martedì 4 novembre 2025

RIFLESSIONI IN FORMA DI DIARIO SULLE MIE "POETERIE" (1980-1981)

 


                                       Poesia e Moltinpoesia. Un percorso, un bilancio (3)

di Ennio Abate


14 gennaio 1980

Leggendo Vanoye, La funzione poetica nei messaggi scritti e Annaratone, Rossi, Versificazione e tecnica della poesia.

Certo la poesia, che nel costruirsi s’appoggia alle varie funzioni del linguaggio comune, non è riducibile all’aspetto metrico. E mi pare assurdo che senza metrica non ci sia poesia. Anche un corpo – penso – esiste di per sé e non perché sia misurabile (o non vale soltanto quando rientra entro determinate misure giudicate normali). Non posso trascurare che finora - e in particolare nella cultura letteraria italiana - la misura ha avuto una grandissima importanza e che sarebbe da sciocchi pretendere di capire la poesia dei classici trascurando il loro rispetto o la loro passione per i problemi di metrica. Ma ho sempre pensato e temuto che la metrica (come l’ortografia, come tutti i saperi regolati) possa e viene anche usata per intimidire e sottomettere, cosa inaccettabile. A complicare le cose c’è statal’esperienza delle avanguardie, che è andata oltre misura (o oltre le misure canoniche). Forse perché influenzato io pure anche solo indirettamente da tali esperienze, non ho badato mai troppo alla metrica. Oppure mi sono affidato da sempre a una metrica soggettiva praticando alcune delle possibili varianti del verso libero. Il problema di valutare quanto il verso libero sia o no alternativo o fuorilegge me lo ritrovo di fronte adesso che leggo gli scritti sulla metrica di Fortini. Il quale insiste a dimostrare quanta metrica della tradizione stia nella apparentemente vergine e ribelle anti-metrica delle avanguardie. Mi convince? Non so dire. So dire, però, che resto curioso verso le tante esperienze che hanno cercato il senso del/nel non senso, o la logica del/nell’a-logico.
Per adesso
tengo a bada sia la soggezione alla metrica che il suo rifiuto semplicistico. Potrei controllare che tipo di versificazione ho adottato in questi anni e quali mutamenti sono intervenuti rispetto agli inizi. Ma è un compito che richiede tempo e una competenza della tradizione metrica che non sono riuscito ad avere. Questo mio deficit è un po’ il marchio ricevuto dalla mia traballante e penosa formazione liceale. La metrica mi respinse; e solo il provvidenziale aiuto del sig. Giarletta, un direttore delle poste in pensione che abitava al piano di sotto della nostra palazzina, mi fece superare il blocco che m’impediva di leggere bene gli esametri in greco. Quelle mie difficoltà furono la molla che fece scattare la mia simpatia istintiva quando scoprii i poeti che usavano il verso libero. E che allora – parlo del 1956-’57 - erano al di fuori dei programmi liceali, fermi alla “triade” Carducci-Pascoli-D’Annunzio. Ne lessi - per caso e per la prima volta dei testi - in un’antologia dei poeti del primo ‘900 prestatami dalla sorella laureanda in lettere del mio compagno di liceo Carlo Bisogno.
Le suggestioni dell’avanguardismo sono rimaste abbastanza vive. E anche se oggi condivido l’insieme delle critiche (soprattutto politiche) di Fortini alle avanguardie, so quanto sia rimasto lontano e irraggiungibile il suo classicismo.


agosto 1981

1.

L'inizio della mia ricerca poetica fu attorno al 1961-'62, interrotto  e complicato dalla mia partenza per Milano e dalla ricerca di un lavoro per mantenermi. Mi sono sempre rifiutato di sbarazzarmi di quei frammenti comunque intenzionati poeticamente.

2.

Lettura delle Poesie di Zanzotto [Oscar Mondadori 1973] in uno scompartimento di seconda classe [facevo il commissario ai corsi abilitanti a Firenze?].

Per me c’è stata una rottura fisica all’età di 4-6 anni col mondo contadino (Baronissi) e più tardi con quello piccolo borghese (Salerno) e un’immersione altrettanto fisica e forzata (da me) nella metropoli (Milano).
Il mio
paesaggio da allora è stato, con linguaggio preso dalla politica, il sociale. Un rapporto di attrazione e di conflitto. Mi ha spinto al dialogato [che non indica di per sé un maggior rapporto con il sociale reale].

Un’osservazione sul rapporto scrittura-sentimenti a pag. 66 di Zanzotto [Oscar Mondadori 1973]: Non è scrivendo morte o paura della morte che si esprime l’angoscia oscura che ci prende, anche quando si è a distanza da fatti di morte. Ci sono altri segni che rendono di più non il concetto (conscio) ma il suo alone (inconscio).
Applicandola ad alcune mie (poche poesie) del ‘62-‘64, mi accorgo che un verso come
le cugine non sanno pisciar alto è rimasto banale. Non ho potuto o saputo più far emergere la suggestione angosciosa legata alla rivelazione infantile che registrai in quel verso. Il senso poetico (inconscio?) si era disfatto o tramutato in altro; e le parole rimaste sulla carta vengono facilmente risucchiate nella banalità del linguaggio d'uso quotidiano, normale. Queste parole restano solo un documento di una fase della mia ricerca a cui è difficile ricollegarmi. D
ovrei rifarmi poeta come ero allora, ma il critico del me stesso passato mi suggerisce solo di stracciare quei fogli.

