Ci salveranno i dialetti (e i dialettali)? Tra le varie strade tentate per uscire dalla crisi (per chi l'ammette; poi ci sono quelli che, anche nella palude, sognano cieli sublimi alla Tiepolo) quella del "ritorno al dialetto" o del "recupero dei dialetti" (o delle "radici") sembra attirare molti; ed avere una sua patina persino "politica": i dialetti sarebbere un argine, una forma di resistenza, ai linguaggi commercializzati e all'anglo-americano globalizzato. I dialetti? Quelli che oggi affondano le loro radici in comunità sempre più "provvisorie"o "di plastica" o "elettronificate"? Come non vedere che l'autenticità (dei dialetti, delle comunità, del "popolo", dello stesso "io borghese") è un'invenzione di una tradizione (Hobsbawm) a fini consolatori o politici (si lensi alle "piccole patrie" leghiste)?
Lo scetticismo di questa nota di Linguaglossa, al di là dei giudizi sui singoli poeti su cui qualcuno dissentirà, mi pare condivisibile. Troppa mitologia ( o ideologia pseudo-resistenziale o solo nostagica) pesa sulle operazioni condotte almeno dai dialettali "programmatici" (voglio salvare quelli "spontanei" o naif ) La discussione sul tema non è nuova. Ritorna di tanto in tanto; ed è sintomo della crisi che "ci lavora", più che l'indicazione del varco da cui uscirne. Lo dice uno che il "suo" dialetto non l'ha dimenticato. Ma conservare una reliquia cara non significa resuscitare un mondo perduto. E non si può solo conservare. Si deve cercare. Abbiamo da affrontare una "malattia delle lingue", che colpisce contemporaneamente lingua nazionale e dialetti. Non si sa per quale miracolo questi ultimi ne sarebbero immuni. Insomma, in tempi di "sacrifici" non ci si venga a dire che dobbiamo accontentarci dei dialetti - i "meno abbienti" - o della "sublime lingua borghese" letteraria (Fortini). Esodanti e contrabbandieri, continuiamo a cercare...[E.A.]
Guardando per terra. Voci della poesia contemporanea in dialetto a cura di Piero Marelli LietoColle 2011 pp. 270 € 18,00
(Ivan Crico, Anna
Maria Farabbi, Renzo Favaron, Fabio Franzin, Francesco Gabellini, Vincenzo
Mastropirro, Maurizio Noris, Alfredo Panetta, Edoardo Zuccato)
Mettere mano ad una antologia della poesia in dialetto
significa preliminarmente fare i conti con alcune questioni di fondo, innanzitutto:
dobbiamo credere veramente e ciecamente alla tesi zanzottiana del dialetto
quale «lingua matria»? Quale linguaggio in grado di attingere una immediatezza
più immediata di quanto sia possibile con la lingua maggiore? E che tale
presunta immediatezza sia anche il precipitato di una autenticità altrimenti inattingibile?
Dobbiamo credere che mediante il dialetto si possa raggiungere il porto sepolto
del ritorno a casa? Che il dialetto permetta un rapporto «ingenuo»,
«inconsapevole» e magico con il «reale»? Dobbiamo ancora credere all’assioma
della lingua irta ed asprigna di un Albino Pierro come quella vetta estetica
irraggiungibile? Personalmente, ho dei dubbi: si tratta di una vulgata, di una
mitologia che, come tutte le mitologie ha un inizio e una fine.
A tal fine citiamo le parole di una intervista di Zanzotto
rilasciata a Renato Minore uscita in questi giorni per i tipi di Donzelli:*
«il mio rapporto con il dialetto è stato inconsapevole: era
per me un dato naturale, appreso così, parlando in famiglia, nel gruppo,
parlando come si respira. Solo più tardi ho preso consapevolezza della lingua,
e poi delle lingue, aiutato da un certo plurilinguismo prodotto dai molti
migranti che ritornavano stagionalmente, e dalla presenza “mitica” del latino
della Chiesa. Di fatto, le persone più colte parlavano anche l’italiano nelle
situazioni formali e lo usavano scrivendo. Come lingua internazionale si
aggiungeva poi il francese: si restava entro una fraternità neolatina».
Ma oggi, propriamente, dopo la rivoluzione telematica
dobbiamo parlare di dialetto o di post-dialetto? L’aspetto più interessante
del saggio introduttivo del curatore Piero Marelli risiede nel tentativo di
dirimere da subito la questione posta dal Croce secondo il quale la poesia in
dialetto sarebbe stata una sorta di «riflesso» della poesia in Lingua; Marelli
tenta di individuare le ragioni che stanno a monte di una ripresa del dialetto
nel quadro della mondializzazione e della globalizzazione dei linguaggi.
Secondo la tesi del Marelli la globalizzazione dei linguaggi avrebbe dato più
linfa alla poesia in dialetto e favorirebbe, indirettamente, la diffusione
delle pratiche dei micro linguaggi quali sono i dialetti. Ecco, io avrei molti
dubbi sulla bontà della tesi sostenuta: che dialetto e post-dialetto siano oggi
di per sé esempi percorribili. Pur constatando il livello estetico più che stimabile
dei testi degli autori inseriti (tutti nati negli anni Sessanta) e non volendo
entrare nel merito degli autori inseriti e/o esclusi non essendo io, tra
l’altro, uno “specialista” di poesia dialettale, purtuttavia non posso fare a
meno di evidenziare alcuni aspetti comuni a tutti gli autori inseriti. In primo
luogo, la micro quotidianità, e poi il piano basso e le tematiche basse
(intendo pseudo-plebee) dei linguaggi impiegati, quel primitivismo (di cui
abbonda ad esempio la poesia di una Assunta Finiguerra). Appare qui chiaro il
sintomo di quella crisi dei linguaggi de-territorializzati che altro non è che
un indotto della invasione della globalizzazione linguistica e mediatica Ritengo
invece che come la mondializzazione abbia operato sul linguaggio poetico in
Lingua quel fenomeno che ho chiamato di de-territorializzazione, ho il sospetto
(anzi la quasi certezza) che essa abbia operato anche sui post-dialetti contemporanei costringendo i poeti in dialetto ad
inseguire da lungi la poesia in Lingua (a distanza di sicurezza) e a
parametrare le proprie tematiche su quelle della poesia in Lingua; con il
vantaggio, almeno per la poesia post-dialettale, di poter ignorare lo
sperimentalismo linguistico che ha invece profondamente intaccato la poesia in
Lingua di questi ultimi quaranta anni.
Belle nel senso tradizionale le elegie di Ivan Crico e di
Francesco Gabellini, molto intense e vere sono le composizioni di Renzo Favaron
con quel loro tono di impegnato civismo, con la tenuta di un registro basso e
colloquiale, così come molto interessanti sono i testi di Vincenzo Mastropirro,
molto terrestri, intrisi di terra, sporchi, con quel parlato basso sincopato e
interrotto che ha qualcosa di autentico e di vero; un poco datati invece mi
sembrano i testi di Fabio Franzin con quel loro ostinato insistere su un
operaismo arrabbiato (sembra un comunista impegnato nella lotta di classe
trapiantato negli anni Dieci del nuovo millennio) completamente innocuo e
parallelo rispetto al quadro del bon ton
poetico oggi in auge. Dei testi di Anna Maria Farabbi quello che posso dire è
che rifà nelle poesie in dialetto il verso (in
peius) rispetto alle sue poesie in Lingua; poi c’è il mondo magico e
perduto di Maurizio Noris, con quel caratteristico languore tipico del tono
elegiaco; di Alfredo Panetta invece mi è piaciuto il suo modo diretto di
parlare al lettore, la bella tenuta del verso e le brillanti soluzioni
stilistiche che non vogliono mai sovrapporsi alle aspettative del lettore né
vogliono sedurlo con esiti posticci; così come mi ha colpito il linguaggio
poetico maturo di Edoardo Zuccato (che ho però gustato nella traduzione in
italiano). Ma è una «lingua delle maschere» (o lingua delle nacchere?) quella
che si annuncia con operazioni, pur degnissime e stimabili, come questa del
Marelli, che nasce dalla consapevolezza (implicita) che la post-poesia in dialetto ci racconta qualcosa che è ormai
irrimediabilmente cosa del passato.
C’è una sorta di «resistenza» antagonistica al Moderno che
qui viene alla luce. Ma – chiediamoci – ha senso questa sorta di (disperata?)
resistenza? Ha una via di uscita? C’è una speranza in questa (esasperata?)
resistenza ad oltranza? C’è un pertugio dal quale può sortire questa misteriosa
lingua delle nacchere?
Ed ecco che la post-poesia
in dialetto si rintana nei micro linguaggi dei micro interni del micro
quotidiano, tanto quanto fa la poesia in Lingua. E il dialetto verrebbe usato
per creare quello strano ircocervo, mezzo meticcio e a metà creolo, purché si
sottragga alla prosaicità dell’Amministrazione total-mediatica. Linguaggi
interstiziali, settoriali, di micro nicchia. Pia illusione, temo. In realtà, si
sta in superficie come sugli alberi le foglie, in attesa di un colpo di vento.
Nel bel mezzo dell’uragano total-mediatico e della stagnazione economica,
filosofica e stilistica.
* La promessa
della notte a cura di Renato Minore Roma, Donzelli 2011 pp. 226 € 25.00
64 commenti:
Nessuna poesia in lingua potrà mai significare ciò che viene scritto in dialetto. Il dialetto è un'altra lingua , del passato, va bene e allora? E' esistita ed esiste, è cosa per poeti...
Egregio SIG Linguaglossa alla poesia dialettale tutto ciò che lei ha esposto in questo post, non interessa , altrimenti davvero non avrebbe ragione d'esistere . Gli ingrediente dei biscotti del Mulino Bianco non mi interessano quando faccio quelli della ricetta della nonna e le assicuro sono tutta un'altra cosa!!! Qualcuno non è d'accordo con me? Scusate il paragone ma è così tanto per non perderci in chiacchiere. Ciao a tutti Emy
Ennio Abate:
Mi aspetto molte obiezioni su questo post. Eppure credo che Linguaglossa abbia ragione. Non si tratta di liquidare i dialetti o l’uso del dialetto per fare poesia. Ci si può innamorare di qualsiasi cosa. Di una persona come di un dialetto. E irritarsi se qualcuno fa notare che ha i suoi limiti. Quanti lo conoscono? Il suo utilizzo in poesia oggi, mentre i parlanti in dialetto diminuiscono e le comunità che una volta se ne servivano si trasformano (la “mutazione antropologica” che fece soffrire Pasolini), non diventa un fatto di nostalgia e in certi casi addirittura elitario? I poeti dialettali oggi sono *autentici* (di sicuro sono rari quelli che conoscono solo il dialetto; in Italia, come minimo, sono bilingue e oscillano o devono porsi il problema di cosa dire in italiano e cosa nel dialetto, materno/paterno che sia)? E chi è passato dall’italiano al dialetto in poesia negli ultimi tempi non l’ha fatto forse sotto la spinta di una “moda”, magari senza intenderne o disinteressandosi del significato politico (localistico o no global, a seconda dei casi) che tale recupero o ritorno alle radici assumeva?
Possiamo dire che questi problemi non c’interessano. Se ne occupino i critici. Ma i problemi ci sono. Ma i poeti scrivendo affrontano e risolvono anche questi problemi. Fanno delle scelte, consapevolmente o inconsapevolmente. Possiamo usare il dialetto o la lingua “soltanto” perché ci piace. Come possiamo usare l’automobile o il PC senza capire niente di come sono fatti questi strumenti. Ma possiamo anche interrogarci sull’auto o il PC che usiamo, studiarne la struttura, il funzionamento, capirne gli effetti sociali, politici. E cercare di capire, ad es., oggi che abbiamo alle spalle la vecchia storia (conflittuale!) tra dialetti e lingua nazionale ( Ascoli, Manzoni, Verga…), dove il dialetto si colloca nei rapporti di forza tra le lingue a livello globale (che rimandano ai rapporti di forza tra gruppi sociali). Se davvero è argine alla globalizzazione, all’omologazione o è una mezza illusione. Se la stessa lingua nazionale regge e fino a che punto.
Più direttamente a Emy un po’ inviperita. Sì, erano “tutt'un'altra cosa” i biscotti che faceva la nonna, ma poi è venuta l'industrializzazione e i biscotti oggi hanno la targa "Il Mulino Bianco" della Barilla. Certo ci sono ancora alcuni/e che fanno i biscotti secondo la vecchia ricetta della nonna. Ma non è più la stessa cosa dei tempi della nonna, perché ci sono altri (capitalisti) che fanno soldi con i biscotti prodotti a livello industriale. Dire "nessuna poesia in lingua potrà mai significare ciò che viene scritto in dialetto" equivale a dire che il"sapore" particolare del dialetto viene perso quando si passa alla lingua. Certo. Ma le lingue si trasformano e le genti stesse si trasformano e non parlano solo i dialetti e possono dire di amore, morte e altri temi in italiano, francese, inglese, ecc.
Insistendo sull'analogia:che i biscotti fatti seguendo la ricetta della nonna sarebbero più buoni di quelli della Barilla, è una questione opinabile. I ragazzini d'oggi, abituati a mangiare biscotti del Mulino Bianco, forse non è che apprezzano poi tanto quelli fatti dalla mamma seguendo la vecchia ricetta ( e neppure i dialetti). Glieli imponiamo a scuola come l'educazione sessuale? Ma per ora mi fermo a queste “chiacchiere”.
..che peccato, Ennio mi aveva così colpito per la sua originalita,genuinità, poetica ,preparazione, etc ma mi sa che mi ero sbagliata. E' un bravo poeta, è importante leggere la sua poetica ed i suoi scritti politici, però poi nelle relazioni, cio da cui è attratto ,e che pratica anche lui etc etc è averci l'ultima parola, anche se camuffando il tutto da analisi in duelli o repliche.
Sono cosi belle le penultime, ma molto probabilmente nonostante tanta dichiarata critica, c'è bisogno di essere esclusivi, come in realta è l'altra parte quella che politicamente si critica perche è omologata ai sistemi da hit parade, compreso quello in questo caso che nessuno dei signori e signore superfighi darebbe valore a qualcosa come i linguaggi, compresi quelli poetici e anche quelli dei dialetti, a meno che faccia arte povera da business.
Anziche il cane che si morde la coda come "il sistema " è di per sè, l'antisistema orwell cosa fa? nega l'esistenza di per sè di chi sceglie di non vendere i suoi prodotti, di non mercificarsi, di essere cosi come è fuori da qualsiasi controllo , compreso quello di chi vorrebbe controllare tutto come gia fa molto bene il sistema.
In pratica siamo sempre alle solite, i contropoteri o non ne tengo alcuno, si trovano invece solo per sbaglio dall'altra parte della barricata, adottano gli stessi sistemi di negazione dei poteri di sistema, compreso quello mediatico, cui vorrebbero per giunta essere di critica.
Alla fine a forza di aver bollato tutti e tutto, anche se non fosse stato completamente vuoto e deserto,tale ne è la mitica percezione ( metodo infatti ben praticato dai poteri istituzionali, mediatici, culturali, etc tutti) a meno che si sia rimasti incondizionati da tutto e da tutti , cosa che spero vivamente per tutte le minoranze delle minoranze delle penultime parole di cui non vorrei mai l'ultima,nemmeno in dialetto, né negarmi che non la vorrei.
Ennio Abate a In soffitta:
Solo gli dei non deludono mai. Accetto i miei limiti. Non vado a caccia di ammiratori/trici.
Comunque, qui stiamo cercando di aprire una discussione sull'uso dei dialetti e tu salti del tutto l'argomento. Sono deluso anch'io.
Caro Ennio, prova a fare dei biscotti della nonna ai tuoi figli e poi mi dirai...se vuoi ti do la ricetta. Dai su , ma come si fa a mettere in discussione il dialetto? Non si può Ennio , il dialetto è stato e deve rimanere ciò che era . Chi lo vorrà leggere lo leggerà, e non è facile, ma chi lo snobba, perchè così è, non lo considererà. Perchè chiederci di più? Sarebbe come chiederci perchè conserviamo i ricordi o perchè si continua ad acquistare e ad ammirare l'antico . Rispondimi perchè? Io dico perchè mi piace mi fa scrutare tempi dai quali provengo, la fattura, il confezionamento, le passioni di chi ha vissuto prima di me , in una diversa condizione, contesto ecc. tutto ciò mi affascina, ma perchè andare oltre il passato se di passato bisogna parlare, consideriamolo e facciamolo nostro perchè nostro è. Non sono inviperita (che brutto se ho dato questa impressione), vorrei solo capire perchè contestare una lingua che è nata come tutte le altre,mi andrebbe bene sole se le contestassimo tutte.
Emilia B.
Ennio .. Così come è , hai, avete, impostato questo post proprio sul tema dialetti, manca alla dialettica poetica di presentazione un quid essenziale , peraltro azione delle tue" fatiche " o dovere/piacere che siano , di supporto sostegno distribuzione di poetica dialettale tramite nomi e cognomi proposti proprio da te in questo spazio, se non anche in quel laboratorio di cui tuo onere onore la cura . Penso a Banfi , ma penso anche ad un Panetta e così potrei continuare ... Si nota solo un taglio senza salvare pezzi di stoffa. Ciò non credo debba far sentire diminuito nessuno , perché al contrario di chi deve riempire un vuoto risultante da un confronto con il passato " insuperabile" , c é chi vive il suo parlarsi poetico con lingue poetiche della musicalità della propria terra sempre più contaminata dal tempo e lo spazio che cmq va solo avanti.
Ennio a Emy:
"ma come si fa a mettere in discussione il dialetto? Non si può Ennio , il dialetto è stato e deve rimanere ciò che era".
Si ripete l'equivoco già presente nella discussione sul "piacere della lettura".
