Nel presentarla, avverto i moltinpoesia che si tratta di uno scritto teorico non di agevole lettura e che tocca una questione - l’ambivalenza del rapporto tra poesia (o cultura) e potere - che oggi sembra per pochi, mentre fino agli anni Settanta è stato in primo piano nel dibattito culturale italiano in tutta l’area della «poesia critica» (Pasolini, Fortini, Leonetti, Volponi, Majorino, ecc.), più o meno influenzata da Marx. Chi vuole può benissimo saltare.
Semplificando e riassumendo per chi ha meno pregiudizi, posso dire che Cimò, il quale fa riferimento soprattutto al Guy Debord de La società dello spettacolo, sostiene che dall’Ottocento, con l’affermarsi del modo di produzione capitalistico, la cultura e la poesia, separatesi dal «movimento storico totale», si dibattono «inevitabilmente all’interno del conflitto fra tradizione ed innovazione» e non riescono più a innovare se non in misura limitata restando di fatto prigioniere in quest’unica dialettica ammessa nella società capitalistica. Esse perciò, possono produrre o «oggetti morti da contemplare» (opere-merci) o sono condannate all’immobilità per assenza di un’alternativa reale all’attuale società. Anche quando riescono a distruggere il «linguaggio comune dominante» e le «vecchie forme», cultura e poesia cercano sempre in se stesse un altro linguaggio comune e non riescono mai «a negarsi completamente per iniziare a ricercarlo realmente nella prassi, la quale se diventasse rivoluzionaria riunirebbe in sé il linguaggio comune e le attività dirette senza più separarli in forme di potere e di dominio».
Cimò, dunque, ripropone un vecchio dilemma: deve o no la cultura (e la poesia) andare oltre «una rivoluzione formale circoscritta all’interno dello stesso campo artistico». In altri termini, fa bene a non sbarazzarsi fino in fondo della «propria struttura conservatrice» (non celata ma tante volte sottolineata, ad es., nei saggi di Fortini)? O deve (ammesso che possa) sbarazzarsene del tutto? Cimò propende per questa seconda ipotesi; e si richiama a Marx: «le idee non possono attuare niente. Per l’attuazione delle idee c’è bisogno degli uomini, i quali impiegano una forza pratica». Pone, perciò, l’obiettivo di non ridursi ad inscenare, come fanno tanti oggi, un mero «spettacolo del rifiuto», ma vorrebbe «praticare quotidianamente un rifiuto dello spettacolo». Come ciò possa avvenire mi pare non chiarito a sufficienza. In particolare, quando Cimò suggerisce ad artisti e poeti di «mettersi esattamente dal punto di vista [...] degli spettatori che subiscono ripetutamente tutte le manifestazioni dello spettacolo», ma, al contempo, sostiene he non bisogna cedere al modo di vedere degli spettatori, i quali filtrano la realtà attraverso l’ideologia dominante, sembra riproporre un'ardua dialettica, una navigazione tra una Scilla e una Cariddi (tra le due prospettive che, negli anni Sessanta, vennero chiamate degli "apocalittici" e degli "integrati"). Prevale nel suo saggio l’angosciante consapevolezza del limite della poesia (e del pensiero stesso). Fortini parlava dei confini della poesia. Poiché, infatti, la loro «prassi rimane sempre una prassi ideale» e «quando essa cerca lo scontro il conflitto che essa produrrà sarà sempre e solo un conflitto linguistico, un conflitto tra linguaggi» e questo costituisce « la sua forza come il suo stesso fardello». Come si può «superare il fardello della parola ed aprirsi all’atto»? A questo punto della sua riflessione Cimò sembra imboccare il (vecchio) vicolo cieco del “suicidio del poeta” o della stessa poesia. Infatti - occhio al titolo del suo scritto - sostiene: «il poeta ha il dovere di comunicare il suo mondo ma anche, contemporaneamente, di essere il boia della poesia: l’uccisione della poesia fa dunque parte di quel progetto che vuole rendere visibile il fatto che la storia si può cambiare realmente solamente con atti pratici e non parole. Se noi continuiamo a fare poesia impegnata rimaniamo degli ipocriti perché così facendo accettiamo il fatto che questo mondo è immodificabile». Ma è così? Il passaggio all’"azione" (e non solo per i poeti) è possibile solo quando si verificano/costruiscono situazioni favorevoli. Quella che Cimò chiama ipocrisia può ben essere, invece, pazienza di vecchie talpe che persistono imperterrite a scavare. Mi pare, perciò, che egli pone oggi, e in assenza di condizioni esterne favorevoli, un aut aut che fu posto dal ’68 agli intellettuali tutti e si dimostrò fallimentare. Fare poesia (magari “impegnata”) e ucciderla allo stesso tempo? No, grazie. Semmai fare poesia (e pensare) contenendo l’angoscia del limite. [E.A.]