Un immaginario dialogo fra E81 ed E61-62 potrebbe essere all’incirca questo:
E81 - Forse volevi dire… Io intendo questo oggi... Qui non afferro per niente.. Qui mi respingi..
E61-62 - Temevo il futuro ed ero incapace di immaginare come saresti stato. Sono tutto in questi frammenti. Che fai? Mi prendi in giro? Mi giustifichi come se fossi stato uno sciocco?
E81 - Vedi che forse non sono tanto diverso o distante da te. Non sono andato così oltre. Ma non mi va di riordinarti o accomodarti…

[Nota 1983. Soltanto per alcuni anni ho sentito l'esperienza che facevo a Milano “superiore” a quella fatta a Salerno. Poi non più. E rileggendo anche quei pochi frammenti poetici che scrissi a Salerno mi riesce di riprendere il contatto con qualcosa di vivo, sia pur al passato [che bisogna ricordare]. Non c’è ritorno al passato, ma, ricordandolo, si coglie la sua estensione (solo di sofferenza? o prevalentemente di sofferenza?) nel presente (e viceversa?). Scavare ancora in quei frammenti di poesie giovanili. Dargli altra forma è possibile.]

3.
Mia immagine dell’immigrato=verme tagliato. Il rapporto col dialetto è per me pieno di sensi di colpa. Coscienza del “tradimento”? Sono lontano da Zanzotto: per me una rottura irrimediabile, voluta e non solo subìta, c’è stata. [Uno sbocco possibile avrebbe potuto essere quello di esasperarla, lasciarsi alle spalle anche l’italiano nazionale, internazionalizzandosiForse poteva essere la via che avrei imboccato se, dopo la crisi con Ann, come avevo deciso, me ne fossi andato a Parigi].

Né il mio rapporto con i mass media è mai stato quello  di un Zanzotto o un Fortini, che  definirei di un umanesimo superiore, meditato, consolidato e in me assente.

[Che faccio? Ai miei figli spengo la TV, impedisco di leggere i fumetti d’oggi? 
Diabolik e la TV sono quello che furono per me Sussi e Biribissi o Sciuscià o Il Vittorioso e le sollecitazioni culturali che mi vennero dal chiuso ambiente dall’Azione Cattolica di Salerno. Veleno, certo. Ma nella nostra condizione eravamo/siamo senza un'eredità culturale  forte e senza alternative. Potrebbero dirmi: «Se tu, papi, non ti sottrai ai borborigmi del Quotidiano dei lavoratori  - (e nella tua infanzia ci fu pure il catechismo!) -, perché ci spegni la TV?».
Il mio rapporto con la cultura classica è stato minimo e davvero spezzato (
In morte del liceo classico!). E lo stesso con la religione (Le gioie dell’educazione cattolica!).
Da qui la constatazione realistica di aggirarmi inerme - (a volte col rischio di sperdermi)-  nell'odierno labirinto consumistico-culturale. In morte del liceo classico e Le gioie dell’educazione cattolica sono titoli che colgono la crisi (in me) dell’umanesimo idealista e cattolico, in cui mi formai a Salerno.
[Ma il processo di sfaldamento è proseguito anche
nell’area culturale in cui mi sono spostato pensando di progredire o modernizzarmi. Anche nella tradizione marxista non ci sono entrato saldamente e l'ho vista logorarsi appena ci ho messo piede.  Forse dovrei scrivere anche un In morte del Partito o Le gioie dell’educazione di sinistra!].

4.
Le poesie non servono a cambiare il mondo? Si possono, perciò, anche non pubblicare o pubblicarle senza fretta, anche dopo decenni dalla loro stesura.

5.
La “clandestinità” delle mie scritture è stata la forma per proteggerle e continuare a scrivere o a poetare. Prima per resistere in ambienti del tutto ostili o indifferenti a questa attività. E ora in una situazione inflazionata da scrittori e  poeti "d’arrembaggio” che mi respingono e io respingo. Così, ho attraversato fasi produttive e fasi di autocensura o rinuncia a scrivere poesie. Non mi rimprovero di non aver cercato di avvicinare direttamente gli scrittori "veri" viventi. Semmai,  di non aver lavorato ancora più sodo in questa “clandestinità” riconoscendola da subito come definitiva per me e per molti altri.

6.
[Forse prima idea di “Immigratorio”?]

Immigrazione come: viaggio “folle” (Ulisse, Dante); recisione (il passato che torna come fantasma sfigurato); regressione al visivo, colto deambulando per le vie di Milano; regressione a sentimenti bassi; misticismo sporco, autoeducazione o masochismo dinamico[?] (hoc est enim); morte (Il funerale della giovinezza che mi hanno fatto [o mi sono fatto?] e sopravvivenza fantasmatica (disincanto); regressione nel rapporto con le cose altrui (Dà retta ai ragionamenti dei cancelli spalancati); (Un’offesa ripensata); alienazione (Latteria); costrizione a “fare esperienza”[che non è esperienza]. [Quali immagini del passato interferiscono con il vissuto dell’immigrato?]




Nessun commento: