sabato 8 novembre 2025

RIFLESSIONI IN FORMA DI DIARIO SULLE MIE "POETERIE" (1983)

 

Poesia e Moltinpoesia. Un percorso, un bilancio (5)


di Ennio Abate


gennaio
1983
«Samizdat Colognom»1: un angoscioso ripiegamento in assenza di “amore” e “furore”
di Donato Salzarulo

La tentazione di parlare di questa opera prima di Ennio Abate in chiave prevalentemente politica è grande. Del resto, egli fa di tutto per suggerire una tale lettura. Le dà un titolo da dissenziente dell'Est, rubrica i testi con categorie tipo Invettive, Zichilibò, ecc. evocatrici di universi quasi ignoti (quanti sanno che ‘zichilibò’significa l'altalena?) o di mondi in cui si è rinchiusi e contro i quali ci si scaglia, costruisce i versi con le parole di un'epica quotidiana, consumata rapsodicamente nel tranquillo... possesso della desolazione (pag. 44).
Bisogna, tuttavia, resistere a questa tentazione. Le pagine di questo libro non sono
politiche. E, se di politica si tratta, essa è altra rispetto a quella di cui si nutrono molte persone (tra cui il sottoscritto) aggirandosi nelle stanze di Villa Casati o nei luoghi di lavoro o nelle sedi di partito o “tra le masse” (per riprendere una vecchia terminologia). Si tratta In altre parole della politica della poesia. Di una politica, cioè, che ha i suoi tempi, i suoi messaggi, i suoi contenuti, i suoi schieramenti. Tutta roba che solo in parte interagisce e si intreccia con la politica vissuta dalle molte persone. Con ciò non si intende assolutamente sostenere che i testi di Ennio non si alimentino anche della osservazione attenta delle molte persone incontrate e scontrate nei luoghi in cui si consuma la sua vita e quella di molti di noi (famiglia, scuola, Cologno). Ma quale sguardo guida questa osservazione? Quale volontà? Quali desideri? Se, per dirla all'ingrosso, la politica delle molte persone è ancora quella di mettersi insieme per dare corpo all'utopia o, più modestamente, a progetti collettivi di cambiamento, per Ennio decine di burocratini /beccano boriosi/ il cadavere del progetto (pag. 72) e del futuro/ brivido sereno/ non arrischiamo delineazioni (pag. 42).
Dal 1969 al 1976
(anno più, anno meno), Ennio è stato - diversi lo ricorderanno - uno dei leaders principali, sicuramente il più autorevole, della Nuova Sinistra colognese. Un ruolo vissuto con generosità e dedizione, ma soprattutto con un'adesione totale, quasi corporale, alle speranze di rinnovamento suscitate in quegli anni . Speranze ghiacciate poi dalla crisi che investì tutti i settori del movimento di classe. Come ha vissuto questo compagno la crisi di quelle speranze? Quale risposta ha dato? Come ha ristrutturato e riorganizzato il suo percorso? Le poesie di questo libro parlano un po’ anche di questo. Il vento che le agita è lugubre, pieno di dolore, con molta angoscia e, a tratti, quasi piangente. Ed io tutti i volti della rivoluzione/ che manca/ mi vado ripassando (pag. 34). Nostalgia? Sì, anche questa. Ma è la nostalgia che si ode in certi lamenti funebri, l'elaborazione luttuosa di una mancanza, di una ferita faticosa a rimarginarsi. Poesie, dunque, di un militante sconfitto, insieme ai tanti altri compagni di una volta, sparpagliati e schizzati a succhiare il miele del risarcimento (pag. 54).
Nondimeno, lungo questa linea della propria vicenda biografica, ora compenetrata, ora sovrapposta, ecco prendere forma ed emergere un'altra dimensione. Smessi i panni del militante, costretto dalla spirale storica e dalle sue complicate dinamiche a riprendere i fili di un vecchio amore
