A supporto di una riflessione sulla poesia contemporanea ripubblico un mio intervento al Convegno della rivista di Massimo Parizzi, “Qui. Appunti dal presente” – Milano, maggio 2005.
Il presente Il ‘presente’, quello che abbiamo sotto i nostri occhi, è fatto di guerra, di computer, di denaro, di televisione, di distruzione di uomini e natura. È da alcuni secoli il presente inaccettabile del Capitale. O qualcuno crede che non sia più qualificabile in tale modo e vada chiamato e vissuto come ‘presente’ e basta? Staccato da ogni passato e senza futuro? Un frammento-Tutto? Scisso per sempre da una storia?
A questa nuova fede non aderisco. Se un'altra visione del tempo - che comporta un'altra forma di comunicazione (meno frammentata e più ragionata) -, fosse oggi inconcepibile, penso di dovere sfuggire lo stesso a questo diktat e al tipo odierno - leggero, veloce, emotivo - di comunicazione sua propria. O, comunque, finché vivo, cercherò di trattenere memoria del ‘passato’ (della storia) e dell’azzurro respirato in altri tempi dai nostri padri elettivi dentro ‘presenti’ altrettanto o più tragici di questo. (E un po’ forse anche da noi).
Se poi, invece di un diktat, questa visione del tempo e della comunicazione imposte dal Capitale, diventerà un gusto, un’etica, una politica condivisa da molti (e, dunque, la forma mentale dominante dell’epoca postmoderna a scapito di forme di pensiero e di comunicazione a più alto tasso di criticità), sarò - per come posso - ad essa ostile.
Ho ancora troppo nella mente un certo Walter Benjamin nel deserto della Germania nazista e poi dell’Europa in guerra. Per lui (e anche per altri nostri padri) il cosiddetto ‘passato’ - le sue lotte, i suoi incivilimenti, le sue immani tragedie - non poteva ma considerarsi concluso. Giaceva come magma vulcanico sotto la crosta del ‘presente’, del visibile, dell’immediatamente percepito. E ogni generazione ha da fare i conti non solo con quello che sta sotto il suo naso (o gli mettono sotto il naso i potenti e i loro consiglieri), ma con quell’irrisolto ‘passato che non passa’ da riscattare.
Dannoso, perciò, voltare pagina con disinvoltura. O testimoniare in questo presente solo la nostra impotenza (pur in una certa misura reale). Una critica esplicita al presente del Capitale resta oggi una scommessa ancora più pascaliana di quella dei nostri padri sconfitti del Novecento. Che hanno sempre tentato di unire le forze di chi scrive e di chi non scrive e cercare una soluzione trascinando - per così dire - nell’adesso passato e futuro. Per sovvertire il presente del Capitale, che si vuole eterno, e tentare di realizzare la ‘promessa di felicità’ a cui la poesia (una certa poesia) allude da secoli. Perché rinunciarvi?
La poesia al presente Mi sono chiesto: quale poesia potrebbe stare a suo agio in questo presente? E mi sono detto: anche oggi poesia e presente si guardano in cagnesco. Come sempre, forse. Ma subito mi sono corretto, ricordandomi che nel presente del Capitale la poesia esiste anche sotto forma di idolo. E dell’idolo, di tanto in tanto, qualcuno torna ad apprezzare - ahimè! - il suo tradizionale ‘valore auratico’ e - ahimè ancora! - i suoi paramenti di ‘religione privata, mistica laica’: un digestivo pseudo-aristocratico e per palati che non tollerano la spazzatura dei mass media e la letteratura di consumo.
Questa poesia-idolo sopporta bene, invece, il sangue versato nelle nuove guerre. Che si sa non arrestano la sua diarrea versificatoria. Adesso si accuccia anche nel virtuale - (che come il Denaro non puzza) - di tanti siti Web. E' contorno (delicato) ai piatti forti serviti al pubblico in festival o convegni universitari. Riceve sottobanco spiccioli da sponsor ambigui. Fa lo spogliarello veloce alla TV. E a volte asseconda il sonno della ragione anche a Radio Tre.