Lì dicevo che c'era il piacere e il dispiacere nella vita; e non solo il primo e mettevo in discussione l'ideologia che sul piacere REALE (provato davvero da chi lo prova e indiscutibile anche da chi non lo prova) viene costruita.
Qui non sto negando che ci sono i dialetti - ecchè so fesso! - (ci sono e si trasformano, magari più lentamente, o s'inquinano o muoiono come capita anche alle lingue - non a tutte ma ad alcune: il latino oggi non lo parliamo più). Non sto facendo un battaglia per eliminarli. Non sto prescrivendo ai poeti e alle poetesse la castrazione o la cintura di castità linguistica, cioè di non scrivere in dialetto (lo faccio io pure). Sto mettendo in discussione certe giustificazioni ideologiche con cui si cerca di valorizzarli politicamente(il leghismo nordista e purtroppo anche sudista ad es.)e in poesia.Sto contrastando la visione dei dialetti come immobili e quasi inalterabili (visione anche tua quando dici: "il dialetto è stato e deve rimanere ciò che era") o più *autentici* della lingua nazionale o commercializzata, ecc.
Cose manco originalissime. Ne parlano studiosi e poeti dialettali seri.
Devo dire che, purtroppo, finora nessuno è entrato nel merito dei problemi che Linguaglossa e io sulla sua scia abbiamo posto.
Qui si vedono subito spuntare corna e si grida: ecco il diavolo!
Non è un bel discutere...dai su!
Avevo lasciato un commento piu articolato sulle considerazioni dell'impostazione di questo post per nulla chiaro da parte di E.A. e/o G.L. sul punto che a loro starebbe a cuore sui dialetti...a questo punto occorre rinunciare completamente alla discussione,perche è impossibile che la piattaforma blogger autocancelli i commenti tanto piu ora visto che sarebbe escluso l'intervento di altri amministratori del sito a piu chiavi di accesso.
Faccio solo notare che se si voleva confinare la questione come da risulta non dal post ma dall'ultimo commento di E.A. ore 9.13 , era corretto escludere in sede di post non tanto se stessi , come dice Ennio dal suo uso poetico del dialetto, ci mancherebbe, ma tutti coloro che da Banfi agli altri , del laboratorio o meno come Panetta, non hanno certo in uso ildialetto nella loro poetica né perchè fa business l' "arte povera", né perchè fa lega o chissa che nostalgia reazionaria.
Se non si ha la sensibilità minima volta a mettere in salvo quel poco che rimane di lontano eoni esistenziali ma anche politici dalle mercificazioni del tema in oggetto come altri, non si puo pretendere che gli altri per chissa quale miracolo, si mettano nella testa di chi sistematicamente esclude anzichè includere quanto egli stesso ,come E.A. in questo caso, si impegna a coltivare, pro- muovere non nel noto senso commerciale, ma nel senso di camminargli a fianco,facendo parlare le gambe fino alla testa delle lettere in ogni suo idioma compreso quello dialettale.
Ma che c'importa se il dialetto viene usato politicamente. La lega l'ha fatto suo per dire le sue min...scusate cavolate è qui casca davvero l'asino! Noi parliamo di poesia. Qualcuno lo vuole modificare? modernizzare? Male!!!Molto male!!! Io non mi pongo dei limiti quando scrivo in dialetto, la mia ricerca , RIPETO, la faccio nel passato in quel passato che non voglio dimenticare.Non è un fatto di resistenza al moderno,è un voler esprimersi semplicemente in un'altra lingua che è stata pur sempre la mia.Sono in mezzo ad un uragano total-mediatico? Pazienza qualche foglia , qualche seme, trova sempre un angolo dove fermarsi. Il mio parere che grazie a dio poco conta , ci porterà a scovare questi semi e queste foglie e a te e a Linguaglossa resterà sempre il piacere, o meglio l'interesse, di criticare l'operato di chi ha voluto pensare amorosamente (che scandalo!) al passato. Buongiorno a voi da Emilia.
Ennio Abate a In soffitta:
"Avevo lasciato un commento piu articolato sulle considerazioni dell'impostazione di questo post [...]a questo punto occorre rinunciare completamente alla discussione,perche è impossibile che la piattaforma blogger autocancelli i commenti tanto piu ora visto che sarebbe escluso l'intervento di altri amministratori del sito a piu chiavi di accesso".
Smettila d'insinuare che io cancelli i tuoi commenti o quelli degli altri!
A Maurizio Soldini è capitato di aver scritto un commento e di non vederlo pubblicato.
L'ho invitato a inviarlo a: moltinpoesia@gmail.com.
L'ha fatto.
E l'ho pubblicato io [Cfr.Giorgio Linguaglossa
Sull'"Almanacco dello Specchio 2010-2011" ;18 dicembre 2011 11:07 ].
Farò lo stesso con i commenti tuoi o di altri che non riuscissero ad essere pubblicati.
Ennio Abate:
Aggiungo che ho copiato sia il commento qui sopra, sia i due pezzi di Maurizio Soldini.
Così se, dovessero scomparire ancora (io non sono un esperto informatico) e devo andare a dimostrare davanti al Tribunale dei blog che davvero li ho pubblicati, ho le prove.
Ma vedi un po' che mi tocca fare anche di domenica!
Ennio Abate a Emilia:
"Ma che c'importa se il dialetto viene usato politicamente" [...]Noi parliamo di poesia [...]Io non mi pongo dei limiti quando scrivo in dialetto".
Ma se tu la poesia la fai anche in dialetto, lo stravolgimento politico del dialetto ti dovrebbe importare, anzi preoccupare!
Perché il linguaggio non è neutro e i limiti te li pongono gli altri che lo usano in quel modi politici che a te sembrano "cavolate" e invece lo svalutano.
Attenzione all'io-io che si chiude nelle sue buone intenzioni e non vuole guardare quello che fanno gli altri.
Sai quanti hanno detto in questi anni:"Ma che c'importa dell'Europa, ma che ci importa delle guerre, ma che c'importa della cultura commercializzata, ma che c'imoporta del razzismo, eccetera
Rimuovendo i problemi politici (anche del linguaggio), lasciando fare agli altri le "cavolate", guarda come hanno ridotto questo Paese.
Firmato: il grillo parlante
Ad Ennio:
io quando faccio poesia dialettale non penso assolutamente alla politica, e quello che dice la lega non influirà certamente sul mio fare poesia, ma se qualcuno si farà travolgere dalla politica , il suo dialetto sparirà molto presto. E' la fede e l'amore che conta in quello che fai, anche in politica,perchè vedi Ennio queste forze che forse non s'usano più e che si cerca sempre di non parlarne perchè non è più di moda, sono quelle che tengono in piedi un poeta anche quando qualcuno lo vuole a terra.
Sono certa che in molti lo pensano così, ma quasi nessuno lo vuole ammettere. A proposito c'è un proverbio milanese che recita così:-In del scriv o in del parlà ognun condensa quel che voeur fà savè...ma non quel che pensa .- traduco- Nello scrivere o nel parlare ognuno condensa quello che vuole fare sapere...ma non quello che pensa.- Fenomeno normalissimo in politica,si estende anche ai biografi ed agli storici; ovviamente nessuno ne è esente in assoluto.Ciao Ennio anzi te salùdi. Emy
In dèl giust andà di ròp
u truà un dì in del surè
una cartulina del me nonu
a la mia nona cara dona
el diseva propi inscì:
Cara Cèca mi sto ben mangi
pan tùti i dì spèta un poeu
e fra un quei dì saro lì ammò da tì.-
L'era un tentatif de puesia
l'era amour o voia de scapà via
la guèra l'è stada lunga e trista
ma quèla cartulina l'è lì ammò
in bèla vista.
Traduzione
Nel giusto andare delle cose
ho trovato un giorno in solaio
una cartolina di mio nonno
a mia nonna cara donna
che diceva proprio così:
Cara Francesca io sto bene mangio
pane tutti i dì ,aspetta un po'
e fra qualche giorno saro' da te
ancora lì.
Era un tentativo di poesia
era amore e voglia di scappar via
la guerra è stata lunga è triste
ma quella cartolina è ancora lì
in bellavista.
Emilia
Odio la poesia dalettale delle terre del Po o delle Alpi della cresta italiana. Le poesie in questi dialetti le trovo e sono piatte e spesso rozze, triviale. L'unico dialetto che ha un decoro per la recitazione poetica e teatrale è il napoletano, solo seguito dal veneziano. Il napoletano suona come il francese, anche nella prosodia del testo dialettale ed ha una sua grammatica nobile, franco-spagnola. Tutto il resto è suono inadeguato alle arti. Questo lo dico ed avverto essendo nata in tutt'altra nazione. Ma ho studiato la letteratura italiana e credo di potere essere una buona testimone dei livelli fonici dei dialetti.