(quello per la poesia), obbligato a curare, invece dei quattro gatti (come fa Elena a pag. 12) le sue stesse parole, Ennio ritorna indietro su ferite e perdite ben più vecchie di quelle della sua crisi di militante. Nel sopore pomeridiano riemerge così l'antico dolore (pag. 62) e il suo lavoro poetico si fa un po’ simile al compito di suo figlio: il classico fuori tema perché, invece della città sotto la neve/ sulla neve ha scritto / che gli nevica dentro il cuore (pag. 69). E quegli insegnanti murati nello stipendio/ addestrati cacciatori di errori... Forse/ perché nell'ordine immobile/ (vivono)/ come in una bara (pag. 69) sono proiezioni delle proprie paure, rappresentanti delle proprie angosce.
Ma come si vive in una bara?
A chi possiamo porre queste domande - volutamente ingenue - se non ai nostri morti? D'accordo: quel padre in campagna appare meno freudiano (pag. 48), ma come appare la madre? Perché intabarrarsi/ in miopie inopportune? Quella della madre, mi sembra un'assenza sintomatica in queste poesie. Un'assenza, tuttavia, che nutre molti testi. Allora ,come per quei verbali di pag. 71, credo che occorra scorticare le righe di questi versi, così da identificare le parole posticce/ le divaganti conversazioni e cogliere il palpitante fiume/ di orgasmi curiosità desideri/ e intelligenza/ che ora solo in lattea retorica/ ci costringiamo a nominare (pag.71).
Cos'è questa
lattea retorica se non quei discorsi “di latte” (fuor di metafora: di un periodo infantile) ai quali Ennio in queste poesie è costretto a ritornare? Discorsi, insomma, fatti al seno, annusamenti, parlottii, fruscii, ronzii, bisbiglianti messaggi. Il cubo solido delle convinzioni in cui si è ripiegati (pag.17) è proprio solido, ad indicare, significativamente, la compattezza del processo di ritorno che viene effettuato. In diverse zone del testo, il ripiegamento si fa disfacimento non solo della materia sociale ma anche del proprio corpo (controllavo le mie mani incomposte, pag. 71). Con queste parole imbavate di umori corporei/ spuntanti talvolta/ da universi di paura.../ singhiozzi non più decifrabili/ dalle masse degli stadi (pag. 84), si disegna così l'assenza di “furore”e di “amore” della lettera di pag. 20. Una lettera spedita ad un destinatario taciuto, da un di “qui” di questo mondo, in cui solo con discreta auto-ironia si può dire tutto bene. In realtà è vero il contrario, e basta un nonnulla/ uno squarcio nell'imponente divieto del muro per rivelare sempre grigio e immoto/ il paesaggio perduto (pag, 38).
Leggendo queste poesie ho imparato a conoscere un altro Ennio e per quanto il desiderio
di scorticare le righe sia in me molto forte (questo lo dico nei confronti di tutto ciò che è carta stampata), ad un certo punto mi sono ritratto. Sono stato preso da quella sorta di pudore personale al quale accenna Giampaolo Sasso in un suo complicato ma affascinante lavoro. È il pudore che viene quando si cerca di mostrare fino in fondo la ricchezza straordinaria e l'intensità dei mondi simbolici contenuti nei testi poetici. Essi trattano di vicende intime proiettate e nascoste in altri significati...La bellezza della poesia vi appare nella forma di una trasparenza, che contiene in sé le cose da dirsi,  e si astiene volutamente dal dirle, suggerendo un mondo indifeso e da proteggere. (Cfr. Le strutture anagrammatiche della poesia, Feltrinelli, 1982, pag.19).
Ecco, l’Ennio
che ho incontrato è un Ennio più intimo, più indifeso, quasi un bambino da proteggere. Naturalmente Ennio non è solo questo. A questo punto che dire? Lo attendo con amore speranza alle prossime poesie. Spero che il suo dolore (non solo suo e diverso, magari, da quello mio) si lenisca un poco. Delle sue parole, anche se diffidate e invitate a celarsi (pag. 9)1 ho bisogno. Il loro ritmo non è ammirevole e i discorsi sono segnati da povertà? (pag.91). Questo, Ennio proprio non può dirlo. Per una volta tanto taccia l'insegnante, che anch'egli è, e sia data licenza al poeta. Il ritmo, già ammirevole, lo diventerà di più e i discorsi, già ricchi, si moltiplicheranno e si accresceranno .

