di Ennio Abate
gennaio 1983
«Samizdat Colognom»1: un angoscioso ripiegamento in assenza di “amore” e “furore”
di Donato Salzarulo
La
tentazione di parlare di questa opera prima di Ennio Abate in chiave
prevalentemente politica è grande. Del
resto, egli fa di tutto per suggerire
una tale lettura. Le
dà un
titolo da dissenziente dell'Est,
rubrica i testi con categorie tipo Invettive,
Zichilibò,
ecc. evocatrici
di universi quasi ignoti (quanti sanno che ‘zichilibò’significa
l'altalena?)
o di mondi in cui si è rinchiusi e
contro i quali ci si scaglia, costruisce i versi con le parole di
un'epica quotidiana, consumata rapsodicamente
nel tranquillo... possesso della
desolazione (pag.
44).
Bisogna, tuttavia, resistere a questa tentazione. Le pagine di
questo libro non sono politiche.
E, se di politica
si tratta, essa è
altra rispetto a quella di cui si nutrono molte persone (tra
cui il sottoscritto)
aggirandosi nelle stanze di Villa Casati o nei luoghi di lavoro o
nelle sedi di partito o “tra le masse”
(per
riprendere una vecchia terminologia).
Si tratta In altre parole della politica
della poesia. Di una politica, cioè,
che ha i suoi tempi, i suoi messaggi, i suoi contenuti, i suoi
schieramenti. Tutta roba che solo
in parte interagisce e si intreccia con la politica vissuta dalle
molte persone. Con ciò non si intende assolutamente sostenere che i
testi di Ennio non si alimentino anche della osservazione attenta
delle molte persone incontrate e scontrate nei luoghi in cui si
consuma la sua vita e quella di molti di noi (famiglia,
scuola, Cologno).
Ma quale sguardo guida questa osservazione? Quale
volontà? Quali
desideri? Se, per
dirla all'ingrosso, la politica delle molte persone è
ancora quella di mettersi insieme per
dare corpo all'utopia o, più modestamente, a progetti collettivi di
cambiamento, per Ennio decine di
burocratini
/beccano boriosi/ il cadavere del progetto (pag.
72) e del
futuro/ brivido sereno/ non arrischiamo
delineazioni (pag.
42).
Dal
1969 al 1976 (anno
più, anno meno),
Ennio è stato - diversi lo ricorderanno - uno dei leaders
principali, sicuramente il più autorevole, della Nuova
Sinistra
colognese. Un ruolo vissuto con generosità e dedizione, ma
soprattutto con un'adesione totale, quasi corporale, alle speranze di
rinnovamento suscitate in quegli anni . Speranze ghiacciate poi dalla
crisi che investì tutti i settori del movimento di classe. Come ha
vissuto questo compagno la crisi di quelle speranze? Quale
risposta ha dato? Come
ha ristrutturato e riorganizzato il suo percorso? Le
poesie di
questo libro parlano un po’ anche di questo. Il
vento che le agita è
lugubre, pieno di dolore, con molta angoscia e, a tratti, quasi
piangente. Ed io tutti i volti della
rivoluzione/ che manca/ mi vado ripassando (pag.
34). Nostalgia? Sì, anche questa. Ma
è la nostalgia che si ode in certi lamenti funebri, l'elaborazione
luttuosa di una mancanza, di una ferita faticosa a rimarginarsi.
Poesie, dunque, di un militante sconfitto, insieme ai tanti altri
compagni di una volta,
sparpagliati e schizzati a succhiare
il miele del risarcimento (pag.
54).
Nondimeno,
lungo questa linea della propria vicenda biografica, ora
compenetrata, ora sovrapposta, ecco prendere forma ed emergere
un'altra dimensione. Smessi i panni del militante, costretto dalla
spirale storica e dalle sue complicate dinamiche a riprendere i fili
di un vecchio amore (quello
per la poesia),
obbligato a curare,
invece dei quattro gatti
(come fa
Elena a
pag. 12) le
sue stesse parole, Ennio ritorna indietro su ferite e perdite ben più
vecchie di quelle della sua crisi di militante. Nel
sopore pomeridiano riemerge così
l'antico dolore
(pag. 62)
e il suo lavoro poetico si fa un po’ simile al compito di suo
figlio: il classico fuori tema
perché, invece della città sotto la
neve/ sulla neve ha scritto / che gli nevica dentro il cuore
(pag. 69).