Sonia
Cara Sonia è molto vero quello che tu dici , il napoletano ed il veneziano sono davvero dialetti stupendi, ma io sono lombarda e solo il mio posso offrire ed onorare. Ciao Emy
La discussione sul dialetto è utile (lo è sempre il confronto) ma rischia di diventare oziosa. La mia esperienza di autore dialettale mi porta a riconoscere che i dialetti sono particolarmente adatti come linguaggi di poesia. Io lavoro sul dialetto e ciò facendo, uso il dialetto della mia infanzia assieme a quello di oggi, parlato o letto, lo rielaboro, lo reinvento e non mi chiedo se sia paterno o materno, se esistano o no attorno a me parlanti, se sia di destra o di sinistra, se sia biscotto casalingo o industriale.
Studiando gli altri poeti in dialetto, cosa che mi sento di raccomandare, vedo che in essi c'è ogni tipo di approccio al dialetto: chi ne fa soprattutto un uso memoriale, come Ennio Abate, chi lo piega per rappresentare il mondo operaio come F.Franzin, chi per tendere verso il divino, come Biagio Marin.
E' interessante notare che Linguaglossa, dopo aver aperto la discussione su dialetto e post-dialetto, arrivando al concreto, cioè a dire due parole sugli autori dell'antologia, parla di 'tono elegiaco', 'parlato basso', 'registro basso e colloquiale', espressioni che si usano per tutte le lingue poetiche. Segno evidente che scrivere poesia nei dialetti è cosa pari allo scrivere in lingua.
Che poi il dialetto possa tendere anche a toni alti lo dimostrano tanti altri poeti, passati e contemporanei.
Perciò non sarebbe male partire dagli esiti che vengono raggiunti, più che dalle premesse ideologiche.
Poiché la poesia dialettale degli ultimi cinquant'anni ha fatto emergere autori egregi,diversissimi tra loro, da Marin a Guerra, da Dell'Arco a Loi, da Baldini a Dommarco, a Ruffato...; poiché giovani come quelli citati da Linguaglossa sono esempi interessanti e positivi di autori in dialetto, discutere ancora della validità poetica dei dialetti di ieri e di oggi sembra essere cosa inopportuna.
Allora dei dialetti non si discute? Certo che sì, ma osservandoli, esaminandoli in modo tangibile, in azione. Guardando come essi si prestano a realizzare (con il loro carico di sonorità e di significati) il miracolo della poesia, impennandosi a salire lontano dalle banalità, dagli stereotipi, dalle frasi fatte, dai linguaggi consumati, dalle emozioni prefabbricate.
Mario Mastrangelo
Alle domande che si (ci) pone Linguaglossa, a partire dalla prima sulla ‘tesi zanzottiana’ del dialetto come ‘lingua matria’ e, via via fino al pensare che il dialetto sia l’unico depositario di un contatto intimo con il reale, risponderei senz’altro di no.
Eppure, la mia madrelingua è il friulano, ho scritto un libro di poesie in quella lingua e altri interventi pubblicati sempre in friulano. Ma ho scritto anche in italiano. Va da sé. E con altrettanta partecipazione emotiva.
Un tempo, tanto, tanto tempo fa, quando conoscevo un po’ di più lo spagnolo e il francese, tentavo di scrivere anche in quelle lingue a partire da stati d’animo e da situazioni che, elettivamente, mi facevano preferire l’espressione (non la *traduzione*) in quella lingua. Quindi, un pensare in quella lingua le cui particolarità linguistiche, fonetiche, iconiche o strutturali, si prestavano meglio a rappresentare lo srotolamento dello stato emotivo/ideativo in rappresentazione poetica.
Per tutto ciò detto, mi trovo in sintonia con quanto scritto da R.M. Rilke sulla poesia. Per lui (vedi Quaderni di Malte Laurids Brigge, p. 21) il fare poesia rappresentava l’esito di un entrare dentro l’esperienza vissuta, essere dentro il tuo idioma fino in fondo (quale che sia, dunque, la tua lingua, o materna o paterna).
La lingua è uno strumento in cui certamente si sono depositate le culture, i vissuti e le trasformazioni relative. Ma non può diventare un deposito di ideologie che paralizzano i processi di cambiamento. Il contatto nostalgico con il tempo perduto può diventare una prigione se ci si fossilizza nel rimpianto. Certamente, può capitare che ci entriamo così a fondo da stare davvero molto male e fare fatica ad uscire.
Ma se ci rifugiamo in dicotomie meglio/peggio senza elaborare il senso di quella perdita, e quindi senza operare tutte le specifiche differenziazioni, riduciamo la nostra esperienza ad ambiti molto ristretti e superficiali (nel senso di stare sulla superficie).
E’ lì che deve avvenire una trasformazione, nella presa di coscienza del proprio essere nelle sue relazioni, oggi estremamente conflittuali. Invece, ciò che si sta cercando di fare è di trasformare il linguaggio (vedi ad esempio ‘operatore ecologico’ al posto di ‘spazzino’, ecc. ecc.) che non implica nessuna trasformazione della realtà.
Di converso, la realtà sta cambiando così velocemente da non avere alcun linguaggio adeguato a rappresentarla.
Parlo, però, per esperienza personale che, come tale, patisce il limite di essere solo comunicata, partecipata ma mai generalizzata.
Rita S.
Nei dialetti io da straniera ci vedo solo l'opposto di quello che dice Mastrangelo nel suo ultimo intervento: fosse che non avete una sola lingua nazionale, come prima dell'unificazione d'Italia . Ma adesso c'è. Ora come ora parlare il dialetto e scrivere poesia in dialetto è una forzatura e reazionaria, un segno di forzatura del Revival linguistico folkloristico di una data area che chiede la sua autonomia, come di chi voglia chiudere la porta in faccia a chi quel dialetto non lo parla, come a imporre l'esclusione di messaggi-codice di quella lingua-cultura a tutti gli altri. Anche si deve sapere che da nessun'altra parte e da nessun altro oltre ai parlanti di quella lingua cultura che si vuole preservare con un'azione celebrativa, come scriverne poesia, quella poesia dialettale sarà apprezzata e celebrata. Ma si sa forse che sarà proprio per questo premiata dalla comunità dei parlanti e da pochi altri fuori di quella, per ragioni teoriche.
Trovo l'uso del dialetto in un contesto di cultura nazionale ozioso e automaticamente prevenuto all'apertura ad una lingua universale, che è quella della poesia. Non bastano le lingue separatorie internazionali, ci si mettono pure i poeti dialettali, che tornano alla barriera , laddove la barriera era stata tolta e superata. Poi come dicevo purtroppo a me i dialetti dell'area lombarda e delle Alpi italiche sembrano particolarmente gutturali e ruvidi, come di una era quando la civiltà di una lingua comune ancora non era stata introdotta.Fatta eccezione per il napoletano e veneziano che sono stati abbastanza forti e coerenti e dominanti nel tempo da secoli a trasportare la loro civiltà tramite il dialetto attraverso il teatro e la poesia. Nemmeno il siciliano pare abbia mai avuto la stessa capacità di attrarre l'attenzione extraregionale: e sapete perché? Perché perfino nel dialetto strettissio, napoletao e sicilianosono comprensibili alle altre lingue italiche (dati i loro porti e le potenze commerciali e marinare). Non lo dico per gusto di oppormi ma per dare anche una visione esterna. Sonia
no, volevo dire "napoletao e veneziano" sono comprensibili.
Di chi è il commento sopra?
Maria Zambrano scrisse:
La verità di ciò che accade nel seno nascosto del tempo, è il silenzio delle vite, e che non si può dire, ma è ciò che non si può dire che bisogna scrivere. Emy
Mi chiedo chi sia l'interlocutore, il testimone di chi scrive in dialetto.
Chi scrive in dialetto sa di parlare a pochi volenterosi, quei pochi che si prendono la briga di leggerlo anche quando non si tratta del dialetto delle loro origini, e ancor più volenterosi se proprio non ne parlano.
Forse qualcuno ritiene che il dialetto sia facile da comprendere, che sia una lingua tanto primitiva da poter essere capita da chiunque? Mi sembra pura illusione. Il milanese è comprensibile ad una minoranza tra i milanesi, idem per il napoletano, perché tra milanesi napoletani son davvero pochi quelli che ne leggono (e ne scrivono). I dialetti sono parlati, appartengono più alla tradizione orale che a quella scritta (naturalmente verrò smentito da qualcuno tra i pochi, appunto). Quindi, se proprio voglio vederci un senso in questa scrittura, un senso ancora attuale voglio dire, dovrebbe stare nel fatto che le poesie in dialetto andrebbero proposte a voce per essere meglio ascoltate e capite. Per essere meglio apprezzate andrebbero lette, da quei pochi appunto.
Quindi, perché parlare, di fatto, per pochi? Per complicità con alcuni, per sgarberia e presunzione verso gli altri? E quanti sono i poeti che riescono ad evitare di farsi parlare dal dialetto quando ne scrivono? Non vengono anch'essi "scritti" da quella lingua?
Assistiamo qui ad un fenomeno davvero curioso: che la lingua cambia la personalità, o quantomeno che linguaggio e personalità sono fortemente collegati. Succede che quando cambi linguaggio cambi personalità. E ciascuno è ovviamente libero di essere ciò che preferisce essere.