2 Gennaio ’83

1. Concetti-sintesi per ordinare i frammenti. (Ci sarà mai una sintesi?)

Barunisse = paganesimo | Salernitudine = cattolicesimo | Immigratorio = anarchismo, emarginazione | Samizdat Colognom = “marxismo” 

2. 
«Se la storia e la cronaca sono il prodotto di una memoria organica, anche se in taluni casi selettiva, anzi tanto più organica quanto più rigorosamente e coscientemente selettiva, il mito nasce invece da una memoria disgregata, casuale, affidata all’alea degli incontri e ai demoni dell’analogia; all’ordine razionale degli eventi si sostituisce un rapporto intuitivo, fantastico con un passato svuotato di ogni ragione teleologica. […] [Secondo Saussure] le creazioni simboliche esistono, ma sono il prodotto di errori naturali di trasmissione. [Fra questi errori primeggia la dimenticanza, la] riduzione della massa dei materiali relativi alla cronaca che porta all’isolamento di elementi anche marginali e alla loro trasformazione in entità assolute, in simboli. La volontà, l’intenzione di simbolo non è mai esistita all’origine. [Il simbolo] uscito dalla dimensione razionale... entra nel favoloso, come in un sogno. […] Se è vero quello che sostengono Saussure e Montale, dovremo quindi concludere che il mito non rappresenta, come s’intende per lo più da Cassirer in poi, un momento culturale proprio di una fase remota nella storia dell’umanità, ma il prodotto delle operazioni inerenti al lavoro delle epoche storiche. Il mito e la preistoria, in altre parole, non nascono durante l’epoca cosiddetta mitica e preistorica, ma in quella della ragione storica, per cui la registrazione del passato prossimo è possibile solo a costo di distruzioni massicce nell’ambito del passato remoto»


(D’Arco Silvio Avalle,
Dalla letteratura al mito, in Montale, Rizzoli 1977).

E’ un brano  che mi conferma quanto afferrato lavorando a Immigratorio. La rilettura delle poesie ‘61-’64 mi ha costantemente inquietato. Lo stesso mi accade nel cercare un senso al mio passato. Mi si conferma l’influenza di Pavese in gioventù. Qualcosa del simbolo pur avevo afferrato da lui. Parafrasando: avendo distrutto la struttura razionale che mi ero costruito a Salerno, ho potuto dar spazio al passato più prossimo (emigrazione ’62, ecc.)?

[Qui trovo sottolineato l’aspetto centrale di un atteggiamento simbolico: esso esorbita dalla dimensione razionale. Quest’esperienza mi pare di averla vissuta in particolare durante il primo periodo dell’immigrazione a Milano, appunto in uno stato di dimenticanza, di riduzione della massa dei materiali relativi alla cronaca che porta all’isolamento di elementi marginali e alla loro trasformazione in entità assolute, in “simboli”.
(Cfr. anche il libro di Delia Frigessi Castelnuovo e Michele Risso,
A mezza parete, Einaudi, 1982).
In quel periodo in cui
ripassavo il mio passato prossimo salernitano (dell’adolescenza), davvero andavo distruggendo il mio passato remoto (infantile)?

3 gennaio 1983

Rielaborazione scritti del ‘62-’64.

1. Scegliere decisamente la forma della rievocazione. Buttare giù una prima stesura (Iniziare pure così:“ Nel luglio del 1962 arrivai a Milano...”). Altre potranno seguire.

2. Seguire la cronologia, ma saltare la sezione Barunisse. Cogliere i momenti di crisi. (Pensa al Ritratto d’artista da giovane di Joyce). Concentrarsi su questi due anni [‘62-’64] decisivi per lo stacco dal mondo giovanile provinciale, l’inserimento “sognante” nella durezza della vita metropolitana di Milano, la ricerca di un amore e di una conferma.

3. Sottotemi: la pensione, l’ufficio, le lettere a Bis, i ritorni a Sa, le strade, la latteria di via Spontini, le letture, la scrittura, l’innamoramento, la puttana, il vagheggiamento di una nuova partenza (Parigi), l’attaccamento a R e lo spostamento nella periferia, nel lavoro, tra i proletari a Colognom.

