lunedì 3 dicembre 2012

Pasquale Vitagliano
Poesie



Da Amnesie amniotiche (Lietocolle, 2009)

Un’altra vita
E’ comparsa inattesa,
come una crepa,
sul bordo del tavolo,
nell’angolo;
come per caso,
presa di taglio
da una luce fredda,
come una resa:
l’inattesa scossa,
il tuffo, l’idea
che questa
è un’altra vita.




Fine della Storia
Volevamo essere statue,
solo solcate
dalle lacrime degli
sconfitti
e mosse dal ritmo
dei loro passi.
Siamo solo
acqua smarrita,
impotente
alla forma
e al colore
di sordide bottiglie.
Siamo solo
lische lasciate
sulla polvere
di un muro a secco.
Lontano dal mare.



Finis terrae
Ecco il mattino
a metà del viaggio a ritroso
fatta la sosta nel secolo scorso
m’ingegno di fronte all’ignoto.
Ignorami, passato
perché duole e ti duole
il corpo di felce
sopra un greto disfatto di pene.
Tieniti la luna,
che io mi prendo il giorno,
che qui è così corto
per dare l’incipit al mondo.
Conto all’inverso i passi che restano
lungo il collo marino del sonno
dove l’occhio esanime si specchia
senza darsi nome. Dove spiro ogni giorno,
ed ogni giorno mi desto e non lo so(gno).



Pop Art Pops
Rimossa la piastra poetica,
smontate le officine del secolo,  
spostata sul ventre la guardia,
cos’altro resta da dire?
Rimetto tra le cose la parola,
metto a bagno i versi,
 e premo sull’uscio del giorno,
perché sia giorno benedire.
Rivolgimi un nuovo saluto,
soltanto la vita è scampata,
adesso che Soup non è che soup,
per una pietà umana 
nient’altro che parola,
senza più umanità.



Noli me tangere
Non voglio che mi tocchi, sono sveglio,
svuotato non sono ancora, mi sento
e sento il tuo tatto febbrile di ceramica.

Non puoi sciogliere i miei nodi, li sento
di legno, sebbene io sia presente ancora,
carne su tronco, corpo su peso.

Io non risorgo, ma resto sospeso nel sonno
di questo riposto crinale senza ritorno,
appeso nel vuoto come un sipario rotto.



Da Il cibo senza nome (Lietocolle, 2011)

Agli angoli delle strade
I libri non letti,
gli abiti gettati sui letti
sono corpi di pelle,
la polvere sui cuscini,
la posa del caffè
che ti resta tra le dita,
non mi siedo più,
tiro un respiro sulle ciocche
dei capelli che mi restano in mano.

Assomiglia a se stessa
la vita che raccontiamo
per sentirci diversi dai libri,
dai letti, dai vestiti,
per non confonderci coi capelli,
con le mani che senza di noi
sarebbero piante strane
o radici cucite che non hanno odore,
insieme alle scarpe o alle fedi
che non mi hanno spiegato il viaggio,
forse terminato senza alcun risultato,
fermo al punto solito,
all’angolo di un appuntamento mancato.


Il sonno condiviso
E pensare che ci siamo spartiti il sonno
sopra un plaid a scacchi,
senza che l’arrocco riuscisse a salvarmi.
Lasciami andare dove vai tu, in tutte le direzioni.

Quante volte me lo sono detto,
peggio di un secchio che perde acqua;
Quante volte ho cercato di risparmiarmi,
mentre torno a contare i centesimi della mia insistenza.

E tu, comunque, sei ancora qui,
mentre io mi trovo via,
sull’altra linea del quadrante;
a specchiarmi dietro le vetrine
ed a guardami in tasca,
se ho ancora da vivere.

Qualche cosa avanza sempre alla fine della spesa.



Questa casa non ha odore,
non dico il sugo, la frittura,
il calore, che sarebbe kitsch;

dico che non si sentono passi
dietro i tavoli, sulle tovaglie,
sopra i divani, fuori delle stanze.