Il fenomeno mi sembra interessante perché, evadendo appena un po' dal tema, ad esempio da quando il linguaggio colloquiale ma istituzionale di Monti si è sostituito a quello slogamistico di Berlusconi, c'è il rischio che gli italiani cambino personalità. Mi riferisco alla personalità collettiva, naturalmente ( e so anche che i puristi dell'analisi disdegneranno questo punto di vista, d'altra parte lo disdegnarono anche quando Berl. se li bevve tutti quanti).
Quindi perché scrivere in dialetto?
Capovolgiamo la domanda: perché scrivere in italiano se la lingua che si preferisce è un'altra? Napoli non è più capitale dai tempi dei Borboni, Milano non lo è mai stata e oggi se non parli l'inglese non trovi neanche lavoro. E non fa neanche snob, o solo per le damigelle della famiglia Crespi.
mayoor
Ennio Abate:
- a Emy:
“io quando faccio poesia dialettale non penso assolutamente alla politica”. Infatti, uno - quando parla o scrive - non fa politica pensando di far politica. La fa usando il linguaggio. Scegliendo o non scegliendo aggettivi, lessico, metrica, facciamo - consapevolmente o inconsapevolmente - politica. Diamo la preferenza a un linguaggio colloquiale o popolare o a un linguaggio letterario o dotto o specialistico. Tendiamo all’astrazione o alla concretezza. Un lettore attento e critico, esaminando queste scelte linguistiche, potrà intendere anche quello che lo scritto «non vuol far sapere» e spesso persino quello che il poeta non sa di sé o non vuol proprio sapere. La fede, l’amore, il pensiero saranno la spinta di base, ma se non passano per il linguaggio, produrranno altre cose, non poesie, romanzi, saggi.
- Sonia:
Non capisco come si possa odiare la poesia dialettale di una zona e apprezzare quella di un’altra.
O apprezzare una lingua e odiarne un’altra. Ci sono diversità foniche, sintattiche, ecc. Ma in ogni dialetto o lingua è stata prodotta poesia. Al massimo ci affezioniamo di più a un dialetto o a una lingua perché ci è diventata più familiare di un’altre, che non abbiamo modo di praticare. Perché perlopiù le nostre vite si svolgono in ambiti comunque ristretti (di solito locali o nazionali). Quelli che viaggiano molto per vari motivi e parlano o studiano varie lingue hanno meno pregiudizi. O ne hanno di fortissimi, ma per ragioni indipendenti dalle caratteristiche della lingua. Magari perché hanno subito affronti o violenze. Le gerarchie tra le lingue derivano da ideologie politiche o di classe. Il filosofo Heidegger riteneva che l’unica lingua in cui si potesse pensare filosoficamente era il tedesco. E non per caso era nazista. Lei può preferire soggettivamente il napoletano e il veneziano. Ma la sua preferenza non ha niente di oggettivo né è condivisibile da altri. Le poesie in milanese del Porta a me, che sono di origine meridionale, piacciono. E non vedo neppure una “nobiltà” particolare nella grammatica del napoletano.
[continua]
Ennio Abate [continua]:
@ Mario Mastrangelo
Tu dichiari onestamente la tua esperienza e la tua preferenza per il dialetto, come Emilia. E nessuno ha sollevato ( non io almeno) la questione se il dialetto sia valido per far poesia o meno. O ha detto che col dialetto non si può fare poesia. Spesso se ne fa di più alta di quella in una lingua nazionale. Come nessuno può dire (o ha detto) che la poesia si fa meglio o solo in tedesco o in giapponese o in arabo e non in italiano. Non capisco, invece, perché negli «esiti» poetici da valutare non c’entrino le ideologie. Marin, Guerra, Loi etc., senza necessariamente partire da «premesse ideologiche», hanno l’ideologia nei loro versi come Dante, Foscolo e qualsiasi altro poeta. Individuabile con precisione se li si studia a fondo. Come pure vanno per molti aspetti *oltre le ideologie di partenza* dichiarate o meno. Come accade anche in te che parli di *miracolo della poesia*. Come in me che invece preferisco parlare di *pratiche poetiche* o di *lavoro poetico*.
@ Rita Simonitto
Ecco un caso in cui non c’è privilegiamento del dialetto (materno o paterno che sia) né della lingua nazionale ( gli accenni alle possibilità, magari perse per strada, di scrivere poesia anche in spagnolo o francese). Un idioma diventa *tuo* non solo perché nasci in quell’idioma o esso sarebbe più *autentico* di un altro (dialettto o lingua), ma per scelte di vita e di cultura che si solidificano tanto che esso diventa non solo più strumento esterno, mezzo di comunicazione ma *linguaggio-corpo*, col quale vai avanti nel mondo e ti muovi in mezzo ad altri/e. Però io penso che nelle lingue, oltre a depositarsi culture e esperienze, si siano depositate anche ideologie. Il caso di Heidegger che ho citato prima è un esempio. E le ideologie, come abbiamo visto nella discussione sul “piacere della lettura” sono delle brutte bestie, impalpabile, ambigue (servono ad avvicinarci a o anche allontanarci da…). E penetrano anche nei linguaggi e nei dialetti. E come tu dici giustamente per me, nel caso del dialetto ma anche nel caso di una lingua letteraria vissuta come valore,* il contatto nostalgico con il tempo perduto può diventare una prigione se ci si fossilizza nel rimpianto*. Se io mi attacco al *mio* dialetto o alla *mia* lingua (se io ne parlo da innamorato/a, in senso quasi religioso), - proprio come tu fai notare - diventa più difficile capire che * la realtà sta cambiando così velocemente da non avere alcun linguaggio adeguato a rappresentarla*. Poi uno/a può dire: ma che m’importa della realtà, io bado ai sentimenti che sono eterni etc. A me, invece, la realtà in trasformazione importa e mi occupa e preoccupa.
". E non vedo neppure una “nobiltà” particolare nella grammatica del napoletano."
Beh, Ennio scusa, questo scusa, è un tuo limite.
Stefano
"...la realtà sta cambiando così velocemente da non avere alcun linguaggio adeguato a rappresentarla". Per chi scrive (e non per se stesso o per sfogo o per qualsiasi altra ragione squisitamente privata...) si tratta di una questione ai limiti dell'angoscioso. Trovo che questa osservazione di Rita S. sia una delle poche che varrebbe la pena di approfondire. Ogni volta che mi metto a scrivere (poesia o prosa, non importa) la domanda che mi pongo è proprio questa: qual è il mezzo più adeguato per rappresentare il mio/nostro mondo? Qui e ora. Dialetto o lingua per me il problema non cambia: si tratta di valutare l'adeguatezza del mezzo. Tutto qui.
Ciao!
Flavio
Ok Ennio, passiamo per il linguaggio, facciamo politica, poi i sentimenti, poi la fede e poi ecco la poesia...non riesco a crederci, ma fa lo stesso. Emy
P.s.: mi sento meravigliosamente aliena
Flavio e Rita hanno ragione , l'adeguatezza del mezzo. Ecco perchè il dialetto non deve assolutamente subire modifiche perchè è il contenuto che decide il mezzo.C'è chi scrive in italiano e poi traduce in dialetto , niente di più orribile!Emy
"Flavio e Rita hanno ragione , l'adeguatezza del mezzo", così scrive Emy.
Eppure, almeno per me, non è così semplice, non si tratta di questo. Sarebbe fin troppo facile: ovvero, ci saresti tu (nel tuo rapporto con la realtà interna o esterna che sia), il mezzo (il linguaggio che si dà in scrittura in questo caso, visto che stiamo trattando di linguaggio letterario) e poi, alla fine, ci sarebbe il prodotto poetico.
Fosse così, il cosiddetto mezzo, o strumento, rischierebbe di diventare una mera tecnica, magari raffinata, ma che ha a ben poco a che vedere con l'essenza del poetare (e, anche con l’inconoscibile della realtà).
Purtroppo, e qui sta l'aspetto angosciante che segnala anche Flavio (forse magari lui lo vede anche da un’altra prospettiva), tu sei contemporaneamente sia la realtà (interna o esterna), e sia il mezzo che si incarneranno in quel prodotto là che appare, vagisce e tu non sai 'quanto e se' lo puoi riconoscere. O, come dice anche Ennio, forse anche il poeta non sa se è veramente quello che intendeva dire; e allora ha bisogno di un ‘noi’, dei lettori, altri poeti, i critici, ecc.
E, a volte, capita che non lo riconosci del tutto eppure gli hai voluto bene e così lo tieni. Ma senti che non è sufficiente e così parti alla ricerca, nuovamente; ma non per trovare una presunta *adaequatio rei et intellectus*, e quindi non ci sarà LA lingua perfetta (statica) ma un ‘esserci’ in movimento, ciò che diceva Josè Ortega y Gasset “Yo soy yo y mi circunstancia”.
La domanda che mi assilla e che mi pongo anche rispetto al linguaggio cinematografico.