4. Il titolo: senza dubbi Immigratorio.

5. Queste sono poesie e non documenti storici. Al massimo sono “storia interiorizzata”. Non ero in un’ottica storica fra ’62 e ’64. Sbaglierei a proiettare su quel periodo una coscienza collettiva (o un mio legame con una collettività strutturata che mi mancava). Non avevo neppure un’ottica psicanalitica. Volevo proprio fare il poeta, lo scrittore? Il fatto è che interruppi l’università a Napoli il dopo il primo anno di Lingue e letterature straniere e mi buttai-ritrovai in ambienti del tutto scollegati dalle istituzioni letterarie, in un ufficio, dove strappavo furtivamente il tempo per continuare a leggere e scrivere appunti. (Come se uno, volendo fare il pescatore, si recasse in un deserto: smarrisce il suo desiderio o lo sottopone ad uno sconvolgente esercizio ascetico ignorando o perdendo la dimensione sociale del suo fare).

6. Nelle prime poesie scritte a Salerno ci sono: toni angosciosi (Funerale, Vocazione liceale), visioni fugaci (schizzi, fotogrammi di vicende che non riescono a narrarsi distesamente, a svilupparsi), immagini del mondo animale percepito nell'infanzia e turbamenti adolescenziali (O viente).

In quelle che scrissi a Milano in ufficio (‘62-’63) l’amore affiora come furto (È passata, Il tuo autunno, ecc.). Il rapporto con la natura (Bosco, Campagna, ecc.) è ansioso e già soltanto di memoria (non so quanto intimistico o religioso). I ricordi dell’infanzia si fanno ossessivamente incerti o si ripresentano (Strade che puzzano) come fantasmi soffocanti che, nella loro temibile incorporeità, non possono essere più indagati nel presente in cui si riaffacciano e restano delirati. Le immagini residuate dicono di una perdita del mondo infantile, del rancore per un’esclusione riguardante soprattutto la sfera della corporeità, della sessualità: i gatti di Adesso, gli oggetti che “non si fidano più” del ragazzo, che se n’è andato per ribellione e che si riduce all’afasia o ad un linguaggio ridotto a pochi simboli animaleschi ( le cicale di E di un ragazzo).

Il dolore provato al presente attutisce (e ottunde) sensazioni precedenti e forti: l’adolescente incattivito “ferisce la sua corteccia” in L’albero smesse le tempeste.Il mutarsi della sua sensibilità è colto attraverso immagini-simbolo (Pioggia) o visionarie e quasi surrealiste (Per un pioppo non scalato, dove lo zio è in effetti l’adolescente stanco e sconfitto, da accostare anche a Osservo la mia apocalisse). Questo divenire incontrollabile ricorre anche ad artifici teatrali (“fatemi esagerare”) e ad una maschera di apparente cinismo.
Lo smarrimento del soggetto di
Immigratorio s’impone sull’oggettività del ricordo, che quasi mai è preciso e si fa sogno o frase delirante:
- “serba cachi sotto la paglia” era un gesto reale, che mio padre faceva nella soffitta-dispensa della casa di via Sighelgaita, ma ora perde il soggetto e  si attualizza deformandosi:
- “ficca sarcasmo nelle castagne”: il sarcasmo è sentimento adolescenziale che viene riportato all’indietro e associato a immagini (le castagne) che nell’infanzia erano state “benefiche”.

I contesti reali (ufficio, Milano), dove il ricordo riaffiora, non hanno vera presenza. L’angoscia vissuta nella metropoli non ha forme metropolitane, ma si maschera di immagini della tua infanzia in mezzo a contadini che hanno un tono mortuario o da moribondi (Nella cappella dei santi paffuti).

6. Immigratorio è dunque:

  • smarrimento della lingua materna (dialetto);

  • afasia e stordimento;

  • perdita di senso delle immagini, che vengono amputate dell’affettività che un tempo le accompagnava, dei significati noti e considerati allora veri; e si riducono a simboli equivoci, oscuri e allarmanti di un passato che si ripresenta come incubo;

  • strappo da un tessuto sociale e culturale (Salerno) e dissipazione di un’eredità culturale divenuta incomprensibile e svalorizzata dal soggetto stesso, che ne coglie la crisi e l’aggredisce e svilisce;

  • pesantezza del processo di fuga-abbandono del mondo cattolico;

  • proiezione di suicidi reali (quello di Pavese, quello di Mario) verso un al di là comunque ignoto nella sua consistenza, che poteva essere sia terrestre (l’idea di andarmene a Parigi) sia metafisico;

  • parafrasi esistenziale di una poetica dell’irrazionale, quasi alla Rimbaud.

