Leggo su LE PAROLE E
LE COSE 2 l'articolo POESIA, PRIMA PERSONAPLURALE / 2: CHARLES BERNSTEIN a cura di
Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo.
Ho trovato di particolare interesse e in buona sintonia con alcune mie passate riflessioni sui "moltinpoesia" questi passi tratti dai materiali di C.
Bernstein proposti dai due curatori:
1.
«Ciò di cui ci si deve
dispiacere, invece, non è l’assenza di un pubblico di massa per un qualsiasi
poeta, ma piuttosto l’assenza di un pensiero poetico che sia, per tutti, una
potenzialità realizzata».
L'accento è posto positivamente sul noi più che sull'io. Lo conferma più avanti anche la proposta di C. Bernstein di "traduzioni collettive" piuttosto che di un singolo poeta: «Alcune delle nuove tecnologie di scambio per la scrittura (email, traduttori automatici, social media) rendono possibili modalità di traduzione diverse da quelle finora conosciute. Basta confrontarle, ad esempio, con gli scambi epistolari tra USA e Russia ai tempi dell’Unione Sovietica.
Mentre valorizziamo le
differenze linguistiche, culturali ed economiche, esistiamo anche all’interno
di alcuni “non-spazi” – il web e i social media, di nuovo, ma anche l’economia
transnazionale. La traduzione, di conseguenza, dovrebbe avere di nuovo un ruolo
fondamentale… Come strumento? Come strumento, e anche come medium, perché
dobbiamo reinventare il significato della “traduzione” e le modalità con cui
essa consente di istituire uno scambio tra contemporanei… Invece di
concentrarci su un singolo poeta che traduce un altro singolo poeta (spesso più
anziano o già appartenente alla storia), perché non avviare una traduzione
collettiva di un contesto creativo articolato che includa diversi poeti,
traducendone le poesie ma anche le poetiche?»
2.
L'intento di C. Benstein è di «perseguire la natura dialogica e collettiva della poesia senza necessariamente definire la natura di questa collettività – la si chiami pure una collettività virtuale o anche… “questa nuova e comunque inavvicinabile America”: una collettività che è irrappresentabile, e che pure continua a farsi avanti». A me pare abbastanza vicino alla mia riflessione sulla "nebulosa poetante" o al concetto di "moltinpoesia". (Cfr. Una riflessione per la serata del 7 giugno 2012Palazzina Liberty di Milano).
Questo intento o
progetto lo ritrovo anche in quest'altro passo: «Penso alla poesia come
a una conversazione: non soltanto l’espressione di una voce isolata, ma una
voce che si mette al servizio di altre voci, in dialogo tra loro. La poesia
esiste in forma di costellazioni. Per capire quali sono gli obiettivi raggiunti
da ciascuno di noi, bisogna leggere tutto quel che viene prodotto, per
comprendere non solo i contesti sociali o storici, ma anche i diversi approcci
adottati da ogni singolo poeta».
A me era venuta addirittura l'idea di fare una
inchiesta sulla "moltitudine poetante" o di fare una sorta di rassegna
intitolata "i moltinpoesia uno per uno". Non posso, dunque, che ammirare la tensione di
Bernstein verso la ricerca svolta dagli altri poeti e il suo invito: «bisogna
leggere tutto quel che viene prodotto». Ma riconosco di aver rinunciato a quesa prospettiva di lavoro dopo l'esperienza del "Laboratorio Moltinpoesia" (2006-2012). Per la vastità e lutulenza
dell'odierno mare magnum degli scriventi poesie o
"similpoesia" (Raboni). Per la consapevolezza che la diffidenza e
l'ostilità ad una ipotesi di valorizzazione dei "moltinpoesia" è in
Italia fortissima. E da solo ben poco posso fare per contrastarla.
Suppongo, però, che una tradizione elitaria, accademica e snobistica (dall'alto, perché c'è - altrettanto negativa - pure quella dal basso...) deve
condizionare anche i poeti statunitensi, se Bernstein scrive: «Questo tipo di
poesia ambisce a elevarsi sopra il caos, disprezzando trionfalmente il
mosaico-patchwork e aspirando, invece, agli attestati di merito codificati. Ci
ritroviamo con un che si traveste da super-io: un mulo che si dà delle arie. Da
una parte, appropriazioni, collage, disgiunzioni, opacità, dialettalismi,
multilinguismi, forme inventate, poliversità – tutte le forme della xenofilia –
danno conto dell’urgenza delle condizioni culturali esistenti. Dall’altra
parte, la purezza è una fantasia il cui oggetto del desiderio è strettamente
legato alla xenofobia. La poesia “di alto profilo”, allora, è come un preside
che ti impedisce di entrare a scuola perché non indossi la divisa giusta
(divisa che può benissimo essere una giacca, ma anche un jeans). Sto pensando a
quell’attitudine sdegnosa che ancora oggi accoglie la caotica e rumorosa poesia
di invenzione».
3.
«Forse quello che
stiamo ascoltando [in questi anni] è una scrittura che si muove oltre le
attuali definizioni e iscrizioni delle identificazioni individuali e
collettive, verso un’identità a venire, o virtuale, verso cui puntano
tutte queste confusioni e commistioni, o meglio, queste confabulazioni; come se
questa scrittura lasciasse debito spazio alle multiformi proiezioni di chi
legge.». Che mi pare di poter accostare alla mia ipotesi-tensione verso una
"poesia esodante" (Cfr. su POLISCRITTURE: Molti
in poesia e poesia esodante. (Appunti) e Moltinpoesia
e poesia esodante).
4. «Dare voce a
chi non ha voce è uno shibboleth di molta della poesia di oggi, il
che è ammirevole, ma il rischio è sempre quello di imporre la nostra voce su
chi non ne ha. Come ha scritto R. W. Emerson, “in sella ci stanno le cose e
sono loro a cavalcare il genere umano”. Molta della “voce”, nella nostra
cultura, è la voce delle merci, delle persone che parlano come se fossero
merci. Il che equivale a dire che noi, la maggior parte di noi, per la maggior
parte del tempo, siamo alienati da noi stessi. So di non essere il solo a
considerare robotica buona parte del linguaggio che sento in bocca agli altri.
Mi rendo conto di sembrare condiscendente, ma molte delle voci che sento in
giro mi fanno paura. Non penso che parlare con naturalezza o sincerità sia una soluzione;
non è l’unica, almeno. Cosa succederebbe se sospendessimo l’illusione delle
“voci” e guardassimo al linguaggio come a un costrutto? A quel punto, forse, a
contare sarebbero non tanto le parole o il parlante, quanto il lettore o
l’ascoltatore. Naturalmente, chi legge/ascolta non è molto più libero di me o
di te. Ma questo approccio è comunque un modo per lavorare con la poesia come
spazio immaginario per la riflessione e la proiezione, un momento esterno
all’esercizio della parola più smaccatamente quotidiano e utilitarista».
Nota
Dal blog slowforward ho
tratto il video su You Tube posto in copertina
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