La caoticità espressa attraverso il ricorso a modelli espressivi sincopati, la frammentazione, lo sguardo che non può posarsi su un oggetto perché immediatamente questo scompare: certamente tutto questo mi può dare la cifra della realtà che stiamo vivendo. Ma questo è già ciò che stiamo vedendo, vivendo, sperimentando. In questo caso il mezzo sembrerebbe adeguato a rappresentare questa realtà. Ma a che cosa serve la descrizione (che ha comunque la sua importanza) se è soltanto una mera fotocopia che satura tutto il pensiero? Saputo questo, che si fa?
Si potrebbe invece ricorrere agli aspetti ludici, che ovviamente sono più insaturi, e quindi giocare un po’ con il linguaggio (anzi, con i linguaggi) per vedere dove esso ci porta e lasciare da parte la presunzione di portarlo dove vogliamo noi? Sarebbe osare troppo?
Rita S.
In una Italia unificata da 150 anni usare il dialetto quando non lo si parla né a casa né a lavoro e nemmeno nelle arti dell'intrattenimento collettivo,appare azione reazionaria e reclusiva: chi parla e capisce un dialetto lombardo di una data area? Pochissimi. Chi legge la poesia? Pochissimi. Fate la somma, e troverete che scrivere poesia dialettale non solo è opera reazionaria di revival regionalistico, ma anche limita il numero di lettori della propria poesia. Il mio commento di oggi, molto più articolato, è scomparso. Sonia
Io non credo che Fabio parli davvero dialetto "a casa". Sono stata mesi a Padova, e nessuno parla dialetto: al massimo dicono qualche frase e fanno qualche battutella. Ma da questo a fare finta che il dialetto sia la lingua espressiva "naturale", ce ne passa. Ad ogni modo, se questo Fabio vole, è libero, no?
E.A. a Sonia:
per la scomparsa del suo commento vale quanto ho scritto nel post COMUNICAZIONE DI SERVIZIO
PER I COMMENTATORI
DEL BLOG
A Rita: quando dicevo "l'adeguatezza del mezzo" mi riferivo alla scrittura dialettale. Per tutto il resto cara Rita, la mia è una grande confusione che riesco a dipanare solo quando in me nasce poesia e poi incomincia l'avventura. Volevo anche dirti che apprezzo molto i tuoi scritti e le tue critiche. "Sarebbe osare troppo" ? Tu dici ed io rispondo no è meraviglioso!!! Spero di leggerti sempre. Emy
A Sonia:
a Venezia i veneziani parlano in dialetto e come!!!!! A Napoli lo senti nell'aria come un profumo ed anche in Sicilia per non parlare della Calbria o dell'Abruzzo. Ascoltalo non solo con l'udito, accettalo,potresti sentirti in un nuovo bellissimo mondo , vedrai ti potresti anche divertire. E' un mio parere naturalmente ma mi sento di darti questi consigli, Ciao Emy
Non intendevo far passare il messaggio che per me la ricerca di un linguaggio "adeguato" sia un puro fatto tecnico. L'adattarsi meccanicisticamente ad una qualsiasi linguaggio perché ritenuto più adeguato dal pensiero corrente o per qualsiasi altra ragione "tecnica", crea, dal mio punto di vista, dei mostri. Credo invece che l'adeguatezza del linguaggio derivi da una profonda comprensione della realtà, comprensione che, bisognerebbe ammettere, può essere più o meno cosciente. Sentirsi immersi nel proprio mondo, nella realtà, come un ciottolo nel fiume...lasciarsi levigare, plasmare, dal flusso della corrente, essere parte di un tutto. La mia personale angoscia scrittoria deriva dalla consapevolezza della mia inadeguatezza rispetto alla comprensione del mio/nostro mondo. Il linguaggio ne è la conseguenza.
Ciao!
Flavio
Vorrei dire qualcosa che mi urge davvero di dire. Ho notato e non solo in questo Blog che a molti il dialetto non piace. Il dialetto sta li come tutte le cose belle di un tempo passato che ancora oggi usiamo od ammiriamo. Non mi preoccupo se a non tutti piace, ma per favore rispettatelo come si rispetta la storia ed i sentimenti di un popolo che che ha vissuto e spesso lottato per la sopravvivenza.
Grazie Emy
Ennio Abate a Sonia:
"Fate la somma, e troverete che scrivere poesia dialettale non solo è opera reazionaria di revival regionalistico, ma anche limita il numero di lettori della propria poesia".
Mi pare che da un'osservazione incontrovertibile (il dialetto ha una circolazione ristretta locale-regionael) arrivi
a una conclusione inaccettabile:"scrivere poesia dialettale [...]è opera reazionaria".
Non è così. Si scrivono infatti opere "reazionarie" in dialetto ma anche in lingue parlate da milioni di persone. Non possiamo attribuire al mezzo ( dialetto o lingua), che - ripeto - pure è carico di storia e di ideologia mai neutra, una maggioe o minore sollecitazione alla conservazione o al cambiamento o alla regressione o all'avanzamento (tutti aspetti che andrebbero analizzati in concreto).
Per analogia e per fare un esempio banale, non è che chi usi la biro o ancora la stilografica scriva necessariamente cose più o meno "reazionarie" di chi usa il PC.
Penso che nella ricerca di un linguaggio adeguato al mutamento che viviamo - tema angoscioso ma decisivo - dei risultati importanti si possano avere anche nella poesia in dialetto (non in tutta, non sempre), quando essa riuscisse a cogliere aspetti della realtà
(nel senso definito da Rita...) che magari non si afferrano più una lingua a larga circolazione.
Insomma, andiamoci piano. Non è così facile stabilire cos'è "reazionario"....
"Non possiamo attribuire al mezzo ( dialetto o lingua), che - ripeto - pure è carico di storia e di ideologia mai neutra, una maggioe o minore sollecitazione alla conservazione o al cambiamento o alla regressione o all'avanzamento (tutti aspetti che andrebbero analizzati in concreto).
Per analogia e per fare un esempio banale, non è che chi usi la biro o ancora la stilografica scriva necessariamente cose più o meno "reazionarie" di chi usa il PC. (Ennio)"
Sì che possiamo invece siccome la forma è il contenuto. Il mezzo è parte fondante dell'operazione ideologica. Scrivere in dialettoha una sua valenza politica, ed è dire: ''voglio sostenere le ragioni locali del dialetto e della gente che lo parla, e della sua cultura.'' Quando si usa un dialetto per principi ideologici e lo si difende, è operazione politica per me conservatrice di valori e identità locale, che appare abbastanza in modo trasparente. Proprio grazie alla sua fisionomia e forma e genere. Sonia
L'uso del dialetto e il suo valore e significato in poesia e nei vari altri ambiti di "comunicazione" assume un significato diverso,cioè più o meno legato alla realtà contemporanea a seconda che venga usato quotidianamente e dagli appartenenti alle classi sociali più diverse.
Diventa allora una lingua che si evolve parallelamente a quella italiana,duttile e alla ricerca di nuovi modi di esprimersi che il mondo che intorno cambia richiede.
Dove invece il dialetto non viene parlato costantemente assume il ruolo del linguaggio della memoria, del ricordo In questo caso la sua evoluzione, il mutamento è un'operazione"a tavolino" che può apparire a volte anche artificiosa.
Nulla vieta però a chi lo conosce bene e lo sente come strumento privilegiato per esprimere emozioni e ricordi o che senta la necessità di ricuperare anche attraverso il linguaggio il legame con le proprie radici di usarlo e da raggiungere esiti felici in poesia.
Maria Maddalena Monti
Parto dalle seguenti riflessioni:
a) Il dialetto non esiste: esistono lingue che hanno avuto letterature meno importanti o letterature soltanto orali, e noi li chiamiamo “dialetti”. Ma io credo invece che Veneto, Friulano, Lombardo, il romancio, ecc. ecc. siano koiné linguistiche ben strutturate, anche se, come spesso capita, ogni paesello ha un dialetto con inflessioni diverse. Solo al mio paese ce ne sono almeno tre: ognuno di noi parla il suo dialetto e tutti si capiscono, senza problemi, ma a nessuno viene in mente di parlare nel dialetto dell’altro. “Dialetto” è una convenzione linguistica imposta dalla lingua ufficiale per differenziarsi in una sua identità. E l’adottiamo per comodità, non certo per convinzione.
b) Quando uno scrive, specie la poesia, pensa in una lingua: se pensa in italiano e traduce in dialetto, fa una contraffazione, non una poesia. Ma lo stesso vale per il contrario. Fabio Franzin, ad esempio, lo capisci leggendo che pensa e parla il dialetto molto più dell’italiano. Ingeneroso mi pare anche l’accusa di “insistere su un operaismo arrabbiato” con testi “un poco datati”: non credo che, nei panni di Fabio, a qualcuno verrebbe in mente di scrivere “letteratura”, tradendo la sua “rabbia”: se ce l’ha dentro, con tutte le ragioni – e ne ha da vendere -, che minchia deve scrivere? E perché lo dovrebbe scrivere in italiano? La collera ti viene molto meglio nella tua lingua, se parli dialetto, non in un pasticcio linguistico. Panetta, che vedo qui elogiato e quindi godo di gloria riflessa, avendolo editato, non scriverebbe testi così belli se dovesse farlo in italiano.