La
premessa su cui si fonda questo mio intervento è semplice: se parliamo di
poesia bisogna inevitabilmente concentrarsi sulla sfera culturale e su quella
ideologica sapendo benissimo che se nostro intento è fare della poesia
impegnata non è possibile sfidare l’ideologia se non sfidando la base materiale
da cui essa si erge. Quanto segue, per scelta dello stesso autore, vuole
discutere su questa precisa sfida.
Antropologicamente
la cultura è quell’insieme di forme di
autorappresentazione mediante le quali i gruppi sociali giungono alla
propria definizione. Essa è pertanto il tessuto connettivo di una società,
tessuto che agisce sia individualmente che collettivamente fornendo un senso
alla realtà materiale, dei modelli integranti sia a livello interpretativo sia
rispetto ai valori all’interno dei quali essa instaura delle difese
comportamentali ed ideali per la propria conservazione. Tali elementi che
compongono la cultura non sono quindi da considerarsi degli a priori, al
contrario essi sono a posteriori, ossia appresi ed interiorizzati. La cultura è
perciò il campo specifico in cui si situa la lotta ideologico-teoretica tra
l’ideologia e il pensiero critico, e la poesia può trovarsi in entrambi questi
schieramenti. Di fatto la cultura è la mediazione specifica per la diffusione
del codice interpretativo con cui contemplare lo scorrere del presente, il
quale, all’interno del modo di produzione vigente, appare come se fosse
completamente immodificabile ed indipendente dalle azioni umane. Solo andando
oltre questo velo metafisico del capitalismo sarà possibile cogliere il fatto
che la cultura «è la sfera generale della conoscenza, e delle rappresentazioni
del vissuto, nella società storica divisa in classi; il che significa, in altri
termini, che essa è il potere di generalizzazione esistente a parte, come divisione del lavoro
intellettuale e lavoro intellettuale della divisione»[1]. La
cultura, in quanto produzione culturale,
è dunque un ramo dell’industria e del consumo, ovvero il loro completamento
ideologico-intellettuale. Ma proprio per questo motivo essa non può non
fondarsi sulla separazione, ossia essa sussiste solamente perché nella società
non esiste alcuna unità, la quale, perciò, essa deve continuamente ed
illusoriamente ricercare e proporre nella forma di arricchimento ed accumulo di
giustificazioni del reale. In questo suo continuo percorso essa pertanto vive
inevitabilmente all’interno del conflitto fra tradizione ed innovazione: ad
essa sarebbe richiesta la vittoria permanente dell’innovazione ma ciò diviene
impossibile per una mediazione la cui finalità è il mantenimento dello status quo.
La cultura dunque non può concedere il campo sgombro all’innovazione, poiché in
questo modo negherebbe la sua natura funzionale:
una cultura effettivamente al di sopra della staticità giustificatoria
condurrebbe al proprio autodissolvimento a causa dello svelamento e della
conseguente presa di coscienza del movimento storico totale, il quale, a sua
volta, accompagnerebbe la classe dei dominati verso una concreta possibilità di
abolizione di ogni separazione. Dunque vi è cultura solo finché essa permane
separata, poiché se questa situazione terminasse la cultura si supererebbe e
confluirebbe nell’unità della comunità umana, la quale scorgerebbe il proprio
senso in sé medesima senza alcun bisogno di qualcosa di esterno ad essa.
L’umanità liberata dal lavoro alienato non necessiterebbe infatti di una
spiegazione estraniata, prettamente ideologica. Allora «la fine della storia
della cultura si manifesta da due versanti opposti: il progetto del suo
superamento nella storia totale, e l’organizzazione del suo mantenimento in
quanto oggetto morto, nella contemplazione spettacolare. Di questi movimenti,
l’uno ha legato la propria sorte alla critica sociale, l’altro alla difesa del
potere di classe»[2].
Pure
la poesia ha fatto parte di questo particolare processo storico-dialettico. Nell’Ottocento
la poesia, soprattutto a causa dell’affermarsi del modo di produzione
capitalistico, ha raggiunto uno stadio per cui essa è giunta a costituirsi come
produzione individuale di opere separate.
