Brano I – da “Fuga”
È una casa sommersa, a due piani.
Sfondata dall’interno come un
pozzo,
stipata di vertigine abissale.
È un lago di sabbia e di sale.
È la forma di un palazzo in fondo
al mare,
un oceano raccolto in un
bicchiere.
Lagnosa di tubi che fischiano
maligni del fuoco che è
all’interno.
Ferrigni riverberi di luce
incisi dentro al buio
dell’eterno.
È la musica del tempo,
è l’ancestrale suono che si è
spento.
È un ricordo che soggiorna e non
si muove,
è un macigno di silenzio ch’è padrone.
Escrescenze filamentose allignano
di polvere le spore,
superfetanti fitte ragnatele.
All’angolo dei muri e dei
cantoni,
nel mezzo del pattume accumulato,
funghiscono organismi cellulari
fioriscono amicizie vegetali
simbiosi innaturali
sospiri di misteri e parassiti
e ragni velenosi,
gli acari invisibili e virali,
e i vermi anelliformi e i
protozoi.
E spugne di laniccia e rimasugli,
matasse di filacci e di capelli
intrecci di cavilli e segatura,
carcasse di pidocchi e
spuntatura,
e nidi pullulanti di formiche
e villi palpitanti di calura
e tocchi putrescenti di vapori
e croste e spoglie mute
epiteliari.
È il mal della natura,
la forma e la sostanza di
bruttura:
è il pungere mortal della
fattura.
Sono le stanze infette
dell’estate:
è il corridoio assurdo senza
fine.
Brano
II – da “Roma esercito”
E
poi l’appuntamento mai fissato:
aspettare,
aspettare invano
e
stupirsi che non viene la persona
immaginaria
che si attende, ma
un
poco sperare, anche, malgrado tutto
che
qualcuno ci venga a prendere
esca
poi dal vuoto e si presenti.
Oppure
ricordare di qualche appuntamento
vagamente,
confusamente, però
dubitare,
e aspettar lo stesso.
Quando
il silenzio è il suono del vuoto
il
vuoto è il colore del silenzio.
E
affiora l’interno del mondo.
Allora
mi sgancio dalle cose e…
vedo
le Bianche Eminenze.
Brano III – da “Roma esercito”
Cardinali,
deputati, borgomastri,
finanzieri,
turcomanni, ciambellani,
e
prevosti, gabellieri, dignitari,
graduati,
marescialli, caporali,
conestabili,
balivi, cortigiane,
portaborse,
parassiti e fannulloni:
tutti
belli assisi a manducare.
Sono
i potenti di successo,
gli
affermati ipocriti e arroganti:
quelli
dall’occhio lungo
aggressivo,
cinico, vorace,
che
l’hanno ucciso dentro,
con
le loro mani e da parecchio,
il
bambino che erano un tempo:
gli
sverginati, quelli che gente onora
deferente,
per paura e conto personale:
quelli
che infine lo han trovato,
dopo
tanto tempo a sgomitare
a
trafficar con mani di bilancia,
un
posticino al mondo da godere.
Bella la vita, eh?
E
noi buoni, quaggiù,
a
torcer le budella e a non fiatare.
“Armiamoci
e partite”, prorompono improvvisi,
e
poi grasse le risate a crepapelle
e
fiumi di buon vino a festeggiare.
Per
altra via, piuttosto
bisognerebbe
intripparli di cibo:
dal
bucio più nascosto e verecondo,
dal
fondo dell’oscuro,
per
una digestione all’incontrario.
Uscirebbe
cacca dalla bocca
o
il pabulo, mezzi a mezzi digerito
tornerebbe,
poi, fatalmente al basso,
sospinto
dalla forza digestiva?
Giustappunto
con la merda, ecco
io
li vedrei contenti a pasteggiare;
io
stesso gliela servirei di tutto punto,
in
guanti di velluto,
calda
di fetore e appena fatta,
plaf, col mestolo sul piatto di ciascuno
–
un inchino reverente e un bel sorriso
(“i
miei omaggi, signore”) –
siccome
una porzion di zuppa inglese.
E
poi, ancora, io passerei a pulire
i
grugni sporchi
sbavati
d’ingordigia immemoriale
beati
di satolla compiacenza
gaudenti
di bisboccia e carnevale:
gli
netterei la faccia da maiale
col
bell’asciugamano a fiorellini:
ma
quello del bidet, naturalmente,
e
vecchio poco poco almeno un mese…
Brano IV – da “Roma esercito”
Siamo
ad un passo da un gigantesco abisso
aperto
sull’immenso universale.
Sul
bordo di un dirupo:
sotto
è panorama aereo, anzi
satellitare.
Si vede benissimo l’Italia
di
mille anni or sono, scura
di
selve e di foreste.
Ma…
è un’isola!
…
completamente circondata dalle acque…
come
il nostro corpo quando nacque…
Ed
ecco, c’è qualcuno che si lancia…
resta
sospeso in aria, giusto il tempo di
pensare,
per qualche misterioso
attimo
di stallo… gira poi sull’asse verticale,
ride,
saluta e…
giù
che a piombo cade
come
un grave di metallo verso il mare
precocissimo
puntino che scompare
giuso,
a precipizio.
Devo,
voglio lanciarmi anch’io…
Non
so se farlo o meno, però:
paura,
speranza, indecisione
la
dolce titubanza del giudizio
e
forza, forza non ce l’ho.
Lo
faccio, l’ho fatto? Non so.
Sotto,
intanto, è cambiato
a
vista lo scenario.
La
“facciata” di Roma
e
la città posticcia che c’è dietro
(da
via della Salita a Monte Mario,
dal
Colosseo quadrato a quello antico
il
bulbo di Don Bosco e di San Pietro,
oh dolcevita! A
fork, please
– Do? – A fork,
waiter…
for the pork, please…
–
‘Na pinza pe’ ‘sta faccia da sarciccia –
traslava
er cameriere impomatato
profuso
deferente in un inchino,
e
ripigliava il canto:
“Quanto
sei bella, Romaaa…”)
tramuta
mano mano in… Nuova York!
Penso:
se mi lancio, non posso più
farlo
in tempo di giornata.
Come
si risale fin quassù?
Brano V – da “Al privè”
Strompegone bullo e
barracano
le froge impelagate nel
susone
moro in quintavalle
al “Pettinari”
– calotta impomatata a
brillantina –
vi accoglie sul portale
imbottito panno sopraffino
è un bel righetto er più
di quelli rari
sorriso paragulo e
brigantino
− le cicatrici in viso da
cortello −
è fatto cor pennello: è un
poperuolo
e ci ha lo stuolo delle
ammiratrici
Rodolfo Valentino de
noantri.
Saddùri di spemezie e
lucisano
(Ruoppolo e Marcacci i
buttafuori)
mutili geppini in
caravelle
burlacchiano
cesibanti, rucidi.
Nervosamente fuma il
principale
fra i denti masticando i
suoi “mortacci”.
Brano VI – da “Impallato”
Sto
lavorando al computero.
Il
marchingegno stupido e infernale.
Gli
occhi pallati che bruciano
infiammati
e sono rossi (mi fan male),
a
furia di guardare inutilmente.
Come
l’uomo che addiviene al postmoderno,
dopo
l’avvento della Grande Impresa
(nel
sistema a rete più globale):
un
minchione tutto il giorno al terminale
di
uno schermo ostaggio e in fondo schiavo:
pagato
per non pensare,
per
digitare i tasti ed eseguire
comandi
programmati e soluzioni,
caterve
di sequenze e informazioni.
La
mente stanca, soffiata, annuvolata,
sfiancata
dal silenzio di quel niente.
Sepolta
nella sabbia, agonizzante
impresa
nella morsa del suo sabba.
Violata,
nebulosa, alluvionata.
Sopiti
richiami di rabbia,
tremolanti
forme in gelatina.
I
disegni mistici del tempo.
Le
coincidenze, i nessi, le occasioni:
la
verità che trama alle apparenze,
che
ruba la misura alle presenze,
che
parla piano piano ai suoi bambini.
I
movimenti fermi del pensiero.
Sempre
più pigro, sempre più banale.
Inetto
e inutile, abissale.
La
misura della più grande altezza:
la
maggiore superficie.