c) Il dialetto (e qui parlo del mio, che se lo scrivo nessuno ci capisce niente, perché ha radici romance, tedesche, lombardo-bergamasche e persino francesi – al di là del latino) ha una infinità di costruzioni lessicali, di espressioni sintetiche, di sottigliezze semantiche che la lingua ufficiale ha perduto, proprio per la sua massificazione. La lingua corre dietro alla storia e cambia con essa. Anche il dialetto, a suo modo, ma con ritmi molto più lenti. Il dialetto è un’altra visione del mondo, prima di tutto, e quindi un altro orizzonte culturale, inedito al di fuori della sua area, che si tramuta, con la comunicazione, in reazione alla visione massificata partendo da radici sue, antichissime che stanno dentro di lui. Oppure ne resta fagocitato (come è capitato a me, che non penso più in dialetto e quindi non scrivo in dialetto, anche se lo potrei fare, e lo farò soltanto se tornerò a pensare in dialetto)e non è detto che sia legato a un sentire più o meno arcaico e condannato alla concretezza, senza possibilità di sottigliezze espressive e persino speculative (anzi!). Nella lingua c’è l’appartenenza, la sedimentazione di secoli che hanno prodotto una visione comune del mondo fra parlanti e un modello comune di pensiero, che poi si evolve ovviamente in modo individuale. Tradire questa appartenenza è tradire la poesia stessa, se si scrive poesia in italiano mentre si pensa in dialetto. Si fa degli esercizi, più o meno autentici, più o meno riusciti, ma è come pretendere che una pizzeria neozelandese competa con una pizzeria napoletana o chiedere a un pasticcere milanese di creare l’autentica Sacher-torte.
d) Scrivere è sempre una decisione “per”, non un calcolo di opportunità. La decisione che muove alcuni fa parte di una poetica. Come ad es. Anna Maria Farabbi, che lo spiega molto bene in “Adlujè”. La decisione stessa fa parte della poetica e come tale non è possibile paragonare la produzione di questa decisione, a quella in lingua. Qui difetto di conoscenza, perché non conosco i testi inseriti nell’antologia, ma rifacendomi all’opera citata, non vedo una contrazione stilistica nel suo scrivere in dialetto. Peraltro, anche la produzione in lingua della Farabbi rivela piuttosto una radice terragna e dialettale. Non vedrei ad esempio la realizzazione della splendida poetica di Giacomo Vit (che peraltro manca in questo elenco, ma non si può, credo, mettere tutto) se non ci fosse questa radice friulana che si allarga, raccolta dopo raccolta, sino ad integrarsi e a divenire fattore di provocazione per la stessa poesia in lingua.
Io non credo che una posizione pro o contro la poesia in dialetto abbia molto senso, per le ragioni che sopra esponevo. Non credo che la scrittura in dialetto tolga qualcosa alla produzione in lingua e sono invece convinto che nella scrittura in lingua di molti autori, a mio avviso i migliori, giochi molto la radice dialettale, ed è per questo che questa radice va conservata e tutelata. Ogni dialetto è una minoranza linguistica, a ben vedere e proprio dalla reazione fra dialetto e massificazione (anche linguistica) possono scattare meccanismi creativi, come nell’ultima raccolta proprio di Ennio Abate, “Immigratorio”, anche questa edita dal sottoscritto, che non starebbe in piedi, a mio avviso, senza i passi dialettali – o comunque avrebbe molto meno impatto.
Vi è da dire che c’è poesia e poesia e, ovviamente, mica perché si scrive in dialetto si scrive buona poesia, ma questa è un’altra storia...
Maria Maddalena e Gianmario, la vostra chiarezza secondo me spazza via ogni dubbio.
Parliamolo ancora un po' questo nostro dialetto, cerchiamolo, sta dentro di noi, come tutto ciò che è passato ma che vuole ancora vivere e non essere dimenticato.I figli , i nipoti che lo ascolteranno, si chiederanno il perchè, ed è un grande,importante, gioioso perchè al quale noi potremo rispondere. Emy
Non so se, e quanto, l’esperienza personale possa entrare in un Blog (sono poco adusa - notare il vezzo terminologico! - a questo mezzo di comunicazione*).
Però pensavo di poter rendere in questo modo il mio intendimento circa la complementarietà necessaria tra il dialetto e lingua; complementarietà dove si mettono in gioco le problematiche legate alla identità e alla appartenenza.
Tempo addietro, mi era stato chiesto, per una rivista in lingua friulana, un articoletto in cui raccontare l’affezione per la mia terra di origine, nonchè gli stimoli che mi avevano spinto a scrivere le mie esperienze in madrelingua.
Subito mi venne in mente (*si parva licet*) Quasimodo, letto ancora da bambina e del quale però, della sua importanza come poeta, poco o nulla conoscevo.
Il mio articolo, dal titolo “Ancje il poesiâ si fâs dûr” (“Anche il poetare si fa duro”) incominciò così:
<>
Traduzione.
Questa poesia del poeta Quasimodo mi era entrata fin da subito dentro il cuore, mescolando assieme piacere e tormento. Tormento che si legava alla cadenza di una musica sottolineata dall’inseguirsi di
vocali (aaa ii aa oooo iii aa iii aaa): tutto dava un senso di arioso ad un lamento di nostalgia.
E la mia terra, come avrei potuto, io, cantarla?
La mia terra
Sopra fiumi strani si appoggia la mia terra,/ fiumare bianche o torrenti spaventati,/ terra di radici e di scorpioni.// Paese di occhi azzurri come l’acqua/ del Torre dopo le burrasche, oppure neri/ come piume magnetiche di corvi.
Eccola qui, dunque. Un corrersi dietro di sibilanti, di consonanti puntute come le rocce, o quel ‘ssst’ delle biave e del frumento, giù nella campagna. O, anche, perché no, quel refolo d’aria che zufolava giù da Crosis andando a sbattere proprio sulla casa di mia zia Lalla, a Zomeais; e forse anche per quello, il pane del suo forno, che lo zio Gigi, suo marito, curava al pari di un bambino era famoso in tutta la zona. E poi, quella briciola di aria, dopo aver scambiato due chiacchiere lì attorno, prendeva la strada di Bulfons fino a raggiungere Tarcento.
......
Come dire che avevo avuto bisogno di sperimentare una identità legata all’appartenenza di un sentire comune (sempre *si parva licet*), veicolato da una lingua comune di appartenenza, per tornare, poi, a riappropriarmi di una identità specifica, legata ad una appartenenza di sangue.
* ad esempio, non potrei tradurre il termine ‘aduso’ in friulano, ma non perché non si possa fare, magari utilizzando un giro di parole, ma perché non esiste questo ‘scherzo linguistico’, che invece in italiano si può fare. E' quindi una ricchezza in più.
Rita S.
Scusate, ma non sono stata in grado di inserire il testo in lingua friulana.
Adesso ci riprovo (va inserito tra 'così' e 'Traduzione':
<>
Che bello Rita che bello... Emy
Scusate se insisto ancora.
Se provate a cliccare col destro su quella specie di occhio enigmatico che appare e poi cliccate su "cerca utilizzando il testo copiato" potrete disporre del testo in friulano.
Come ho già detto, non sono molto pratica con questi marchingegni.
E' che mi sembrava importante leggere in friulano per poter capirne la sonorità.
Sempre
Rita S.
spero che i (nostri) nipoti non parlino MAI i dialetti, ma una lingua universale.
Giorgio Mannacio:
Sulla poesia dialettale.
Esaminando la poesia “ bilingue “ di Emilia Banfi ho dato una mia spiegazione di tipo per così dire antropologico, rinunciando , nei limiti del possibile, a formulare giudizi di valore . Le osservazioni di Linguaglossa e Abate si muovono in altra direzione e pongono alcune domande circa la posizione della poesia dialettale in generale. Sono osservazioni opportune che , in linea generale, mi trovano sostanzialmente d’accordo. Provo a sintetizzare le mie idee.
Quale che sia la natura dell’impulso a scegliere il dialetto, impulso che è fuor di luogo giudicare, io penso che l’adozione di esso non sia “ garanzia di autenticità “ di una esperienza poetica. Entro di essa l’autenticità è un’altra cosa indipendente, entro certi limiti, dal tipo di linguaggio utilizzato.
Sono convinto , però ,che il movimento verso il dialetto si presenti come sempre più marginale e di “ nicchia”. Alcune ragioni di tale affermazione, apodittica in ragione della brevità del mio commento, sono evidenti. Tuttavia l’esperienza dialettale presenta, rispetto all’esperienza poetica in generale, un tratto comune che individuerei nella categoria della “ estraneità “. Il termine, di comodo, indica una specificità della parola poetica senza della quale esse ricadrebbe, senza possibilità di distinzione, nel “ discorso comune”.
Se dicessimo, in via di ipotesi, che il dialetto è il linguaggio “ delle origini” , saremmo tentati ad assimilarlo a quegli esperimenti, decantati o rifiutati a seconda delle scuole, che pretendono di raggiungere, attraverso la poesia, “ la parola originaria “. In questa direzione la “ incomunicabilità relativa “ del dialetto potrebbe essere ascritta a nota di merito anziché di demerito.