La poesia separata diventa allora il caso particolare che dimostra il movimento
generale della cultura separata. Pertanto l’affermarsi della poesia, in quanto poesia
separata, è l’inizio della sua dissoluzione, e contemporaneamente
rappresentazione della dissoluzione della cultura in mera ideologia. Il
processo subìto dalla poesia mostra principalmente due fatti: la poesia
separata ha operato fondamentalmente nella distruzione del linguaggio comune dominante, nell’annientamento delle vecchie forme
decomposte, e sotto quest’aspetto la poesia rinvia all’idea di rivoluzione;
eppure, in secondo luogo, la poesia cercando un linguaggio comune sempre in se
stessa non riesce mai a giungere a negarsi completamente per iniziare a
ricercarlo realmente nella prassi, la quale se diventasse rivoluzionaria
riunirebbe in sé il linguaggio comune e le attività dirette senza più separarli
in forme di potere e di dominio[3]. Il non
aver superato tale dicotomia interna ha portato la poesia a tre diverse
conclusioni: nella prima essa si è individualizzata a tal punto da negarsi nel
suo perpetuo movimento di rinnovamento così da divenire sia consumo del passato poetico sia poesia dell’autoconsumazione; nel
secondo caso la poesia legata coscientemente al movimento rivoluzionario
proletario ha finito storicamente per immobilizzarsi a causa della sconfitta
pratica di questo medesimo movimento[4], lasciando
così relegata la possibilità del superamento del modo di produzione
capitalistico al campo artistico stesso, campo però meramente ideale e caduco,
cosicché nella sua dissoluzione essa può al massimo arrivare a rilevare
l’insufficienza della sua critica interna, ovvero la volontà di «sopprimere l’arte senza realizzarla»[5]; infine la
poesia di stampo surrealista, altra
arte della negazione che ha condotto solamente alla negazione dell’arte, ha
avuto invece il limite di voler «realizzare
l’arte senza sopprimerla»[6]. Mentre la
prima variante si è proclamata come l’arte della contemporaneità spettacolare,
l’arte idonea a rappresentare la consumazione reale ed ideologica operante
nella realtà mediante la creazione di oggetti
morti da contemplare, ovvero trasformando l’opera poetica in mera merce, le altre due hanno concluso
inevitabilmente il loro corso in maniera fallimentare, poiché «l’arte
nell’epoca della sua dissoluzione, in quanto movimento negativo che tende al
superamento dell’arte in una società storica in cui la storia non è ancora
vissuta, è insieme un’arte del cambiamento e l’espressione pura
dell’impossibilità del cambiamento. Più la sua esigenza è grandiosa, più la sua
vera realizzazione è al di là di essa[7].
Quest’arte è necessariamente d’avanguardia,
e non è. La sua avanguardia è la sua scomparsa»[8]. La
posizione critica che potrebbe superare il limite intrinseco di una critica
legata alla particolare sfera poetica, sfera esterna al campo pratico
concretamente rivoluzionario, può essere solamente un movimento che mostra «che
la soppressione e la realizzazione dell’arte sono gli aspetti inseparabili di
un unico superamento dell’arte»[9].
Dopo
questo breve excursus, necessario per motivare l’impossibilità costituzionale
di una capacità effettivamente rivoluzionaria dell’arte, a meno che non rimanga
una rivoluzione formale circoscritta
all’interno dello stesso campo artistico, domandiamoci: su cosa si fonda e come
si riproduce la nostra poesia ideologica? Essa funziona come lo stesso consumo
di merci, ossia per possedere un significato, che è sempre un significato
esterno ed artificiale, essa deve proporsi continuamente come un qualcosa di
nuovo che però mantenga inalterata la propria struttura conservatrice. Ciò che
essa recupera è la vecchia cultura congelata, così come il consumo crea la
propria base pseudo-ciclica sull’alternanza di vecchie feste e di vecchie mode
modificate solamente per un aspetto marginale che celi la loro essenziale
inalterazione. La poesia, intesa come arte della comunicazione dell’incomunicabile, può creare quindi il proprio
linguaggio, che è sempre la negazione di un reale linguaggio sociale, solamente
se riesce ad «ostentare una riconciliazione con lo stato di cose dominante, nel
quale ogni comunicazione è allegramente proclamata assente»[10]. In
questo modo la poesia si sviluppa come pensiero tautologico dell’esistente,
giustificazione pseudo-razionale di una società senza giustificazioni. È così
motivato quel recupero indifferenziato
di stili precedenti, i quali vengono riassemblati poeticamente secondo un
progetto di consumazione del dominio, immenso simulacro immaginifico scisso fra stereotipizzazioni e nostalgie.