Un
innesto di parole cancellate,
abrase
dal silenzio, censurate…
Brano VII – da “Impallato”
Son
diventato un virus.
Dentro
il computero stesso:
parte
strutturale componente,
cip
organizzato e intelligente.
Infinitesimo
punto di silenzio,
percorro
le autostrade di silicio
in
fasci e nervi ottici integrati:
la
luce mi trasporta e mi contiene:
è
un sole che mi brucia nelle vene,
un
nuovo Zoroastro da adorare:
è
un suono che si spande e non proviene, è…
un
disco che risorge tumefatto
verdastro
di sapore ed arancione…
M’intrippo,
m’impipo, m’inciucio
m’ammoglio
e m’introietto:
come
un cammello ricco in una cruna.
Disteso
quasi immobile, assoluto,
nell’intervallo
eterno del mio volo.
Stupefatto
di non essere diverso, in fondo,
da
quello che, io stesso, ero in precedenza.
Piovo
e ripiovo dall’interno
rotolando
come il fuoco in una fiamma
vorticante
corpo di materia
ectoplasma
fine di passione
ciglio
d’alba-luna in dissolvenza
lembo
di sottile firmamento
mare
catafratto in sospensione…
Brano VIII – da “Respinto”
A
fagiolo vennero gli uscieri, i caudatari
giannizzeri
coi pattini a rotelle
bardati
alabardieri e levantini
devoti
ciambellani e bucanieri
gaglioffi
turcomanni e mediatori,
a
farmi guadagnare l’estrusione,
a
riveder le stelle:
incontro
mi son giunti, concertati,
in
rimbalzanti cenni
(guizzo,
lampo, sopracciglio)
–
al volo avendomi “letto”
carpita
l’altra luce dal mio sguardo
ottuso,
opaco e in fondo stanco,
indegno
di veder Gesia Messù
il
suo pantocratore, la quintessenza dentro
l’alma
ousìa, allotria nel suo cuore
a
questo centro:
la
congenita, innata estraneità
che
mi relega in disparte, che mi esclude
da
una funzionale integrazione
e
mi vieta di esser parte dell’ambiente;
mi
fa pesce fuor dell’acqua, già spanciato
di
budella e spine e infarinato,
acconcio
ben benino alla frittura:
così
muto ed impacciato baccalà,
da
non sapere mai
(e
domandarsi inquieti)
quanto
e come respirare
la
realtà (nel suono delle forme
il
sentimento, cuore delle cose
il
fatto brutto) e dove infine
metterle,
‘ste mani,
che
verrebbe da troncarsele di netto
se
non ci sono tasche da infilare:
mi
rende morto in cuore e nel midollo,
piombo
le mie gambe da elefante
frolla
la mia mano e sudaticcia
spessa
la linguaccia agglutinata
bianca
di farina e di poltiglia
e
di cemento in pasta, sabbia in bocca…
Benevoli,
in fondo m’han ringhiato:
così
assurda e immotivata, la presenza,
che
senz’altro trattarsi debba (è evidente)
d’un
errore involontario e, dunque, veniale
proprio
in quanto greve e marchionale,
scusabile
diffalta e non flagizio
(che
si perdona come il fallo di un bambino,
un
dolce vizio).
Brano IX – da “Espulso”
“Ma
non erano da ciò le proprie penne”…
E
mi ritrovo indenne, gigante nano
sopra
il comodino della stanza.
Suona
chioccio nell’aria
un
vuoto pompeggiare di parole
agghindate
a festa e inefficaci:
è
il solenne discorso di un Prof.,
esimio
luminare: il Chiarissimo Super Repus
(questo,
il singolare nome).
Pedestre
affettazione!
Goffagine
ambiziosa di coglione!
Ne
ho interrotto il bell’eloquio,
col
mio arrivo felpato e molleggiato.
Duole,
il signorino?
Ma
no, che tosto riprende:
sono
solo il suo pretesto,
e
non lo tange affatto il moscerino –
ci
vuol ben altro per farlo insoddisfatto!
Brano X – da “Espulso”
Quand’ecco
che prrr… orompe da se stessa
immantinente,
sua
sponte meritevole e opportuna,
la
tromba perniciosa del mio culo!
