo Novecento? Questa problematica coinvolge in sé anche l’altra di
come un poeta come Saba «raccoglie una certa porzione di eredità del Pascoli in
tono minore, entro cui fa trascorrere (ma molto di rado) fanfare più clamorose,
per ritrovare anche lui gli accenti di quella che, per superstizione, crede
poesia maggiore, e invece è soltanto aulica; ma Saba ha poi un suo modo di
rompere la pigrizia musicale, con improvvise stonature e inserzioni di realismo
prosastico» (Giacomo Debenedetti).
Il problema può essere risolto così, tracciando
una linea schematica ma netta per maggior chiarezza di chi ci legge: la rivoluzione inconsapevole del Pascoli
è quella che determina, motu proprio,
una linea di gusto, un traliccio linguistico e stilistico a cui chiunque può
attingere, purché ne raccolga, almeno in parte, l’eredità di conservazione
stilistica. C’è un filo sotterraneo che lega insieme la rivoluzione inconsapevole del Pascoli allo sperimentalismo consapevole e professionale della neoavanguardia,
fino a giungere al minimalismo
inconsapevole del tardo Novecento romano-milanese. «Inconsapevole», perché
adagiato supinamente a ridosso della linea egemonica Pascoli-Saba-Penna; «inconsapevole», perché altro sarebbe affrontare criticamente la questione del
deterioramento dell’asse egemonico per trarne le dovute conseguenze sul piano
della prassi poetica. Già questa presa di coscienza consentirebbe quantomeno,
oggi, un minimalismo consapevole, e
quindi creerebbe le condizioni pre-stilistiche per la liquidazione, la
sospensione cautelare di quell’asse egemonico.
La matrice stilistica
del Pascoli, dominerà, pur se tra deboli contrasti e sussulti, fino ai giorni
nostri. Il minimo comun denominatore stilistico implica sempre un massimo comun
moltiplicatore ideologico e politico. Il «riformismo moderato» del Pascoli
fornirà il «traliccio» per il massimalismo delle posizioni tecnologiche della
neoavanguardia. La matrice stilistica del Pascoli, se poteva valere almeno fino
agli anni Cinquanta, con l’ultima «riforma» de Le ceneri di Gramsci (1953), cessa di avere una qualsiasi funzione
propulsiva alla apparizione nel 1964 di un libro rivoluzionario come Variazioni Belliche (1960-1961) edito
nel 1964 e del poemetto La Libellula edito
nel 1963 di Amelia Rosselli. In queste opere viene adottato, per la prima volta
nella poesia italiana, un complicato meccanismo di proposizioni correlate (comunicanti
e incomunicanti) introdotte quasi sempre da particelle avversative o
incidentali inframmezzate da proposizioni anaforiche e oppositive e avversative
come a minare, sviare e sconvolgere l’ordine paratattico e logico della
infrastruttura proposizionale; il tutto in un verso lungo, anzi, lunghissimo
che tende a sconfinare nella prosa narrativa. Come un serpente che si morde la
coda (immagine cara alla Rosselli), la prosa tende ad implodere nella resa
metrica e strofica della poesia, quasi un provenire dall’esterno della prosa
magmaticamente narrativa e omeopaticamente imparentata con il verso lunghissimo
della poesia. Quei reticolati di spie segnaletiche di disturbo semantico (fonico
e lessicale) che Pasolini qualificava «lapsus» erano in verità delle mine (con
l’innesto di arcaismi, solecismi e vocaboli desueti) lessicali e semantiche
abilmente e accuratamente predisposte dall’autrice per far saltare come sulla
dinamite semantica ogni ipotesi di interpretazione «razionale» e razionalistica
della poesia. «Farneticare in malandati versi». Così, per le vie sotterranee
che la storia sa scavare, la straordinaria fortuna in sede critica dell’erronea
intuizione di Pasolini andò tutta a vantaggio della poesia della Rosselli con
l’indicare una agibile e autorevole chiave di lettura di una poesia che,
altrimenti, sarebbe apparsa fuori dalle regole della tradizione italiana e
fuori-contesto. Oggi sappiamo che le cose non stanno così, ma è indubbio che la
fortuna di quell’errore ermeneutico si riflesse sulla fortuna dei testi. Con Variazioni Belliche e La
Libellula si ha la emancipazione e la fluttuazione del segno a livello
proposizionale; quello che per la neoavanguardia è ancora la linearità del
significante, per la Rosselli diventa la circolarità e la reversibilità dell’ordine
assertorio degli enunciati, reversibilità, commutazione e riconvertibilità
degli enunciati, che fanno assumere alla struttura linguistica dei testi
poetici una marcata dimensione liquida, sovrastrutturale, con preponderanza
della contaminatio e marcata
modellizzazione endogena, interna al testo; con il che il testo si auto
referenzializza: il livello di appercezione degli oggetti passa in secondo
piano, anzi, viene del tutto destituita di importanza, viene messa a fuoco una
vera e propria dissuasione strutturale dei segni linguistici ad aderire ad una
significazione.
Oggi noi non possiamo
abbozzare nessun discorso sulla poesia degli anni Sessanta senza prendere in considerazione un prodotto
così fuori dalle righe e dalle aspettative dell’epoca come l’opera di esordio
della Rosselli. Sta di fatto che dopo quel suo folgorante esordio, le opere
successive: Serie Ospedaliera (1963-1965)
Documento (1976), Impromptu (1993), segneranno un
progressivo distacco dalla rivoluzione proposizionale compiuta dalla prima
raccolta per un rientro progressivo nei ranghi di un ordine di discorso
razionalisticamente legato alla referenza oggettiva e all’ordine assertorio
della sintassi.
Possiamo affermare che
gli anni Sessanta sono stati una sorta di incubatrice, un crogiolo di tutti
quei problemi che la poesia italiana del Novecento ha lasciato insoluti
trasmettendoceli in eredità, così, tutti interi, in questi primi anni Dieci del
nuovo millennio? Possiamo dire che durante gli anni Sessanta vengono messe a
punto le strategie e i rapporti di forza tra le istituzioni stilistiche in
Italia? E ci è consentito affermare che nel contenzioso degli anni Sessanta ci
sono stati dei «vincitori» e dei «vinti»? Che gli anni Sessanta sono stati gli
anni in cui è avvenuta l’incubazione della linea
maggioritaria della poesia italiana e in cui sono state poste le fondamenta
del «modello istituzionale»? Se queste quattro domande sono lecite e anche
fondate, siamo già a buon punto. Ma c’è un’ulteriore domanda che serve ad
introdurre la risposta alle quattro precedenti: innanzitutto, quale è stata la
risposta della poesia italiana all’avvento del processo di modernizzazione
accelerata del paese? Ecco, questa, credo, è la questione centrale sulla quale
vale la pena di riflettere.
Ebbene, di fronte a
questa problematica la posizione della Rosselli
è sempre rimasta sostanzialmente estranea alle opposte fazioni
letterarie suddivise in neoavanguardisti e tradizionalisti (tra i quali
Pasolini, Moravia, Bassani, Bertolucci, Morante etc); la sua conoscenza trilingue della poesia europea le conferisce
un indubbio vantaggio che non è solo di anticipo di conoscenza di poeti come
Eliot, i metafisici inglesi e la coeva poesia francese rispetto ai poeti che si
erano formati in Italia ma rivela una
maggiore e più consapevole digestione della cultura poetica europea.
Rifacciamo brevemente il
punto della questione: La ragazza Carla di
Pagliarani è del 1960, Variazioni
Belliche del 1962. Non ci può essere una distanza più grande tra le due
impostazioni poetiche, l’uno tutto dentro una posizione di poetica operaistica
e industriale, l’altra tutta tesa ad una poesia che esaurisca le proprie
potenzialità entro la virtualità del proprio linguaggio. Posizioni
distantissime che dividevano la
Rosselli anche da quelle occupate dalla neoavanguardia. Ma
ciò non impedì alla poesia rosselliana di guadagnarsi un sempre maggiore spazio
di attenzione in un sistema letterario come quello italiano che certo non
favoriva le presenze di meteore poetiche del tutto dissimili dai prodotti
endogeni alla tradizione. Possiamo dire, per concludere, che in questa
equlibratissima e oculata politica di avvicinamento della Rosselli alle
posizioni delle poetiche allora in vigore possiamo notare tutta la sua abilità
e tenacia nel perseguire il suo disegno di acclimatamento e inquadramento della
propria poesia nell’ambito della tradizione della poesia italiana (quel suo
voler porre il modello di un nuovo classicismo poetico altamente formalizzato),
ma è proprio qui il punto nevralgico che costituisce anche il limite
dell’operazione rosselliana, quel voler rientrare nei ranghi, quella sua sete
di «normalità», quel suo voler accreditare la propria poesia come una opzione
di poetica non oltranzista tutta orientata nella forbice tra Montale e Campana.
3 commenti:
Carissimo Giorgio, come te son felicissimo di questo Meridiano dedicato alla Rosselli. Attendo altresì, e spero presto, Meridiani dedicati a Leonardo Sinisgalli e Raffaele Carrieri.
Luciano Nota
Ciao Amelia, mi ricordo di te. Mettevi spavento a incontrarti, con quei pantaloni scampanati, quell'aria persa... eppure quanta sicurezza nella tua voce, e quanto ritmato e dolce il tuo canto.
No, nei ranghi non c'è mai stata.
mayoor
Certo era straordinaria-
-mente aperta in se stessa
presa d’altro sempre dovunque
straordinariamente altra
da chiunque e visibilmente
straordinaria
e se non era facile
tenerla se non era lecito né si
poteva averla, berla o anche solo
intimorire la sua voce arcana
se non sarebbe stata per chiunque
per tutti quelli che l’hanno voluta
è stata voce e bevanda e preda
intimo possesso è stata per tutti
quelli che l’hanno veduta, presa
sopra una terra ch’è adesso muta
via dalla sua chiarezza, il verso
ad arretrare in taglio d’acque
Ma la sua vita allontanata la sua
straniera disgrazia l’adolescenza
solitaria il perdersi nel mondo senza
reti che solo a Tricarico trovò riposo
un’ora e per la vita intera una
mancanza
(lì si saldò l’incontro e la parola
prese da un lapsus la sua corsa
metrica di versi antichi e belli-
-che variazioni
(in morte di Amelia Rosselli)
Marcella
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