Non posso dire la differenza, come
gli inglesi, tra casa e casa, perché
camere e cucina non siano solo mattoni,

intonaco e cellofan, ma anche terra,
ventre e fame che si sazia alla fine
della vita sui muri fino ad annerirli

e a farli puzzare delle nostre giornate.
E invece questa casa è una rimessa,
i cartoni, le scatole di cibo senza nome

al posto dei libri sugli scaffali dismessi,
le foto senza alcun luogo, i quadri senza
soggetto, la polvere che ti mangia tutto.

Mi resta il bagno, utile e integro come una cesta.



Silenzi

Ne ho sentiti di silenzi,
scialbe assenze di volume,
o loquaci più di un corpo autoptico.

Ne ho sentiti di silenzi,
uno spazio bieco, lasciato fuori
dall’altro lato dei volumi.

Non ne ho più trovato uno uguale
a questo risvolto oltre l’intero,
dentro questo insediamento di parole.

Nell’immagine negativa del pieno,
la scia tracciata dopo l’onda
ritratta dalla riva,
via da lettere e da particelle.

Ne misuro il peso col ghiaccio in bocca.



Gli ultimi giorni
Credi proprio che gli ultimi istanti
della giornata siano proprio uguali
agli ultimi giorni dell’umanità
perché non li puoi mettere in scena.
Ti lasciano appiccicata addosso
l’etichetta della lavanderia,
che nessuno ha il coraggio di
toglierti dalla piega della giacca.
Hai voglia tu a sperare che domani
la storia potrà essere riscritta.
Tutto quello che hai detto, e fatto
si riverserà dentro senza farsi domande.
Quante volte ti sei convinto che
tutto fosse finito, così per ricominciare.
È bene che ti rassegni a ciò che vedi:
non c’è giornata che termini senza umanità.
Non c’è umanità senza le tue giornate.

* Pasquale Vitagliano. Vive a Terlizzi (BA) e lavora nella Giustizia. Giornalista e critico letterario per riviste locali e nazionali. Ha scritto per Italialibri, Lapoesiaelospirito, Reb Stein, Nazione Indiana, Neobar. Menzione speciale nel 2005 al Premio di Poesia Lorenzo Montano Città di Verona – Sezione Opera Inedita. Nel 2006 è tra i “Segnalati” nello stesso premio – Sezione Poesia Inedita.
Sul settimanale Diva e donna ha scritto di cinema e letteratura per la rubrica Scandali e Passioni. Nel 2006 ha curato la sezione riservata a Italialibri dell’Antologia della Poesia Erotica (Atì editore). Ha pubblicato le raccolte Amnesie amniotiche (Lietocolle, 2009) e Il cibo senza nome (Lietocolle, 2011). Nel 2010 la silloge di poesie civili Europa è stata inserita nell’antologia Pugliamondo – un viaggio in versi, curata da Abele Longo (Edizioni Accademia di Terra d’Otranto Neobar). Nel 2011 ha partecipato alle opere collettive Impoetico mafioso – 100 poeti contro la mafia, curata da Gianmario Lucini (Edizioni CFR) e La versione di Giuseppe – poeti per Don Tonino Bello, curata da Abele Longo, (Edizioni Accademia di Terra d’Otranto). Nel 2012 la silloge Dieci Camei è stata inserita nell’antologia Retrobottega 2, curata da Gianmario Lucini (Edizioni CFR). Nel 2012 è uscito il suo romanzo d’esordio Volevamo essere statue (Eumeswil).




10 commenti:

Anonimo ha detto...

Un intimismo che mi piace tanto. Una voglia di vivere anche se arrendersi potrebbe essere una soluzione? Un contrasto di pensieri, momenti e parole che trovano nella metafora un significato forte e vero. Belle,davvero belle. Grazie .Emy

Anonimo ha detto...