È
un peto da competizione,
da
record mondiale:
quasi
cinque minuti!
Una
bomba di potenza nucleare:
un
ordigno disdicevole e letale!
E
puzzolente, poi: concentrata,
broccolosa
e putrescente! E sia.
Alla
faccia del Prof.
e
della sua saccente sicumera,
la
sua immensa incalcolabile albagia
onde
elargisce – ad ogni passo –
illuminanti
saggi e attestazioni
cercate
evoluzioni
palpando
sulla lingua le emozioni
gustando
alla papilla i rari suoni
beando
di se stesso l’eminenza
vantando
l’importanza
curando
con dovizia d’attenzioni,
soffolto
da un gestir sapiente e puro
e
sempre inappuntabile e perfetto:
maestro
d’eleganza e distinzioni
il
fiore d’eccellenza
la
punta di diamante
ai
fasti letterari i sommi onori,
che
manca quando è assente
che
piscia dalle altezze sulla gente,
i
poveri mortali: dico di lui, capite?
Il
massimo esperto, in orbe al suo Paese,
dell’ardua
disciplina che ‘l pregia fondatore
e
ogni mese lo contempla innovatore:
“Caccolistica
Applicata Superiore”
−
delle scienze esatte la migliore!
Lui,
dunque, l’augusto facitor di belle imprese:
il
sommo dei dottori, il parlator cortese
il
persuasore eletto, il divo autore
(che
mai sia contraddetto!),
che
mangia e gozzoviglia
s’impinza
a crepapelle
non
cale di famiglia
e
paga mai le spese…
Lui,
già, il re dei suoi somari
(scherani
portaborse e baciapile)
che
fiutano i suoi peti, gli assistenti
che
sol pippando erba, e delibando verba,
la
fibra più riposta al suo silenzio
–
perché è gonfio di silenzio nella voce,
sì,
ed è duro, nonostante lui lo creda,
che
rimanga fermo ciò che dice –
tutti
insieme puoi vederli a sgomitare,
ciascuno
in trista gara, per gli sonar le pive
e
reggere il suo sacco:
ciascuno
sui colleghi a prevalere
per
esser prediletto
e
caro nell’interno alle sue grazie:
disonesti
rei, consapevoli correi
d’aggravato
furo e surrettizio
adusi
a quel flagizio,
turlupinante
smacco di guagnele
terrorismo
ideologico e morale
stolto
pregiudizio, vana presunzione
buio
più profondo e immondo male:
sicché
permane il vizio
eterno
e imperituro
e
resta il suo passato nel futuro
ché
nulla lo corregge –
è
diventato Legge naturale!
*Marco Onofrio è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Laureato in Lettere
Moderne, Premio Internazionale “E. Montale”(1996), scrive poesia, narrativa, saggistica e critica letteraria. Per la poesia ha pubblicato i volumi “Squarci d’eliso”(2002), “Autologia” (2005), “D’istruzioni” (2006), “Antebe. Romanzo d’amore in versi” (2007), “È giorno” (2007),”Emporium. Poemetto di civile indignazione” (2008), “La presenza di Giano” (2010), "Disfunzioni" (2011). Ha ottenuto premi e riscontri critici a livello nazionale e internazionale. Web site: www.marco-onofrio.it
7 commenti:
Marco Onofrio preferisce poltrire nel piano basso del linguaggio, adopra l'eloquio plebeo per sortirne pasticci inconsulti mescendolo sapientemente col vino dell'eloquio nobile della tradizione. In questo frangente la vis polemica a politica di Onofrio trova il modo di scodellare tutte le stoviglie stilistiche e scandagliare in tutti i repertori semantici e lessicali. Perché là dove c'è un serbatoio lessicale, sembra dirci Onofrio, c'è anche un combustibile ideologico (e semantico) che promana da quel serbatoio; giacché ogni semantica è legata a doppio filo col combustibile ideologico e iconologico. Anche qui c'è un punto fermo della poetica di Onofrio: una sorta di anarchismo senza anarchia o una anarchia senza anarchismo, una competizione di tutti contro tutti (poiché ogni competizione è sostanzialmetne ideologica e lessicale ad un tempo), giacché qui è la totalità ad essere indicata di abominio, è la ratio della ragione ad essere defenestrata quale ratio meramente proposizionale che milita per l'Ordine proposizionale (che altro non è che l'Ordine della Ragione). E così via in una competizione a 360 gradi contro tutte le posizioni acquisite e da acquisire. Lungi dal porsi come poesia civile, questa di Onofrio è la posizione di un incivile, di un impolitico avverso all'ordine della civiltà e del Buon Governo della seconda Repubblica finita in un buco nero senza fondo... e, forse, senza possibilità di sortirne fuori in qualche modo. È una poesia di Fine del tempo, di Fine della Storia, Fine dei conflitti, Fine della finta competizione parlamentare che si divide in Opposizione e Governo...