7. L’esperienza è messa in poesia usando immagini simboliche (passero, tombe, cipressi, balcone, scarpette rosse, tramonto, pioppi, aranceto, vallone, gallina) derivate da letture e ambienti vissuti.

8. Non ho mai tentato di pubblicare queste poesie e le ho modificate tante volte, correggendo i testi, aggiungendo versioni in dialetto (pochi versi o intere poesie), variando i titoli, eliminandone alcune (forse le più cariche di emozioni oscure).


27 gennaio 1983

1. Lavorare a Bestiario. È forse la chiave per penetrare in alcuni nodi dell’esperienza infantile e adolescenziale. Stando invece nella tonalità dell’Immigratorio (più tesa al mondo adulto, al metropolitano, al conflitto o al dialogo con gli altri), la distanza da questi nodi parrebbe più forte. Finisco per svalutarli e considerarli residui di un mondo animalesco-contadino del tutto morto.

2. Dovrei forse affrontare il passato più mitico che storico, in cui sicuramente ero immerso a Salerno da ragazzo e da giovane; e che mi giungeva attraverso catechismi, fiabe, libri scolastici di mitologia greca. (Anche la passione per Pavese dovette alimentare il mio legame che ebbi nei primi 4-5 anni con la campagna meridionale (Baronissi), non del tutto spezzato finché non andai via da Salerno. Trasferito a Milano, ogni riaccostamento alla cultura contadina e meridionale si è bloccato. Lo stesso mi è capitato con la cultura degli antichi. L’angoscia legata ai miei studi liceali del greco e latino ha ostacolato tutti i miei successivi tentativi di riavvicinarla.


13 marzo 1983

La poesia è come un uovo: guscio, albume, tuorlo. Donato ha colto e apprezzato di «Samizdat Colognom» soprattutto il tuorlo infantile. Il resto (contenuti politici, storici, sociali) l’accantona. Ha una concezione quasi crociana della poesia e ha fatto una lettura psicanalitica dei miei testi agguerrita. Svaluta il discorso sulla sconfitta politica per indicare soprattutto le radici dell’“antico dolore” infantile, che pur sono certamente riemerse.

15 marzo 1983

Osservazioni su «Samizdat Colognom» da parte di una maestra delle elementari, amica di Donato: titolo cacofonico, di suono pungente; il poeta deve essere un serio, lugubre signore; sguardo vagamente aristocratico[!]; sembra che entri a fatica nei mondi che descrive; in Donato e le fiabe ti mette tra i personaggi da cui prende le distanze, ti prende in giro, ma non sa cosa nascondi sotto i baffi. Un cane: bellissima. Parlamentarismo: tanto dispendio d’ispirazione per un’occasione così povera.

dicembre 1983

1. Rileggendo le mie Riflessioni del 1977-’78.

Avvicinare certi poeti-personaggi? Dubbi. Il lavoro centrale sta nello scrivere e riscrivere. Il mio poetare non cresce con iniziative forzate. Fortini, Majorino o altri, che potrei scegliere come consiglieri, appartengono ad un altro ambito sociale, relativamente contiguo al mio ma in effetti a me poco accessibile.

2Divorai Pavese, quando potei leggere, verso la fine del liceo, a Salerno, Lavorare stanca e Il vizio assurdo di Lajolo di Salerno. Ma ero studente incerto, non aspirante letterato. L’assenza di senso critico nelle letture da solitario che feci allora era il brutto marchio di quei cattivi studi liceali. E poi a Milano dovetti fare altro per campare. Soltanto di sera in pensione o di soppiatto in ufficio scrissi quel che potevo. Neppure mi veniva in mente l’idea di poter scrivere un saggio su Pavese. Era soltanto fame quella!


Nota

1 

E. A., Samizdat Colognom pseudo-narratorio 1977-’82 con sei disegni, a cura del Centro Stampa CELES, gennaio 1983

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