Ma
ricordiamoci bene quanto segue: «le idee
non possono mai portare oltre una vecchia situazione del mondo, ma sempre solo
oltre le idee della vecchia situazione del mondo. In generale, le idee non
possono attuare niente. Per
l’attuazione delle idee c’è bisogno degli uomini, i quali impiegano una forza
pratica»[11]. Dunque
perché vi sia un superamento effettivo del nostro presente, e del modo di
produzione ad esso connesso strutturalmente, «occorrono degli uomini che
mettano in azione una forza pratica. La teoria critica […] non è vera se non in
quanto si unifica con la corrente pratica della negazione nella società, e
questa negazione, la ripresa della lotta di classe rivoluzionaria, diventerà
cosciente di se stessa sviluppando la critica […], che è la teoria delle sue
condizioni reali, delle condizioni pratiche dell’oppressione attuale[12], e
inversamente svela il segreto di ciò ch’essa può essere»[13].
Il
punto di contatto tra le sfere della teoria e della praxis, le quali vengono separate solamente all’interno di un mondo
il cui pensiero è a sua volta separato, è precisamente quello di concepire la
teoria critica, all’interno della quale si può collocare pure la poesia, come
una pratica rigorosa[14], e su
questo punto la poesia impegnata dovrà costruire il proprio futuro. Tale prassi
teorica si manifesta in due aspetti: la progettualità e il linguaggio. La progettualità è la sintesi dialettica di
teoria e prassi, il momento nel quale la teoria orienta la prassi mentre
quest’ultima ridisegna nel suo svolgere le necessità teoriche alla propria
base. È quindi insita nella progettualità la pazienza dell’uomo dialettico che
prepara quotidianamente la rivoluzione mediante il proprio modo di vivere ed
interpretare il presente: l’uomo dialettico sa bene che essendo la storia
medesima un processo essa non vive su dei salti repentini ma su delle graduali
trasformazioni, all’interno delle quali le contraddizioni situate nello
svolgersi del presente prendono sempre più consistenza fino al momento
rivoluzionario di riorganizzazione della realtà. Il problema non può allora
finire per essere circoscritto nella mera elaborazione di uno spettacolo del rifiuto, bensì deve
trovare la propria risoluzione nel praticare quotidianamente un rifiuto dello spettacolo. Dunque
partendo da una situazione ideologica totale «la critica che va al di là dello
spettacolo deve saper aspettare»[15], ossia
quest’ultima è chiamata ad un lungo cammino pratico-interpretativo, ovvero
progettuale, il cui compito primario è quello di liberarsi dalle prospettive
offerte dallo spettacolo stesso così da ricominciare a vedere con i propri
occhi disalienati le contraddizioni strutturanti questa stessa società. Eppure
per far ciò non bisogna fuggire la realtà, bensì bisogna mettersi esattamente dal
punto di vista degli attori, ossia degli spettatori che subiscono ripetutamente
tutte le manifestazioni dello spettacolo. Tuttavia non bisogna cadere neppure
nel rischio di finire per coincidere con la visione rovesciata degli attori
stessi, visione che lo spettatore interpreta attraverso il filtro ideologico
dominante: appena compreso il processo, così come appare, bisogna poi tentare
di andare oltre e cercare di svelarne la struttura effettiva. Ciò diviene
esprimibile attraverso un linguaggio eminentemente
dialettico in perenne formazione e
trasformazione[16]: «la
teoria critica deve comunicarsi nel
suo proprio linguaggio. È il linguaggio della contraddizione, che deve essere
dialettico nella forma come lo è nel contenuto. Esso è critica della totalità e
critica storica. Non è un “grado zero della scrittura”, ma il suo
rovesciamento. Non è una negazione dello stile, ma lo stile della negazione»[17]. Questo
metodo di scrittura si fonda pertanto sullo scandalo[18] trasmesso
linguisticamente, il quale è scandaloso sia per il linguaggio dominante, il
linguaggio ufficiale dell’ideologia della stasi, sia per il lettore, il quale
educato a contemplare la realtà secondo il canone interpretativo fornitogli
dallo spettacolo stesso, può finalmente scorgere nelle tesi critiche il ritorno
ad una fluidità storica che si attua
tramite l’impiego di concetti in grado di portare ad una comprensione
attraverso la loro medesima distruzione. Il compito della teoria critica è
quindi quello di riscrivere la verità
storica, così come la poesia. Pertanto, come la pratica rivoluzionaria si
esprime nel rovesciamento dei rapporti sociali dominanti, così «questa
coscienza teorica del movimento, nella quale deve essere presente la traccia
stessa del movimento, si manifesta con il rovesciamento
delle relazioni stabilite fra i concetti»[19].
La
teoria è perciò poca cosa senza un tempo storico che ne dia conferma nelle sue
stesse manifestazioni. Pertanto, all’interno di una visione dinamica e
materialistica del reale, la critica è una forma ideale dell’utilizzo della
violenza, un’azione che sconcerta e rovescia ogni ordine esistente: la critica
perciò nega completamente la cultura perché gli «ricorda che questa esistenza
della teoria non è nulla in se stessa, e soltanto deve conoscersi con l’azione
storica, e con la correzione storica
che è la sua vera fedeltà»[20]. Allora
la separazione esprimentesi nella cultura ideologizzata è totalmente superabile
attraverso un linguaggio dialettico, in cui teoria e praxis coabitino. Pertanto deve divenire patrimonio condiviso la
coscienza del fatto che «nel linguaggio della contraddizione, la critica della
cultura si presenta unificata: in
quanto essa domina la totalità della cultura […] e in quanto non si separa più
dalla critica della totalità sociale. È questa critica teorica unificata ed essa soltanto che muove incontro alla pratica sociale unificata»[21].
Che
lo voglia o no, ogni poeta è un uomo pratico nel suo fare poesia: egli ha
scelto di far sua l’esperienza quotidiana e di lasciarne traccia: egli compie
una prassi rispetto la sua vita, rispetto un foglio, rispetto ad un possibile
lettore ed, infine, rispetto alla realtà esterna che chiamiamo mondo. Dove si
materializza tale prassi? Nella comunicazione. Un poeta dà forma alla propria
visione del mondo attendendosi una reazione.
Eppure tale prassi rimane sempre una prassi
ideale: quando essa cerca lo scontro il conflitto che essa produrrà sarà
sempre e solo un conflitto linguistico, un conflitto
tra linguaggi. Questa è la sua forza come il suo stesso fardello.
Giustamente per i poeti uno dei compiti più difficili è sempre stato quello di
scendere dal mondo del pensiero nel mondo reale. La realtà immediata del
pensiero è il linguaggio. Come hanno
reso indipendente il pensiero, così i poeti hanno dovuto fare del linguaggio un
regno proprio indipendente. È questo il segreto del linguaggio poetico nel
quale i pensieri, come parole, hanno un contenuto proprio. Il problema di
scendere dal mondo dei pensieri nel mondo reale si trasforma nel problema di
scendere dal linguaggio nella vita, ossia di superare il fardello della parola
ed aprirsi all’atto.
Per
questo motivo quindi chi desidera concretamente accettare la sfida della poesia
impegnata dovrà rinunciare alla poesia: al poeta cosciente è richiesto di dover
uccidere la poesia per il proprio futuro perché essa è solamente in grado di creare linguisticamente
una profonda rottura ideologica. Per questo la
poesia è semplicemente il fronte di qualcosa di più grande. La distruzione s’impone al poeta perché
egli sa che la cenere è necessaria affinché la fenice ricompaia. Il poeta non è
dunque vecchio come il mondo: porta soltanto il proprio avvenire. Il tutto è
allora così riassumibile: se alziamo così la mano c’è sovversione. Ma se affermiamo di aver alzato la mano non c’è più
sovversione. Un’affermazione è sovversiva solo in quanto atto, non in quanto ci
si riferisce a quello che con essa viene affermato. E noi stessi in questa
maniera decretiamo la condanna a morte della poesia. Non basta in un sol colpo
pronunciare delle parole per risolvere il problema pratico-teorico della nostra
emancipazione. Qui dunque non si nega l’importanza di una pratica teorico-linguistica[22]:
«l’organizzazione rivoluzionaria non può essere che la critica unitaria della
società, cioè una critica che non scende a patti con nessuna forma di potere
separato, in nessun punto del mondo, e una critica pronunciata globalmente contro
tutti gli aspetti della vita sociale alienata»; qui si nega però il fatto che la
teoria critica sia la prassi oppositiva decisiva per un concreto cambiamento.
Per questo preciso motivo il poeta ha il dovere di comunicare il suo mondo ma
anche, contemporaneamente, di essere il boia della poesia: l’uccisione della
poesia fa dunque parte di quel progetto che vuole rendere visibile il fatto che
la storia si può cambiare realmente solamente con atti pratici e non parole. Se
noi continuiamo a fare poesia impegnata rimaniamo degli ipocriti perché così
facendo accettiamo il fatto che questo mondo è immodificabile. La poesia potrà
rinascere solo dalle proprie ceneri nella forma di una poesia dell’avvenire, in un avvenire radicalmente differente. Non è
perciò qui in discussione la poesia in generale ma la necessità di negare
completamente la cultura come ideologia dell’accettazione.