Queste poesie fanno male. Sembrano fatte con gli incubi della gente maltrattata che, per questo, si trova a vivere nella pura; perché nell'inconscio prendono vita tutte le minacce, tutti i timori, i soprusi, le violenze, le mortificazioni, lo schifo, l'impotenza, la rabbia...
La poesia non dovrebbe tessere parole con il peggiore inconscio, non è terapeutico vomitare sulla gente, non aiuta, non è solidale, mette solo nei guai chi già vi si trova. Si dia una riguardata signor Onofrio, o se la faccia dare da uno psicanalista appena avrà incassato il prossimo premio letterario.
"Gli occhi pallati che bruciano
infiammati e sono rossi (mi fan male)"
Quel mi fan male, messo tra parentesi, lo scriva con più dovizia e verità.
mayoor
Con il linguaggio - tramite il linguaggio - la poesia legittima la sua credibilità , a prescindere dalla visione che abbiamo di noi stessi e delle cose del mondo . Quando arriva a destinazione può suscitare crisi d'itterizia per i suoi contenuti ma consensi per il suo linguaggio e viceversa . Resta il fatto ( credo oggettivo ) che il linguaggio resta decisivo e dirimente -ripeto- sia quando ci troviamo di fronte al sibemolle di un D'Annunzio o ai soprassalti viscerali di una Assunta Finiguerra .
Se insorgono problemi di digestione , non ci si può fermare -credo- "all'aria che tira" in un testo , contestualizzandola in un personale orizzonte di attesa e in una propria fisiologica maniera di rapportarsi alla Storia e alla vita ; procedendo così a canonizzazioni o a crucifige . Credo si debba fare i conti fino in fondo con il linguaggio , gestendo possibilmente al meglio i problemi mesenterici mediati dall'ideologia , dall'estetica , dalla filosofia , dalla propria maniera di stare al mondo attraverso la scrittura in versi ; che fa quello che vuole e non è quasi mai quella che pensavamo un attimo fa .
leopoldo attolico -
... cose notturne, che avrei cancellato potendo. Trovo giusto il richiamo arbitrale. Sono sicuro che per il buon linguaggio, per l'eloquio nobile, potrei stare con Onofrio, divertendomi, anche in un cacatoio.
Gentile Mayoor, si propone Lei per psicoanalizzarmi? PRenoterei qualche doviziosa e veritiera seduta terapeutica, non appena incassato il PRossimo PRemio letterario e tirato lo sciacquone al cacatoio letterario. Grazie per i giudizi sommari e per la squisita educazione. Con nobile, compitissimo eloquio. Marco Onofrio
Eppure s'avverte nello stile il richiamo slammer, di una poesia nata per l'oralità. Poesia che si è evoluta in questi anni puntando sempre più sulle qualità performative degli autori. Testi lunghi, recitati doverosamente a memoria, impongono un recitativo cadenzato che non consente interruzioni. Tutto questo mi è famigliare. Spiace per la frittata, ma ormai è cosa fatta.
mayoor
Non sono "poesie", nel senso di liriche. Sono brani tratti da poemetti concepiti e composti - come giustamente nota Mayoor nell'ultimo post - per la dimensione orale e performativa. "Disfunzioni" (Edizioni della sera, 2011) è un percorso esoterico che si snoda attraverso le "stazioni" di 7 poemetti, tentando le possibilità eversive di una liberazione creativa dell'uomo. E' evidente che, per provare a raggiungere la luce, occorre immergersi nella tenebra che la presuppone! Antonio Rossoni
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