E quegli insegnanti murati
nello stipendio/ addestrati cacciatori di errori... Forse/
perché nell'ordine immobile/ (vivono)/
come in una bara (pag.
69) sono
proiezioni delle proprie paure, rappresentanti delle proprie angosce.
Ma come si vive in una bara? A
chi possiamo porre queste domande - volutamente ingenue - se non ai
nostri morti? D'accordo:
quel padre in campagna appare meno
freudiano (pag.
48), ma
come appare la madre? Perché
intabarrarsi/ in miopie
inopportune?
Quella della madre, mi sembra un'assenza sintomatica in queste
poesie. Un'assenza, tuttavia, che nutre molti testi. Allora ,come per
quei verbali di pag. 71, credo che occorra scorticare
le righe di questi versi, così da
identificare le parole posticce/ le
divaganti conversazioni e cogliere
il palpitante fiume/ di orgasmi
curiosità desideri/ e intelligenza/ che ora solo
in lattea
retorica/ ci costringiamo a nominare (pag.71).
Cos'è questa lattea
retorica se non quei discorsi “di
latte” (fuor
di metafora: di un periodo infantile)
ai quali Ennio in queste poesie è costretto a ritornare? Discorsi,
insomma, fatti al seno, annusamenti,
parlottii,
fruscii, ronzii,
bisbiglianti
messaggi. Il cubo solido delle
convinzioni in cui si è ripiegati
(pag.17)
è proprio solido, ad indicare, significativamente, la compattezza
del
processo di ritorno che viene effettuato. In diverse zone del testo,
il ripiegamento si fa disfacimento non solo della materia
sociale ma anche del proprio corpo
(controllavo
le mie mani incomposte,
pag. 71).
Con queste parole imbavate di umori
corporei/ spuntanti talvolta/
da universi di paura.../ singhiozzi non più decifrabili/ dalle masse
degli stadi (pag.
84), si
disegna così l'assenza di “furore”e di
“amore” della lettera di pag. 20. Una lettera spedita ad un
destinatario taciuto,
da un di “qui”
di questo mondo, in cui solo con discreta auto-ironia
si può dire tutto
bene. In
realtà è vero il contrario, e basta un nonnulla/
uno squarcio nell'imponente divieto
del muro per rivelare sempre
grigio e immoto/
il paesaggio perduto (pag,
38).
Leggendo queste poesie ho imparato a conoscere un altro Ennio e
per quanto il desiderio di scorticare
le righe
sia in me
molto forte (questo
lo dico nei confronti di tutto ciò che è carta stampata),
ad un certo
punto mi sono ritratto. Sono
stato preso da quella sorta di pudore
personale al quale accenna Giampaolo
Sasso in un
suo complicato ma affascinante lavoro. È
il pudore che viene quando si cerca di
mostrare fino in fondo la ricchezza straordinaria e l'intensità dei
mondi simbolici contenuti nei testi poetici. Essi
trattano di vicende intime proiettate e nascoste in altri significati...La bellezza della poesia vi appare nella forma di una trasparenza, che contiene in sé le cose da dirsi, e
si astiene volutamente dal dirle, suggerendo un mondo indifeso e da
proteggere. (Cfr. Le
strutture anagrammatiche della
poesia, Feltrinelli, 1982,
pag.19).
Ecco, l’Ennio che
ho incontrato è un Ennio più intimo, più indifeso, quasi un
bambino da
proteggere. Naturalmente Ennio non è solo questo. A
questo punto che dire? Lo
attendo con amore speranza alle
prossime poesie. Spero che il suo dolore (non
solo suo e
diverso, magari, da quello mio)
si lenisca un poco. Delle
sue parole, anche se diffidate e invitate a celarsi (pag.
9)1 ho
bisogno. Il loro ritmo non è ammirevole e i discorsi sono segnati da
povertà? (pag.91).
Questo,
Ennio proprio non può dirlo. Per
una volta tanto taccia l'insegnante,
che anch'egli è, e sia
data licenza al poeta. Il ritmo, già
ammirevole, lo diventerà di più e i discorsi, già ricchi, si
moltiplicheranno e si accresceranno .
