Poesia e Moltinpoesia. Un percorso, un bilancio (3)
di Ennio Abate
14 gennaio 1980
Leggendo Vanoye, La funzione poetica nei messaggi scritti e Annaratone, Rossi, Versificazione e tecnica della poesia.
Certo
la poesia, che nel costruirsi s’appoggia alle varie funzioni del
linguaggio comune, non è riducibile all’aspetto metrico. E mi pare
assurdo che senza metrica non ci sia poesia. Anche un corpo – penso
– esiste di per sé e non perché sia misurabile (o non vale
soltanto quando rientra entro determinate misure giudicate normali).
Non
posso
trascurare
che finora
- e in particolare nella cultura letteraria italiana - la misura
ha avuto una grandissima importanza e
che sarebbe da sciocchi pretendere di capire la poesia dei classici
trascurando il loro rispetto o la loro passione per i problemi di
metrica.
Ma
ho
sempre pensato e
temuto
che la metrica (come l’ortografia, come tutti
i saperi
regolati)
possa
e viene
anche
usata
per intimidire e
sottomettere,
cosa inaccettabile. A complicare le cose c’è statal’esperienza
delle avanguardie, che è andata
oltre
misura
(o
oltre
le
misure
canoniche). Forse perché influenzato io
pure
anche solo indirettamente da tali esperienze,
non ho badato mai
troppo alla
metrica. Oppure
mi sono affidato da sempre a una
metrica soggettiva praticando
alcune delle
possibili varianti del verso
libero.
Il problema di valutare
quanto
il
verso libero sia
o no
alternativo
o fuorilegge me
lo ritrovo di fronte adesso che leggo gli
scritti sulla metrica di Fortini.
Il quale insiste a dimostrare quanta metrica della tradizione stia
nella apparentemente vergine e ribelle anti-metrica
delle
avanguardie. Mi
convince? Non so dire. So dire, però, che resto curioso verso le
tante esperienze che hanno cercato il senso
del/nel non
senso,
o la logica del/nell’a-logico.
Per adesso tengo
a
bada sia la soggezione alla metrica che il suo rifiuto semplicistico.
Potrei controllare che tipo di versificazione ho adottato in questi
anni e quali mutamenti sono intervenuti rispetto agli inizi. Ma è
un compito che richiede tempo e una competenza della tradizione
metrica che non sono riuscito ad avere. Questo
mio deficit è un po’ il marchio ricevuto
dalla
mia traballante e penosa formazione liceale. La metrica mi
respinse;
e solo il provvidenziale aiuto del sig. Giarletta, un
direttore
delle poste in pensione che abitava al
piano di sotto della nostra
palazzina,
mi fece superare il blocco che m’impediva di leggere bene gli
esametri in greco. Quelle mie
difficoltà
furono la molla che fece scattare la mia simpatia istintiva quando
scoprii i
poeti che usavano il verso libero. E che allora – parlo del
1956-’57 - erano al di fuori dei programmi liceali,
fermi alla “triade” Carducci-Pascoli-D’Annunzio. Ne lessi -
per caso e
per la prima volta dei
testi - in un’antologia dei poeti del primo ‘900 prestatami
dalla sorella laureanda in lettere del mio compagno di liceo Carlo
Bisogno.
Le
suggestioni
dell’avanguardismo sono
rimaste abbastanza vive. E anche se oggi
condivido l’insieme delle critiche (soprattutto
politiche)
di Fortini alle avanguardie, so
quanto sia rimasto lontano
e irraggiungibile il suo classicismo.
agosto 1981
1.
L'inizio della mia ricerca poetica fu attorno al 1961-'62, interrotto e complicato dalla mia partenza per Milano e dalla ricerca di un lavoro per mantenermi. Mi sono sempre rifiutato di sbarazzarmi di quei frammenti comunque intenzionati poeticamente.
2.
Lettura delle Poesie di Zanzotto [Oscar Mondadori 1973] in uno scompartimento di seconda classe [facevo il commissario ai corsi abilitanti a Firenze?].
Per me c’è stata una rottura fisica
all’età di 4-6 anni col mondo contadino (Baronissi) e più tardi
con quello piccolo borghese (Salerno) e un’immersione altrettanto
fisica e forzata (da
me) nella
metropoli (Milano).
Il mio paesaggio da allora è
stato, con linguaggio preso dalla politica, il sociale. Un rapporto di attrazione e di conflitto. Mi ha
spinto al dialogato [che non indica di per sé un maggior rapporto con il sociale
reale].
Un’osservazione
sul rapporto scrittura-sentimenti a pag. 66 di Zanzotto [Oscar
Mondadori 1973]: Non è scrivendo morte
o paura della morte
che si esprime l’angoscia oscura che ci prende, anche quando si è
a distanza da fatti
di morte. Ci sono
altri segni che rendono di più non il concetto (conscio) ma il suo
alone (inconscio).
Applicandola ad alcune mie (poche poesie) del ‘62-‘64, mi accorgo che un verso come le
cugine non sanno pisciar alto
è rimasto banale. Non ho potuto o saputo più far emergere la
suggestione angosciosa legata alla rivelazione infantile che
registrai in quel verso. Il senso poetico (inconscio?) si era disfatto o tramutato in altro; e le parole rimaste sulla carta
vengono facilmente risucchiate nella banalità del linguaggio d'uso quotidiano, normale. Queste parole restano solo un documento
di una fase della mia ricerca a cui è difficile ricollegarmi. Dovrei rifarmi poeta come
ero
allora, ma il
critico del me
stesso passato mi suggerisce solo di stracciare quei fogli.