"cos’altro resta da dire?"
E' come chiedere quale sia il significato della vita, perché senza significato potrebbe non avere un senso alzarsi ogni mattina e addormentarsi la sera...
"Ne ho sentiti di silenzi,
uno spazio bieco, lasciato fuori
dall’altro lato dei volumi.
Non ne ho più trovato uno uguale
a questo risvolto oltre l’intero,
dentro questo insediamento di parole."
La domanda sul significato non viene posta direttamente, è sottintesa, in ogni osservazione, in ogni meditazione, in ogni verso.

"È bene che ti rassegni a ciò che vedi:
non c’è giornata che termini senza umanità.
Non c’è umanità senza le tue giornate."

Anche qui una domanda non posta in forma di domanda. Manca un ragionevole interrogativo. E come risposta non ha grande valore, è vaga, non risolve.
Il tema esistenziale batte sulla negatività del soliloquio. Qualcuno potrebbe dire che leggere queste poesie è come lasciarsi guidare da un cieco (?)
mayoor

Annamaria ha detto...

beh, però se questo cieco fosse Omero...ma non credo che l'intento di queste poesie sia di guidarci da qualsiasi parte, ma piuttosto quello di farci entrare in un labirinto con tante strade senza uscita. Dopo la lettura resta un senso di spaesamento, un non senso del vivere. Mi sembra un'esperienza piuttosto diffusa quella del ripiegamento e della rassegnazione oggi tra gli uomini e quindi tra i poeti. Qualcosa vorrà dire dei nostri giorni e che anche la poesia rifletta questi stati d'animo non mi sorprende.
Annamaria

Anonimo ha detto...

Ho letto stamani:

"John aveva l'AIDS.
Prima, cominciò a parlare con se stesso.
Lo psichiatra disse:
"se vuoi parlare a te stesso,
fallo in forma di poesia."
(Allen Ginsberg)

mayoor


Annamaria ha detto...

...non é male come idea, la poesia non salverebbe il mondo ma almeno se stessi:un peso in meno per gli altri...dici poco
Annamaria

Anonimo ha detto...

Infatti, non è poco. Così intesa, il fatto che possa piacere anche ad altri diventa sorprendente. Esempi non ne mancano, anzi non si possono nemmeno contare. Per comunicare non dovremmo chiederci "per chi scriviamo", a chi ci rivolgiamo? Queste poesie di Vitagliano hanno un tono basso, confidenziale, l'interlocutore sembra esserci perché ogni tanto compare un TU, ma gli dice "Non voglio che mi tocchi"...
mayoor

Anonimo ha detto...

Annamaria ha già risposto. Omero era cieco. Non era in grado certo di guidare gli altri verso approdi-significati certi. Nell'antichità la "cecità" era attribuita ai poeti e agli oracoli. Non credo che la poesia debba spiegare. La poesia aiuta ad andare "oltre", ma il cammino è rischioso. Noli me tangere. Non voglio che mi tocchi. Quasi che al tatto dell'altro il poeta possa ritrovare il senno ma perdere la sua capacità sapienziale.

Anonimo ha detto...

Capisco, e potrei essermi sbagliato. Vitagliano potrebbe aver deciso di stare volutamente nel suo guscio per indagine, e qui muoversi con l'estetica della sua scrittura. Questo spiegherebbe il fatto che queste sue poesie manchino, per il momento, di uscite di sicurezza, di "approdi-significati certi".
mayoor

Anonimo ha detto...

Dibattito interessante. Ringrazio per queste riflessioni. Non credo che la poesia debba indicare strade e fornire significati. La poesia è una forma di rappresentazione. Ai livelli più alti ri-crea realtà e lingua. Ringrazio infine Ennio Abate e Giorgio Linguaglossa per l'ospitalità.
Pasquale Vitagliano

Anonimo ha detto...

La poesia no, ma vada per la rappresentazione.
grazie a te
mayoor