Eppure - (mitizzo appena il necessario) - in passato la poesia (almeno una certa poesia ‘critica’) si era contrapposta al presente del Capitale. O si era coniugata con Lui in modi meno repellenti di quelli servili appena accennati. O s'era difesa in una marginalità eticizzata. E fu (paradossalmente) presente nella storia in alcuni adesso di rottura della continuità del dominio capitalista. Magari quasi in incognito, in forme collettive e corporee, in atto. Con ottimi effetti, però, anche nell’ordine simbolico codificato suo proprio (parole, metrica, sintassi). E a modo suo, perché la poesia non coincide mai del tutto con la politica, la filosofia, le scienze, le religioni, una comunità, una classe sociale, una realtà materiale. Mi riferisco - che so - al 1871 a Parigi, al 1917 a Mosca, al 1943-‘45 fra Stalingrado, Milano e Parigi. O al 1968 in molte parti del mondo. Cioè a quegli adesso in cui la gabbia del presente del Capitale fu almeno un po' spezzata da uomini e donne, noti o rimasti sconosciuti, costruttori in quelle rivolte, in quelle rotture, di una vita altra da quella preventivata dai dominatori. E, tra essi, alla spicciolata ci furno anche i poeti.
Una poesia esodante e finita nel pozzo della guerra in Irak Torno a questo presente di guerra, di computer, ecc. Dov’è oggi una poesia in grado di resistere e contrapporsi in quanto poesia al presente del Capitale? Non la vedo nelle riviste di sola poesia o di sola letteratura e neppure in "Qui. Appunti dal presente".
Non è possibile? È forse in gestazione dove "prolifera la poesia selvaggia: migliaia di libri stampati a pagamento e centinaia di piccole riviste che pubblicano autori più o meno sconosciuti" (Mazzoni), che molti disprezzano o rifiutano e altri portano come prova di un "vigoroso ritorno d’interesse nei confronti della poesia"? O cova fra i giovani, magari quelli "nati dal 1950 in poi". O dal 1960 in poi. O dal 1970 in poi. A seconda dei critici che erigono le ragioni anagrafiche a unico criterio valutativo e, al posto della storia, si dedicano alle microstorie generazionali?
Da alcuni anni penso a un’ipotesi ben poco letteraria. La riassumo brutalmente: la poesia (italiana, quella che riesco a seguire…) sta faticando per uscire da una consunta dialettica tutta interna alla tradizione nazionale (o europea) e, sotto l’urto della mondializzazione, sta esodando, uscendo cioè da quei confini; ma tale esodo - come tanti altri sia materiali che mentali -, è oggi bloccato dalla guerra permanente (per ora in Irak) e dai suoi deleteri effetti in tutti i campi, fin negli interstizi della nostra vita quotidiana e in quella inconscia. Ne deduco un’indicazione etica, politica e poetica: bisogna mettersi almeno sulle tracce di questa esodante finita nel pozzo della guerra in Irak.
Non si sa bene - come per il ragazzo di Vermicino - (ricordate Alfredo Rampi, quel fanciullino d’epoca ancora industriale, caduto nel pozzo?) - a quale profondità si trovi. Di essa a stento riusciamo a immaginare i lamenti, i sospiri, gli urli che si confondono con quelli dei torturati ad Abu Ghraib o in altre terre di nessuno.
E, se come poeti o poetesse accorressimo presso quei pozzi, faremmo la fine di Giuliana Sgrena. Che è corsa generosamente in Iraq per sentire più da vicino il lamento della poesia caduta nel pozzo di quella guerra e ci è caduta pure lei. E ne è uscita malconcia, senza aver potuto tirarla fuori.
Tirare fuori da lì la poveraccia è davvero arduo. I poeti e le poetesse non sono dei Rambo. Ma riconoscere che la poesia nel presente del Capitale è nel pozzo della guerra (in Iraq per ora) ci dovrebbe almeno indurre a lasciare i nostri orticelli o parcheggi culturali, a non cercare la poesia sempre nelle vicinanze di casa nostra, nella passioncella amorosa a portata di cuore, nell’intimo delle lenzuola, nel quotidiano più soporifero.
Certo, per definire cosa potrebbe essere una poesia esodante potremmo almeno:
1) riprendere non le formule ma gli interrogativi, anche politici e sociali, presenti nella ‘poesia critica’ degli anni Sessanta;
2) rifiutare in questi tempi grami di fare della parola (o della Parola) un ‘bene rifugio’ dell’anima o dell’io (Io);
3) criticare politicamente e poeticamente il rapporto gerarchico fra pochi e molti, consolidatosi anche nell’istituzione poesia (materiale come tutte le altre); e anche nella critica letteraria, anche nell’estetica (e quindi all’interno dei procedimenti linguistici e di pensiero di cui la poesia inevitabilmente si serve);
4) allontanarci dal culto della Poesia-nazione e, senza abbandonarci a un dadaismo plurilinguistico o all’apologia giocosa del caos babelico o a qualche cervellotico esperanto, tentare la costruzione di una lingua comune: semplice, ma non banale e commerciale come quella imperante nei mass media. Forse ricavabile da un ibrido di lingue a forte traducibilità e comunicabilità. Questa sorta di nuova koiné planetaria potrebbe fluidificare gli esodi materiali e culturali in corso fra milioni di uomini e donne a livello mondiale.
Sarà davvero possibile una poesia esodante contro questo presente? Non lo so. Accenno a tante domande possibili. Verrà fuori dalla nebulosa o moltitudine poetante che oggi si dà da fare confusamente in poesia? Sarà possibile una grammatica della moltitudine poetante sulla falsariga di quella accennata da Paolo Virno? È pensabile un’estetica moltitudinaria (un bello della moltitudine) capace di non ribadire che le differenze di qualità fra i testi (bello/brutto, riuscito/non riuscito) o fra le facoltà espressive e comunicative dei singoli debbano cristallizzarsi in gerarchie estetiche, che, come da secoli accade, non fanno che confermare e consolidare poteri economici, sociali e politici fondati sulla violenza del dominio? Potranno mai ‘eccellenza’ e ‘mediocrità’ avere un senso includente e non escludente?
Non lo so, Ma bisogna riproporre a poeti e poetesse (e non solo a loro) il problema di una qualità e di una bellezza comune, di tutti e per tutti, che per sorgere e affermarsi deve essere veicolata da un linguaggio comune, sistemato spero in un De vulgari eloquentia adatto ai tempi che chiamiamo postmoderni.
Un linguaggio comune può venire solo dalla piena espansione delle potenzialità poetiche presenti nelle esperienze che, come singoli-moltitudine, riusciamo a fare nel tempo di vita e nel tempo di lavoro, per una buona parte di noi sempre più interconnessi e, in molti casi, già indistinguibili.
Una prospettiva esodante e moltitudinaria in poesia forse può essere solo intravista allegoricamente. Accostando con la forza dell’immaginazione le ombre oscure che oggi vediamo agitarsi nelle folle dei migranti, dei lavoratori dell’immateriale e della nebulosa poetante.
Migranti, nuovo proletariato, scriventi poesie: non si può dire quanto essi vogliano davvero esodare e quanto invece vorrebbero essere semplicemente riconosciuti dentro il contesto capitalistico attuale, costruendosi - come si dice - una normale ‘identità’.
In questa moltitudine (il gremito di Giancarlo Majorino?) c’è di tutto: ambivalenza, nostalgia per la ‘Grande’ poesia del passato, coltivazione in serre accademiche di genietti, costituzione di sottocorporazioni generazionali (i giovani poeti scalpitanti sugli elmi ai moribondi?).
C’è di tutto: arrivismo, improvvisazione, cinismo. E forse nel fenomeno c'è anche un preoccupante aspetto tumorale. La nebulosa poetante è atomizzata, non cooperante. Recita dialogo e critica, invece di praticarli seriamente. Ma, se nel suo agitarsi ci fosse anche solo un germe per la formazione di una intelligente resistenza della poesia al presente del Capitale, non dovremmo farcelo sfuggire.
Poesia e riviste Credo, perciò, che ci vogliano tante riviste di poesia e di letteratura. O "non di poesia, non di letteratura, ma di appunti dal presente" come "Qui". Per offrire a questa nebulosa poetante inchiodata a questo ‘presente’ una prospettiva coerente di esodo.
Ma senza sfuggire ad un'altra domanda: di quale poesia, di quale letteratura, di quali ‘appunti dal presente’ ci sarebbe bisogno?
Non di poesia, letteratura o appunti che rientrino nella visione segmentata, impressionistica e non più storica del presente (e del tempo). Purtroppo in gran parte la poesia oggi pubblicata si adatta quasi spontaneamente a tale visione estetizzante, sdrammatizzante, a-ideologica, in apparenza solo sensuale e non mentale del tempo (e del presente). Poco o nulla svela della matrice da cui è estratta e del contesto. E se, per poetica seguita dall’autore, si dà come frammento, si ritrova a suo agio in compagnia di altri frammenti di vario genere (diaristici, saggistici, narrativi, di testimonianza). E, dunque, si ritrova in buona compagnia con una certa prosa: entrambe gemelle tra loro e inchiodate a questo presente. Funziona da exemplum o illustrazione dei temi particolari trattati nelle riviste. Oppure è diluita in un fiume comunicativo caotico e dalla direzione imprevedibile.
E perciò, anche quando sta accanto agli scritti in prosa di un filosofo, di uno scienziato o - visto che la letteratura si è democratizzata - di un lavoratore del terziario o di un precario flessibile, non diventa più diversa da quella che se ne sta in una raccolta, un’antologia o una rivista di poesia. Medesima è l’atmosfera in cui sorge e si colloca. Se, infatti, si privilegia il frammento, che differenza c'è a ritrovarlo in una rivista ‘interdisciplinare’ o in un’antologia di sola poesia o in una rivista di sola prosa?
Al massimo qualcuno pone - come se fosse decisiva - la questione di dare più spazio alle poesie e meno alle prose. Ma del fatto che poesie e prose restano quasi sempre incomunicanti, chi se ne duole? E di quanto e se mordono quella che una volta si chiamava ‘realtà’ chi chiede conto?
Vorrei a questo punto evocare, per assurdo, un’eventualità piuttosto interessante e magari avveniristica. La sostanza di una poesia – non dico la mia, parlo in generale; meglio ancora, parlo della poesia che sarebbe da tentare - non si coglie dal frammento prescelto per una rivista. E può risultare spesso palesemente incoerente col progetto della rivista stessa. Due allora le possibilità. O la poesia accetta di restare decorativa, di stare sullo sfondo o nella paginetta o rubrichetta ad essa assegnata dalla rivista. O è il discorso della rivista che viene messo in discussione.
Ancora più interessante sarebbe se la poesia, stufa di essere cenerentola o ancilla di qualcosa, ma stufa pure di starsene in clausura nelle riviste di poesia-poesia, pretendesse un contenitore più coerente con la sua sostanza. Entrando in fecondo dialogo/conflitto con i collaboratori-redattori della rivista. Pretendendo di non essere un'aggiunta, una decorazione, ma di respirare alla pari con gli altri testi o addirittura d’inventare altri contenitori più adatti alla sua sostanza.
Questi casi - assurdi in questo presente, lo riconosco - illuminano però per contrasto il misero panorama culturale d'oggi. Le riviste accolgono oggi una pluralità di scritture a volte anche stridenti tra loro (non tanto per qualità, che in astratto importa di meno, ma per intenzioni esplicite o implicite).
Siamo divenuti così sensibili (in teoria) alle pluralità, alle differenze, alle diversità e ostili alle sintesi precotte o ai monolitismi da incubo che ci ripetiamo di continuo cose del tipo: siamo su un terreno nuovo; non sappiamo quale sia il nuovo canone della cultura postmoderna; non è detto che debba esserci; "questo nostro camminare ci porta dentro selve oscure e la nostra capacità di orientamento di tanto in tanto si confonde" (Negri).
Con questo ritornello nella mente, oggi è piuttosto raro che una poesia sia capace di misurarsi alla pari con altri saperi e - figuriamoci - con la ‘realtà’ del presente.
Ma - ditemi - non sarebbe bella una prospettiva quasi impossibile oggi? Non sarebbe auspicabile una poesia che s’interrogasse e si facesse interrogare anche dai non poeti e che s’interrogasse e si facesse interrogare sul sommerso (concetti o enciclopedie di concetti) su cui poggiano le riviste nelle quali viene ospitata e sul sommerso del postmoderno e di questo presente del Capitale?
Troverei molto simpatica una poesia che dichiarasse: sì, il frammento può a volte essere imposto dalla stessa ‘realtà’, che non si decide, neppure scrollata, a "cacciar fuori il resto". Ma, vediamo un po’: è sempre e davvero così? Sempre è impossibile liberare il dato concreto e quotidiano, il frammento, l’appunto di diario, me stessa - la poesia - dai rischi di divagazione, di rimozione, d’intimismo ineffabile, di solipsismo? È sempre da preferire che io mi allinei elegantemente, conviva senza mai pestare i piedi e farmeli pestare (ma anche senza dialogare o confrontarmi) con il pensiero di A, la testimonianza di B, il saggio di C? E non sarebbe il caso di frequentare di più la ‘realtà’ anche se non si sa più bene cosa indichi questa parola?
E poi aggiungesse: cari redattori di riviste, io che ci faccio qui in mezzo a voi - frammentata fra frammentati, monade in versi fra monadi in prosa - mentre ci spostiamo (o ci spostano) da un presente all’altro, in una sorta di danza immobile planetaria. Non vi sembra che qualcosa non vada?
E finisse il suo discorsetto, scusandosi così: criticare è uno sport che nel presente del Capitale si esercita sempre più a fatica. È fuori moda. Ma io devo reimparare tale esercizio: mi pare che sia venuta meno qualcosa di importante in questa scelta "epocale" di ficcare il naso così addosso al presente da vedere solo i nei, i peli, i pori della sua pelle e di riferire in scrittura solo di nei, peli e pori. Potremmo ridiscuterne?
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