Un
immaginario dialogo fra E81 ed E61-62 potrebbe essere all’incirca
questo:
E81 - Forse volevi dire… Io intendo questo oggi... Qui non afferro
per niente.. Qui mi respingi..
E61-62 - Temevo il futuro ed ero incapace di immaginare come saresti stato. Sono
tutto in questi
frammenti. Che fai? Mi prendi in giro? Mi giustifichi come
se fossi stato uno sciocco?
E81 - Vedi che forse non sono tanto diverso o distante da te. Non sono andato così oltre. Ma non mi va di
riordinarti o accomodarti…
[Nota 1983. Soltanto per alcuni anni ho sentito l'esperienza che facevo a Milano “superiore” a quella fatta a Salerno. Poi non più. E rileggendo anche quei pochi frammenti poetici che scrissi a Salerno mi riesce di riprendere il contatto con qualcosa di vivo, sia pur al passato [che bisogna ricordare]. Non c’è ritorno al passato, ma, ricordandolo, si coglie la sua estensione (solo di sofferenza? o prevalentemente di sofferenza?) nel presente (e viceversa?). Scavare ancora in quei frammenti di poesie giovanili. Dargli altra forma è possibile.]
3.
Mia
immagine dell’immigrato=verme tagliato. Il rapporto col dialetto è
per me pieno di sensi di colpa. Coscienza del “tradimento”? Sono
lontano da Zanzotto: per me una rottura irrimediabile, voluta e non solo
subìta, c’è stata. [Uno sbocco possibile
avrebbe potuto essere quello di esasperarla, lasciarsi alle spalle anche
l’italiano nazionale, internazionalizzandosi? Forse poteva essere la
via che avrei imboccato se, dopo la crisi con Ann, come avevo deciso, me ne fossi andato a Parigi].
Né il
mio rapporto con i mass media è mai stato quello di un Zanzotto o un Fortini, che definirei di un umanesimo superiore, meditato, consolidato e in me assente.
[Che faccio? Ai miei figli spengo la
TV, impedisco di leggere i fumetti d’oggi? Diabolik
e la TV sono quello che furono per me Sussi
e Biribissi o
Sciuscià
o Il Vittorioso e
le sollecitazioni culturali che mi vennero dal chiuso ambiente dall’Azione Cattolica di Salerno. Veleno, certo. Ma nella nostra condizione eravamo/siamo
senza un'eredità culturale forte e senza alternative. Potrebbero dirmi: «Se tu, papi, non ti sottrai ai
borborigmi del Quotidiano
dei lavoratori - (e
nella tua infanzia ci fu pure il catechismo!) -, perché ci spegni la
TV?».
Il mio rapporto con la cultura classica è stato minimo e davvero
spezzato (In morte
del liceo classico!). E lo stesso con la religione (Le
gioie dell’educazione cattolica!).
Da
qui la constatazione realistica di aggirarmi inerme - (a volte col rischio di sperdermi)- nell'odierno labirinto consumistico-culturale. In
morte del liceo classico e
Le gioie dell’educazione cattolica sono
titoli che colgono la crisi (in me) dell’umanesimo idealista e cattolico, in cui mi formai a Salerno.
[Ma il
processo di sfaldamento è proseguito anche nell’area
culturale in cui mi sono spostato pensando di progredire
o modernizzarmi. Anche nella tradizione marxista non ci sono entrato saldamente e l'ho vista logorarsi appena ci ho messo piede. Forse dovrei scrivere anche un In
morte del Partito o
Le gioie
dell’educazione di sinistra!].
4.
Le
poesie non servono a cambiare il mondo? Si possono, perciò, anche non pubblicare o pubblicarle senza fretta, anche dopo decenni dalla loro stesura.
5.
La
“clandestinità” delle mie scritture è stata la forma per proteggerle e continuare a scrivere o a poetare. Prima per resistere in ambienti del tutto ostili o indifferenti a questa attività. E ora in una situazione inflazionata da scrittori e poeti "d’arrembaggio” che mi respingono e io respingo. Così, ho attraversato fasi produttive e fasi di
autocensura o rinuncia a scrivere poesie. Non
mi rimprovero di
non aver cercato di avvicinare direttamente gli scrittori "veri" viventi. Semmai, di
non aver lavorato ancora più sodo in questa “clandestinità” riconoscendola da subito come definitiva per me e per molti altri.
6.
[Forse prima
idea di “Immigratorio”?]Immigrazione
come: viaggio “folle” (Ulisse, Dante); recisione (il passato che
torna come fantasma sfigurato); regressione al visivo, colto
deambulando per
le vie di Milano;
regressione a sentimenti bassi; misticismo sporco,
autoeducazione
o
masochismo
dinamico[?]
(hoc
est enim); morte (Il funerale della
giovinezza
che mi hanno fatto [o
mi sono fatto?]
e sopravvivenza fantasmatica (disincanto); regressione nel rapporto
con le cose altrui (Dà retta ai ragionamenti dei cancelli
spalancati); (Un’offesa ripensata); alienazione (Latteria);
costrizione a “fare esperienza”[che
non è esperienza].
[Quali immagini del passato interferiscono con il vissuto
dell’immigrato?]

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