domenica 19 marzo 2023

MOLTINPOESIA APPUNTO 2: Vengo a sapere di Charles Bernstein

 


di Ennio Abate

Leggo su LE PAROLE E LE COSE 2   l'articolo  POESIA, PRIMA PERSONAPLURALE / 2: CHARLES BERNSTEIN  a cura di Lorenzo Mari e Gianluca Rizzo.
Ho trovato di particolare interesse e in buona sintonia con alcune mie passate riflessioni sui "moltinpoesia" questi passi tratti dai materiali di C. Bernstein proposti  dai due curatori:

1.
«Ciò di cui ci si deve dispiacere, invece, non è l’assenza di un pubblico di massa per un qualsiasi poeta, ma piuttosto l’assenza di un pensiero poetico che sia, per tutti, una potenzialità realizzata». 


L'accento è posto positivamente sul noi più che sull'io. Lo conferma più avanti anche la proposta di C. Bernstein di "traduzioni collettive" piuttosto che di un singolo poeta: «Alcune delle nuove tecnologie di scambio per la scrittura (email, traduttori automatici, social media) rendono possibili modalità di traduzione diverse da quelle finora conosciute. Basta confrontarle, ad esempio, con gli scambi epistolari tra USA e Russia ai tempi dell’Unione Sovietica.

Mentre valorizziamo le differenze linguistiche, culturali ed economiche, esistiamo anche all’interno di alcuni “non-spazi” – il web e i social media, di nuovo, ma anche l’economia transnazionale. La traduzione, di conseguenza, dovrebbe avere di nuovo un ruolo fondamentale… Come strumento? Come strumento, e anche come medium, perché dobbiamo reinventare il significato della “traduzione” e le modalità con cui essa consente di istituire uno scambio tra contemporanei… Invece di concentrarci su un singolo poeta che traduce un altro singolo poeta (spesso più anziano o già appartenente alla storia), perché non avviare una traduzione collettiva di un contesto creativo articolato che includa diversi poeti, traducendone le poesie ma anche le poetiche?» 

2.

L'intento di C. Benstein è di  «perseguire la natura dialogica e collettiva della poesia senza necessariamente definire la natura di questa collettività – la si chiami pure una collettività virtuale o anche… “questa nuova e comunque inavvicinabile America”: una collettività che è irrappresentabile, e che pure continua a farsi avanti». A me pare abbastanza vicino alla mia riflessione sulla "nebulosa poetante" o al concetto di "moltinpoesia". (Cfr.  Una riflessione  per la serata del 7 giugno 2012Palazzina Liberty di Milano).

Questo intento o progetto lo ritrovo anche in quest'altro passo: «Penso alla poesia come a una conversazione: non soltanto l’espressione di una voce isolata, ma una voce che si mette al servizio di altre voci, in dialogo tra loro. La poesia esiste in forma di costellazioni. Per capire quali sono gli obiettivi raggiunti da ciascuno di noi, bisogna leggere tutto quel che viene prodotto, per comprendere non solo i contesti sociali o storici, ma anche i diversi approcci adottati da ogni singolo poeta». 

A me era venuta addirittura l'idea di fare una inchiesta sulla "moltitudine poetante" o di fare una sorta di rassegna intitolata "i moltinpoesia uno per uno". Non posso, dunque, che ammirare la tensione di Bernstein verso la ricerca svolta dagli altri poeti e il suo invito: «bisogna leggere tutto quel che viene prodotto». Ma riconosco di aver rinunciato a quesa prospettiva di lavoro dopo l'esperienza del "Laboratorio Moltinpoesia" (2006-2012). Per la vastità  e lutulenza dell'odierno mare magnum degli scriventi poesie o "similpoesia" (Raboni). Per la consapevolezza che la diffidenza e l'ostilità ad una ipotesi di valorizzazione dei "moltinpoesia" è in Italia fortissima. E da solo ben poco posso fare per contrastarla.
Suppongo, però, che una tradizione elitaria, accademica e snobistica (dall'alto, perché c'è - altrettanto negativa - pure quella dal basso...) deve condizionare anche i poeti statunitensi, se Bernstein scrive: 
«Questo tipo di poesia ambisce a elevarsi sopra il caos, disprezzando trionfalmente il mosaico-patchwork e aspirando, invece, agli attestati di merito codificati. Ci ritroviamo con un che si traveste da super-io: un mulo che si dà delle arie. Da una parte, appropriazioni, collage, disgiunzioni, opacità, dialettalismi, multilinguismi, forme inventate, poliversità – tutte le forme della xenofilia – danno conto dell’urgenza delle condizioni culturali esistenti. Dall’altra parte, la purezza è una fantasia il cui oggetto del desiderio è strettamente legato alla xenofobia. La poesia “di alto profilo”, allora, è come un preside che ti impedisce di entrare a scuola perché non indossi la divisa giusta (divisa che può benissimo essere una giacca, ma anche un jeans). Sto pensando a quell’attitudine sdegnosa che ancora oggi accoglie la caotica e rumorosa poesia di invenzione»


3.

«Forse quello che stiamo ascoltando [in questi anni] è una scrittura che si muove oltre le attuali definizioni e iscrizioni delle identificazioni individuali e collettive, verso un’identità a venire, o virtuale, verso cui puntano tutte queste confusioni e commistioni, o meglio, queste confabulazioni; come se questa scrittura lasciasse debito spazio alle multiformi proiezioni di chi legge.». Che mi pare di poter accostare alla mia ipotesi-tensione verso una "poesia esodante" (Cfr. su POLISCRITTURE: Molti in poesia e poesia esodante. (Appunti) e Moltinpoesia e poesia esodante).

 

4. «Dare voce a chi non ha voce è uno shibboleth di molta della poesia di oggi, il che è ammirevole, ma il rischio è sempre quello di imporre la nostra voce su chi non ne ha. Come ha scritto R. W. Emerson, “in sella ci stanno le cose e sono loro a cavalcare il genere umano”. Molta della “voce”, nella nostra cultura, è la voce delle merci, delle persone che parlano come se fossero merci. Il che equivale a dire che noi, la maggior parte di noi, per la maggior parte del tempo, siamo alienati da noi stessi. So di non essere il solo a considerare robotica buona parte del linguaggio che sento in bocca agli altri. Mi rendo conto di sembrare condiscendente, ma molte delle voci che sento in giro mi fanno paura. Non penso che parlare con naturalezza o sincerità sia una soluzione; non è l’unica, almeno. Cosa succederebbe se sospendessimo l’illusione delle “voci” e guardassimo al linguaggio come a un costrutto? A quel punto, forse, a contare sarebbero non tanto le parole o il parlante, quanto il lettore o l’ascoltatore. Naturalmente, chi legge/ascolta non è molto più libero di me o di te. Ma questo approccio è comunque un modo per lavorare con la poesia come spazio immaginario per la riflessione e la proiezione, un momento esterno all’esercizio della parola più smaccatamente quotidiano e utilitarista».


Nota
Dal blog slowforward ho tratto il video su You Tube posto in copertina


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