2 Gennaio ’83
1. Concetti-sintesi per ordinare i frammenti. (Ci sarà mai una sintesi?)
Barunisse
= paganesimo | Salernitudine
= cattolicesimo | Immigratorio
= anarchismo, emarginazione | Samizdat
Colognom
= “marxismo”
2. «Se
la storia e la cronaca sono il prodotto di una memoria organica,
anche se in taluni casi selettiva, anzi tanto più organica quanto
più rigorosamente e coscientemente selettiva, il mito nasce invece
da una memoria disgregata, casuale, affidata all’alea degli
incontri e ai demoni dell’analogia; all’ordine razionale degli
eventi si sostituisce un rapporto intuitivo, fantastico con un
passato svuotato di ogni ragione teleologica. […] [Secondo
Saussure] le creazioni simboliche esistono, ma sono il prodotto di
errori naturali di trasmissione. [Fra questi errori primeggia la
dimenticanza, la] riduzione della massa dei materiali relativi alla
cronaca che porta all’isolamento di elementi anche marginali e alla
loro trasformazione in entità assolute, in simboli.
La volontà,
l’intenzione
di simbolo
non è mai esistita all’origine. [Il simbolo]
uscito dalla dimensione razionale... entra nel favoloso, come in un
sogno. […] Se è vero quello che sostengono Saussure e Montale,
dovremo quindi concludere che il mito non rappresenta, come s’intende
per lo più da Cassirer in poi, un momento culturale proprio di una
fase remota nella storia dell’umanità, ma il prodotto delle
operazioni inerenti al lavoro
delle epoche storiche. Il mito e la preistoria, in altre parole, non
nascono durante l’epoca cosiddetta mitica e preistorica, ma in
quella della ragione
storica,
per cui la registrazione del passato prossimo è possibile solo a
costo di distruzioni massicce nell’ambito del passato remoto»
(D’Arco Silvio Avalle, Dalla
letteratura al mito,
in Montale,
Rizzoli 1977).
E’
un brano che mi conferma quanto afferrato lavorando a Immigratorio.
La rilettura delle poesie ‘61-’64 mi ha costantemente inquietato.
Lo stesso mi accade nel cercare un senso al mio passato. Mi si
conferma l’influenza di Pavese in gioventù. Qualcosa del simbolo pur avevo
afferrato da lui. Parafrasando: avendo distrutto la struttura
razionale che mi ero costruito a Salerno, ho potuto dar spazio al
passato più prossimo (emigrazione ’62, ecc.)?
[Qui
trovo sottolineato l’aspetto centrale di un atteggiamento
simbolico: esso esorbita dalla dimensione razionale.
Quest’esperienza mi pare di averla vissuta in particolare durante
il primo periodo dell’immigrazione a Milano, appunto in uno stato di dimenticanza,
di riduzione
della massa dei materiali relativi alla cronaca che porta
all’isolamento di elementi marginali e alla loro trasformazione in
entità assolute, in “simboli”.
(Cfr. anche il libro di Delia Frigessi Castelnuovo e Michele Risso, A
mezza parete,
Einaudi, 1982).
In quel periodo in cui ripassavo il mio passato
prossimo
salernitano (dell’adolescenza), davvero andavo distruggendo il mio
passato
remoto
(infantile)?
3 gennaio 1983
Rielaborazione scritti del ‘62-’64.
1. Scegliere decisamente la forma della rievocazione. Buttare giù una prima stesura (Iniziare pure così:“ Nel luglio del 1962 arrivai a Milano...”). Altre potranno seguire.
2. Seguire la cronologia, ma saltare la sezione Barunisse. Cogliere i momenti di crisi. (Pensa al Ritratto d’artista da giovane di Joyce). Concentrarsi su questi due anni [‘62-’64] decisivi per lo stacco dal mondo giovanile provinciale, l’inserimento “sognante” nella durezza della vita metropolitana di Milano, la ricerca di un amore e di una conferma.
3. Sottotemi: la pensione, l’ufficio, le lettere a Bis, i ritorni a Sa, le strade, la latteria di via Spontini, le letture, la scrittura, l’innamoramento, la puttana, il vagheggiamento di una nuova partenza (Parigi), l’attaccamento a R e lo spostamento nella periferia, nel lavoro, tra i proletari a Colognom.