[1] G. Debord, La società dello spettacolo, in Commentari
sulla società dello spettacolo, SugarCo Edizioni, Milano 1990, p. 207 §
180.
[2] Ivi, p. 209 § 184.
[3] L’arte che non si supera è
semplicemente un tentativo disperato di sottrarre il presente soggettivamente
esperito dal divenire temporale. Essa si illude di poter rendere eterna
l’esistenza del singolo individuo mediante la produzione di una traccia
contemplabile, ovvero trasformando l’esperienza soggettiva in un’immobile
oggetto. L’arte si riduce in questo modo in un particolare processo di
reificazione e di negazione della dialettica, qui da intendersi come movimento
storico-vitale.
[4] «Il ruolo rivoluzionario
dell’arte moderna, culminato nel dadaismo, è stato la distruzione di tutte le
convenzioni nell’arte, nel linguaggio o nei comportamenti. Siccome
evidentemente, ciò che è distrutto nell’arte o nella filosofia non per questo è
ancora concretamente spazzato via dai giornali o dalle chiese, e siccome la
critica delle armi non aveva seguito allora certe avanzate dell’arma della
critica, il dadaismo stesso è divenuto una moda culturale classificata, e la
sua forma è stata recentemente rovesciata in divertissement reazionario […],
[…] facendo servire un tale “stile” all’accettazione e alla decorazione del
mondo attuale» (G. Debord, I
situazionisti e le nuove forme d’azione nella politica o nell’arte, in AA.VV., Guy Debord (contro) il cinema,
a cura di E. Ghezzi e R. Turigliatto, Editrice Il Castoro/la Biennale di
Venezia, Milano 2001, p. 56).
[5] G. Debord, La società dello spettacolo, in Commentari
sulla società dello spettacolo, cit., p. 213 § 191.
[6] Ibid. Al surrealismo si critica
la sua sopravvalutazione dell’inconscio.
Questo elogio del’irrazionale è stato di fatto recuperato dall’ideologia
dominante per giustificare la piena irrazionalità del suo stesso mondo
spettacolarizzato: da negazione del vuoto della società borghese questa
protesta è finita per essere commercializzata e divenire l’affermazione positiva
di questo stesso vuoto: «nel quadro di un mondo che non è stato essenzialmente
trasformato, il surrealismo ha avuto successo. Questo successo si ritorce
contro il surrealismo che non si aspettava null’altro se non il rovesciamento
dell’ordine sociale dominante. […] Non essendo stata fatta la rivoluzione,
tutto ciò che per il surrealismo ha costituito un margine di libertà si è
trovato riverniciato e utilizzato dal
mondo repressivo che i surrealisti hanno combattuto» (Amara
vittoria del surrealismo,
in Internazionale situazionista 1958-1969,
Nautilus, Torino 1994, N. 1, p. 3).
Dunque tutto ciò è avvenuto perché i mezzi di liberazione indicati dal surrealismo
non potevano fuoriuscire dall’immaginario: essi erano i sogni e la magia.
Sostenendo l’irrazionale esso è pertanto divenuto facilmente recuperabile dallo
spettacolo stesso, una teoria conservatrice da esso sfruttabile. Inoltre
individuando in quell’ambito specifico il possibile campo del capovolgimento
delle condizioni esistenti esso ha inesorabilmente allontanato da sé qualsiasi
prassi, rimanendo perciò quest’ultima bloccata nella mera sfera artistica.
[7] «Per tutti quelli che cominciano
a guardare a quest’epoca in maniera demistificata, non c’è già più arte
moderna, esattamente nello stesso modo in cui non c’è più una politica
rivoluzionaria costituita, da nessuna parte, dalla fine degli anni Trenta. Il
loro ritorno oggi non può essere che il loro superamento, vale a dire proprio la realizzazione di quella che è
stata la loro esigenza più fondamentale» (G. Debord, I situazionisti e le nuove forme d’azione nella politica o nell’arte,
in Guy Debord (contro) il cinema, cit., p. 54).
[8] G. Debord, La società dello spettacolo, in Commentari
sulla società dello spettacolo, cit., pp. 212-213 § 190.
[9] Ivi, p. 213 § 191.
[10] Ivi, pp. 213-214 § 192.
[11] K. Marx e F. Engels, La sacra famiglia, Editori Riuniti, Roma
1967, p. 155.
[12] «L’arma della critica non può
certamente sostituire la critica delle armi, la forza materiale dev’essere
abbattuta dalla forza materiale, ma anche la teoria diviene una forza materiale
non appena si impadronisce delle masse. La teoria è capace di impadronirsi
delle masse non appena dimostra ad
hominem, ed essa dimostra ad hominem,
non appena diviene radicale. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla
radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso» (K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto
di Hegel, in La questione ebraica,
Editori Riuniti, Roma 1996, p. 60).
[13] G. Debord, La società dello spettacolo, in Commentari
sulla società dello spettacolo, cit., p. 220 § 203.
[14] «La critica non è una passione
del cervello, essa è il cervello della passione. Essa non è un coltello
anatomico, è un’arma. Il suo oggetto è il suo nemico, che essa non vuole confutare bensì annientare» (K. Marx, Per la
critica della filosofia del diritto di Hegel, in La questione ebraica, cit., pp. 52-53).
[15] G. Debord, La società dello spettacolo, in Commentari
sulla società dello spettacolo, cit., p. 231 § 220.
[16] «Ogni teoria rivoluzionaria ha
dovuto inventare le proprie parole, distruggere il senso dominante delle altre
parole e portare nuove posizioni nel “mondo dei significati”, corrispondente
alla nuova realtà in gestazione, e che bisogna liberare dal guazzabuglio
dominate. Le stesse ragioni che impediscono ai nostri avversari (i padroni del
Dizionario) di fissare il linguaggio, ci permettono oggi di affermare posizioni
altre, negatrici del senso esistente. Tuttavia sappiamo in anticipo che»
persino le nostre parole «valgono storicamente, per un periodo dato, legato ad
una prassi storica precisa. È impossibile sbarazzarsi di un mondo senza
sbarazzarsi del linguaggio che lo nasconde e lo garantisce, senza mettere a
nudo la sua verità. Come il potere è la menzogna permanente e la “verità
sociale”, il linguaggio ne è la garanzia permanente, e il Dizionario il suo
riferimento universale. Ogni prassi rivoluzionaria ha provato il bisogno di un
nuovo campo semantico, e di affermare una nuova verità […]. Il fatto è che il linguaggio è la dimora del
potere, il rifugio della sua violenza poliziesca. Ogni dialogo con il
potere è violenza, subita o provocata. Quando il potere risparmia l’uso delle
armi, è al linguaggio che affida la cura di conservare l’ordine oppressivo. Di
più ancora, la coniugazione dei due è l’espressione più naturale di ogni
potere». Allora, «poiché il dizionario è il guardiano del senso esistente, noi ci proponiamo di distruggerlo
sistematicamente. La sostituzione del
dizionario, della guida del parlare (e del pensare) di tutto il linguaggio
ereditato ed addomesticato, troverà espressione adeguata nell’infiltrazione
rivoluzionaria del linguaggio» (M. Khayati, Le
parole prigioniere (prefazione ad un dizionario situazionista), in Internazionale situazionista 1958-1969,
cit., N. 10, pp. 50-51).
[17] G. Debord, La società dello spettacolo, in Commentari
sulla società dello spettacolo, cit., p. 220 § 204.
[18] Ma, «al contrario della pratica
scandalistica dei surrealisti», tale scandalo pratico «non deve limitarsi a
suscitare il riso o l’indignazione attraverso la valorizzazione del significato
originale del messaggio, ma deve indicare la possibilità di rovesciare la
stessa vita quotidiana mediante la critica negatrice dei suoi valori; così […]
i baffi aggiunti alla Gioconda […] non rivestono più alcun interesse, dopo lo
scandalo iniziale» (G. Marelli, L’ultima
Internazionale. I situazionisti oltre l’arte e la politica, Bollati
Boringhieri editore, Torino 2000, p. 41).
[19] G. Debord, La società dello spettacolo, in Commentari
sulla società dello spettacolo, cit., p. 221 § 206.
[20] Ivi, p. 223 § 209.
[21] Ibid., § 211.
[22] Compito primario di ogni
movimento rivoluzionario è prima di tutto quello di «costituire una teoria
critica globale e (dunque, inseparabilmente) comunicarla a tutti i settori già oggettivamente coinvolti in una
negazione che soggettivamente resta frammentaria» (G. Debord, Rapporto di Guy Debord alla VII Conferenza dell’I.S. a Parigi (estratti),
in I situazionisti e la loro storia,
Manifestolibri, Roma 2006, p. 137). Dunque se una delle sfide contro lo
spettacolo coincide con la comunicazione, che lo spettacolo stesso nega
riducendo qualsiasi informazione a mera immagine e chiacchiera, ciò implica che
la «teoria del dialogo non può
accontentarsi di un mero dialogo della
teoria: la teoria del dialogo è, dalla sua origine al suo sviluppo ultimo,
una critica della società» (ibid.). «Il linguaggio resta ancora la mediazione
necessaria della presa di coscienza del mondo dell’alienazione (Hegel direbbe:
l’alienazione necessaria), lo strumento della teoria radicale che finirà per
impadronirsi delle masse, perché è la loro; ed è allora soltanto che troverà la
sua verità» (M. Khayati, Le parole
prigioniere (prefazione ad un dizionario situazionista), in Internazionale situazionista 1958-1969,
cit., N. 10, pp. 54-55).
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La faziosità di questo scritto mi pare dovuta a miopia generata da un'interpretazione troppo rigida di un concetto marxista che si potrebbe interpretare anche diversamente.
Non posso credere che Marx abbia sostenuto che il capitalismo (e oggi più precisamente il liberismo) sia solo un'orrenda fiaba da sfatare. Questo lo poteva credere Don Chisciotte.
A parer mio basterebbe rendersi conto che tutto è pensiero, anche quello opposto, quello del vivere secondo standard capitalisti, e deriva dalla stessa logica: quella che fa dire che il pensiero è illusorio fintanto che non si concretizza in un fatto, un'azione. Purché porti profitto, s'intende.
Per il capitalismo può valere anche questa affermazione:
"La cultura, in quanto produzione culturale, è dunque un ramo dell’industria e del consumo."
Ma per il capitalismo non si va oltre, non ha necessità che la scultura diventi "il loro completamento ideologico- culturale". Questa mi sembra solo una proiezione mentale dovuta a faziosità.
In altre parole, secondo me, non gliene può fregar di meno.
Questa miopia porta Cimò a sprofondare nell'infelicità quando si rivolge così agli artisti militanti:
"Il problema non può allora finire per essere circoscritto nella mera elaborazione di uno spettacolo del rifiuto, bensì deve trovare la propria risoluzione nel praticare quotidianamente un rifiuto dello spettacolo. "
Dopodiché gli artisti dovrebbero trovarsi un altro lavoro. Ma come, ma se già son quasi tutti disoccupati… nel senso che già la società (capitalista) non li usa proprio, ora pure col sol dell'avvenire dovrebbero farsi da parte?
Agli artisti socialmente impegnati potrebbe bastare:
"non bisogna fuggire la realtà, bensì bisogna mettersi esattamente dal punto di vista …degli spettatori che subiscono ripetutamente tutte le manifestazioni dello spettacolo."
Non fosse che anche questa affermazione contiene gli stessi difetti di cui sopra. Cosa fa dire a Cimò che gli artisti, o i poeti, debbano mettersi "esattamente" da un certo punto di vista? Crede che cli artisti non siano persone comuni e che siano tanto diversi dagli spettatori? E perché mai? Non è questo anche l'orrendo punto di vista della cultura conservatrice? Cosa li rende speciali, o cosa glielo fa credere?
"i poeti hanno dovuto fare del linguaggio un regno proprio indipendente."
Hanno dovuto? Che sciocchezza: l'hanno sempre fatto. Questione di libertà. Avete mai sentito di un artista che non l'abbia cercata (e praticata) quotidianamente? Io sì perché ero uno di questi: sono i designer, i fotografi, i grafici… quelli che hanno dovuto rinunciare al proprio regno indipendente, per campare oppure perché gli stava bene così.
Senza giungere alle drammatiche conclusioni di Cimò:
"Dunque vi è cultura solo finché essa permane separata"
E mettiamoci però almeno un punto interrogativo, perché qui Cimò arriva a superare se stesso in quanto a veggenza:
"poiché se questa situazione terminasse la cultura si supererebbe e confluirebbe nell’unità della comunità umana, la quale scorgerebbe il proprio senso in sé medesima senza alcun bisogno di qualcosa di esterno ad essa."
Lo dico senza mezzi termini: per molti marxisti gli artisti sono un peso di cui ci si dovrebbe liberare. Infatti qui si sostiene che gli artisti sarebbero "qualcosa di esterno ad essa". Per me Cimò ci vorrebbe estromettere tutti quanti.
Che se la scriva la mia portinaia la divina commedia.
Caro Ennio, l'angoscia del limite è ben altra cosa. E sono in parecchi oggi a sentirla.
mayoor
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