4. Il titolo: senza dubbi Immigratorio.
5. Queste sono poesie e non documenti storici. Al massimo sono “storia interiorizzata”. Non ero in un’ottica storica fra ’62 e ’64. Sbaglierei a proiettare su quel periodo una coscienza collettiva (o un mio legame con una collettività strutturata che mi mancava). Non avevo neppure un’ottica psicanalitica. Volevo proprio fare il poeta, lo scrittore? Il fatto è che interruppi l’università a Napoli il dopo il primo anno di Lingue e letterature straniere e mi buttai-ritrovai in ambienti del tutto scollegati dalle istituzioni letterarie, in un ufficio, dove strappavo furtivamente il tempo per continuare a leggere e scrivere appunti. (Come se uno, volendo fare il pescatore, si recasse in un deserto: smarrisce il suo desiderio o lo sottopone ad uno sconvolgente esercizio ascetico ignorando o perdendo la dimensione sociale del suo fare).
6. Nelle prime poesie scritte a Salerno ci sono: toni angosciosi (Funerale, Vocazione liceale), visioni fugaci (schizzi, fotogrammi di vicende che non riescono a narrarsi distesamente, a svilupparsi), immagini del mondo animale percepito nell'infanzia e turbamenti adolescenziali (O viente).
In quelle che scrissi a Milano in ufficio (‘62-’63) l’amore affiora come furto (È passata, Il tuo autunno, ecc.). Il rapporto con la natura (Bosco, Campagna, ecc.) è ansioso e già soltanto di memoria (non so quanto intimistico o religioso). I ricordi dell’infanzia si fanno ossessivamente incerti o si ripresentano (Strade che puzzano) come fantasmi soffocanti che, nella loro temibile incorporeità, non possono essere più indagati nel presente in cui si riaffacciano e restano delirati. Le immagini residuate dicono di una perdita del mondo infantile, del rancore per un’esclusione riguardante soprattutto la sfera della corporeità, della sessualità: i gatti di Adesso, gli oggetti che “non si fidano più” del ragazzo, che se n’è andato per ribellione e che si riduce all’afasia o ad un linguaggio ridotto a pochi simboli animaleschi ( le cicale di E di un ragazzo).
Il
dolore provato al presente attutisce (e ottunde) sensazioni
precedenti e forti: l’adolescente incattivito “ferisce la sua
corteccia” in L’albero
smesse le tempeste.Il
mutarsi della sua sensibilità è colto attraverso immagini-simbolo
(Pioggia)
o visionarie e quasi surrealiste
(Per
un pioppo non scalato,
dove lo zio è in effetti l’adolescente stanco e sconfitto, da
accostare anche a Osservo
la mia apocalisse).
Questo divenire incontrollabile ricorre anche ad artifici teatrali
(“fatemi esagerare”) e ad una maschera di apparente cinismo.
Lo
smarrimento del soggetto di Immigratorio
s’impone sull’oggettività del ricordo, che quasi mai è preciso
e si fa sogno o frase delirante:
- “serba cachi sotto la
paglia” era un gesto reale, che mio padre faceva nella
soffitta-dispensa della casa di via Sighelgaita, ma ora perde il
soggetto e si attualizza deformandosi:
- “ficca sarcasmo nelle castagne”: il sarcasmo è
sentimento adolescenziale che viene riportato all’indietro e
associato a immagini (le castagne) che nell’infanzia erano state
“benefiche”.
I contesti reali (ufficio, Milano), dove il ricordo riaffiora, non hanno vera presenza. L’angoscia vissuta nella metropoli non ha forme metropolitane, ma si maschera di immagini della tua infanzia in mezzo a contadini che hanno un tono mortuario o da moribondi (Nella cappella dei santi paffuti).
6. Immigratorio è dunque:
smarrimento della lingua materna (dialetto);
afasia e stordimento;
perdita di senso delle immagini, che vengono amputate dell’affettività che un tempo le accompagnava, dei significati noti e considerati allora veri; e si riducono a simboli equivoci, oscuri e allarmanti di un passato che si ripresenta come incubo;
strappo da un tessuto sociale e culturale (Salerno) e dissipazione di un’eredità culturale divenuta incomprensibile e svalorizzata dal soggetto stesso, che ne coglie la crisi e l’aggredisce e svilisce;
pesantezza del processo di fuga-abbandono del mondo cattolico;
proiezione di suicidi reali (quello di Pavese, quello di Mario) verso un al di là comunque ignoto nella sua consistenza, che poteva essere sia terrestre (l’idea di andarmene a Parigi) sia metafisico;
parafrasi esistenziale di una poetica dell’irrazionale, quasi alla Rimbaud.
7. L’esperienza è messa in poesia usando immagini simboliche (passero, tombe, cipressi, balcone, scarpette rosse, tramonto, pioppi, aranceto, vallone, gallina) derivate da letture e ambienti vissuti.
8. Non ho mai tentato di pubblicare queste poesie e le ho modificate tante volte, correggendo i testi, aggiungendo versioni in dialetto (pochi versi o intere poesie), variando i titoli, eliminandone alcune (forse le più cariche di emozioni oscure).
27 gennaio 1983
1. Lavorare a Bestiario. È forse la chiave per penetrare in alcuni nodi dell’esperienza infantile e adolescenziale. Stando invece nella tonalità dell’Immigratorio (più tesa al mondo adulto, al metropolitano, al conflitto o al dialogo con gli altri), la distanza da questi nodi parrebbe più forte. Finisco per svalutarli e considerarli residui di un mondo animalesco-contadino del tutto morto.
2. Dovrei forse affrontare il passato più mitico che storico, in cui sicuramente ero immerso a Salerno da ragazzo e da giovane; e che mi giungeva attraverso catechismi, fiabe, libri scolastici di mitologia greca. (Anche la passione per Pavese dovette alimentare il mio legame che ebbi nei primi 4-5 anni con la campagna meridionale (Baronissi), non del tutto spezzato finché non andai via da Salerno. Trasferito a Milano, ogni riaccostamento alla cultura contadina e meridionale si è bloccato. Lo stesso mi è capitato con la cultura degli antichi. L’angoscia legata ai miei studi liceali del greco e latino ha ostacolato tutti i miei successivi tentativi di riavvicinarla.
13 marzo 1983
La
poesia è come un uovo: guscio,
albume, tuorlo. Donato
ha colto e apprezzato di
«Samizdat Colognom» soprattutto il
tuorlo
infantile.
Il resto (contenuti politici, storici, sociali) l’accantona. Ha
una
concezione quasi crociana della poesia e ha
fatto
una lettura psicanalitica dei
miei testi
agguerrita.
Svaluta il discorso sulla sconfitta politica per indicare soprattutto
le radici dell’“antico dolore” infantile, che pur
sono
certamente
riemerse.
15 marzo 1983
Osservazioni
su «Samizdat
Colognom» da
parte di una maestra delle
elementari, amica
di Donato:
titolo
cacofonico, di suono pungente; il
poeta deve essere un serio, lugubre signore; sguardo
vagamente aristocratico[!];
sembra che entri a fatica nei mondi che descrive; in
Donato
e le fiabe
ti mette tra i personaggi da cui prende le distanze, ti prende in
giro, ma non sa cosa nascondi sotto i baffi. Un
cane:
bellissima.
Parlamentarismo:
tanto dispendio d’ispirazione per un’occasione così povera.
dicembre 1983
1. Rileggendo le mie Riflessioni del 1977-’78.
Avvicinare
certi poeti-personaggi? Dubbi.
Il lavoro centrale sta nello scrivere e riscrivere. Il mio poetare
non cresce
con iniziative forzate. Fortini, Majorino o altri, che potrei
scegliere come
consiglieri,
appartengono
ad
un altro ambito sociale, relativamente
contiguo al mio ma in
effetti a me poco accessibile.
2. Divorai Pavese, quando potei leggere, verso la fine del liceo, a Salerno, Lavorare stanca e Il vizio assurdo di Lajolo di Salerno. Ma ero studente incerto, non aspirante letterato. L’assenza di senso critico nelle letture da solitario che feci allora era il brutto marchio di quei cattivi studi liceali. E poi a Milano dovetti fare altro per campare. Soltanto di sera in pensione o di soppiatto in ufficio scrissi quel che potevo. Neppure mi veniva in mente l’idea di poter scrivere un saggio su Pavese. Era soltanto fame quella!
Nota

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