Ad ogni modo – parafrasando Fortini – neppure il dialetto può sottrarsi alla verifica dei suoi poteri Sotto questo profilo la legittimità del dialetto mi appare debole perché non rappresenta più, non può rappresentare più ( le ragioni, ancora una volta sono evidenti ) quella massa compatta economico/sociale/politica/culturale entro la quale maturarono le grandi esperienze di poesia dialettale italiana ( Porta e, ancor più Belli che parlava appunto nel linguaggio de Roma ).
Sembra che la specificità del dialetti sia relegata ad una dimensione meramente o prevalentemente territoriale, sia , cioè, di tipo per così dire localistico. Ovviamente questa notazione lascia in piedi la questione fondamentale se tale dimensione sia compatibile con una più importante funzione della poesia, funzione ancora da definire.
Il discorso sul dialetto ci serve comunque- e prescindendo sulle ragioni dell’opzione a favore
di esso – a rimeditare sulla necessità o meno che il linguaggio poetico abbia una certa specificità.
E di quale natura essa sia. Se la parola poetica è anche artificio, bisogna chiedersi se la poesia sia , possa essere tanto artificiosa da prescindere da una certa dose di “ essenza comune “ che il dialetto pare non assicurare a sufficienza.
A Giorgio Mannacio:
Certamente la poesia dialettale non assicura "l'essenza comune" ma sicuramente accomuna. E' una strada che riunisce non unisce . Ognuno racconta la sua storia che piaccia o no non fa differenza , la poesia che la sostiene porterà ad ognuno di noi il suo contributo.Ciao Emy
Ennio Abate:
Ennio Abate:
Locale/nazionale/ internazionale (oggi:mondiale/globale). Questo è il ventaglio delle dimensioni in cui si distribuisce l’umanità su questo pianeta. Essa vive e si riproduce, oscillando tra guerra e pace (lascio che ciascuno scelga quale prevalga), in società diversificate, ma anche gerarchizzate economicamente, culturalmente, politicamente e -non dimentichiamolo -militarmente. E le lingue e i dialetti sono gli strumenti (orali,scritti) ancora prevalenti, che permettono a quest’umanità di esprimere emozioni, informazioni sul mondo percepito/conosciuto, di comunicare influenzandosi in vari modi ( dal dialogo alla propaganda menzognera, alla conversazione razionale), di riflettere dello stesso linguaggio che usa quotidianamente o di curarne particolarmente la forma (funzione poetica). Tutto questo parlare o scrivere avviene però entro *rapporti sociali determinati* dalla storia avvenuta finora. Questi rapporti non sono affatto liberi nè paritari. E le stesse lingue che usiamo (nelle loro strutture, nel lessico, ecc.) portano le tracce di tali diseguaglianze. Né tali rapporti sono fluidi. Né i linguaggi lo sono. Da come uno parla si capisce dove si colloca ( in alto, in basso, in mezzo) in questi rapporti sociali. Né i linguaggi come acque di vari fiumi alla fine si mescolano nell’oceano di una *lingua universale* dell’umanità. Questo antico mito “comunistico”, già contrastato dalla punizione divina che avrebbe colpito i costruttori della Torre di Babele, resta solo un sogno affascinante. Fu ripreso, ad es. quando le spinte internazionaliste sembrarono inarrestabili e alcuni utopisti (trovo in Wikipedia: tra il 1872 e il 1887 l'oftalmologo polacco Ludwik Lejzer Zamenhof) tentarono una sua anticipazione artificiale con l’invenzione dell’esperanto. Oggi questo sogno neppure viene sognato. Credo che ci dibattiamo in una crisi: tra “ritorni alle radici” o alle “piccole patrie” (e qui in Italia l’uso leghista - nordista-sudista - ha un peso, anche se Emy se ne disinteressa e i rischi di chiusure identitarie sottolineati da Sonia mi paiono reali) o un “cosmopolitismo-nomadismo globalistico” più sognato che praticato e sostanzialmente ancorato all’area “imperiale” anglo-americana.
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Ennio Abate [continua]:
Delineata questa approssimativa cornice generale, a me pare che la discussione che stiamo facendo si muovasu due livelli separati che andrebbero quantomeno accostati per capire i veri problemi in gioco: quello pragmatico-politico e quello poetico. A Gianmario Lucini e a Maria Maddalena Monti obietterei che i dialetti restano pragmaticamente e politicamente limitati e indeboliti, anche se ancora parlati e alcuni - ammettiamolo pure - in via di evoluzione parallelamente all’italiano e anche quando fossero - spetta agli studiosi dirlo -* koiné linguistiche ben strutturate* e permettono di capirsi (se dialetti *parenti*). Ma non possiamo trascurare il fatto storico che essi sono stati messi ai margini dalla lingua nazionale, come “inferiori” o “secondari” o “subordinati”. La storia italiana post-risorgimentale è andata così. Ha vinto Manzoni non Ascoli: i dialetti sono stati censurati e la lingua nazionale è stata *istituzionalmente* imposta nella scuola (per le classi dirigenti all’inzio e poi anche per le “popolari”). La scuola di massa, la radio, la TV poi hanno fatto il resto, lavorando sodo per un “italiano standard”. Ora questo predominio delle lingue nazionali non è una semplice convenzione aggirabile. Sì, la possiamo adottare *per comodità, non certo per convinzione*. Ma la Norma è che nella vita pubblica resta il predominio della lingua nazionale e quella viene riconosciuta (tranne i tentativi leghisti di “padanizzare” simbolicamente certe zone). La norma possiamo anche trasgredirla, ma la trasgressione (individuale, di minoranze) resta tale, se non si fa rivoluzione e non arriva a stabilire una nuova norma. Non si scappa. Anche questa discussione sta avvenendo in italiano. Se la volessimo condurre ciascuno nei propri dialetti d’origine sarebbe un casino. Se poi, sempre su questo piano pragmatico-politico, osserviamo gli effetti pesanti della mondializazione, vediamo che certe lingue nazionali non solo sono state infiltrate da - o hanno adottato o si son fatte prestare in vari tempi - termini di altre lingue predominanti (per l’italiano: francesismi, spagnolismi, anglismi, ecc.), ma sono minacciate sempre più nella loro autonomia o sovranità (e quesnto avviene anche per l’economia, la politica, la cultura) producendo reazioni che non si sa come si svilupperanno. La mondializzazione produce anche zone ristrette e privilegiate di unificazione in certi ambiti rilevanti economicamente e politicamente: gli scambi tra ricercatori scientifici, ad es., avvengono in inglese, che assolve la funzione che aveva il latino nell’Europa dei dotti durante il Medioevo.
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Ennio Abate [continua]:
Ora di tutto questo un poeta può disinteressarsi e rivendicare il valore poetico del dialetto. Lo hanno fatto qui Emilia Banfi, Mario Mastrangelo, Maria Maddalena Monti e Gianmario Lucini. Con alcune precisazioni sono d’accordo io pure nel riconoscere il valore poetico del dialetto. E lo è - credo di poter dire - anche Rita Simonitto. Ma queste precisazioni non sono di poco conto. Provo ad elencarle per vedere se possiamo intenderci:
1. il dialetto ha o può avere una funzione poetica (alla Jakobson) pari a quella della lingua (nazionale); in parole più povere, a livello di risultati (sempre discutibili, mai definitivi, ecc.) c’è grande poesia in dialetto e c’è grande poesia nelle lingue nazionali; non è che il dialetto sia più *nobile* ( e rispondo a Stefano, che mi ha fatto una battuta, ma non l’ha argomentata) o sia meno *nobile* di una lingua nazionale; è il risultato poetico che conta; e gli esempi a favore del dialetto non mancano e son ostati fatti; e su un piano estetico (suoni, musicalità) anche un mezzo più limitato come il dialetto (lessicalmente ad es.) può risultare altrettanto bello o addirittura più efficace e diretto di un mezzo più vario o complesso;
2. il dialetto permette di nominare e rappresentare poeticamente una sfera di esperienze emotive (amore, morte, odio, rapporto con la natura o con gli altri, memoria, ecc.), ma meno (molto meno) la sfera delle esperienze intellettive e razionali - costruttive e distruttive (potrei dire anche: sempre più distruttive) che con la modernizzazione borghese-capitalistica si sono imposte e si vanno imponendo in una vasta area del pianeta; il dialetto è uno strumento pari alla lingua (nazionale) per fare *poesia lirica*; va bene come *linguaggio della memoria* (con la precisazione che, se si tratta di memoria dell’infanzia, questa possibilità di un linguaggio di memoria in dialetto da noi non vale, o molto meno, per i toscani); va bene per esprimere la “rabbia” (Gianmario a proposito di Franzin); ma - e questo viene trascurato o osteggiato dagli “innamorati del dialetto” - ci sono memorie, rabbie, sentimenti d’amore o di odio più complicati, impastatisi con idee, filosofie, concetti scientifici, lessici specialistici o sperimentati in situazioni inedite ( le guerre mondiali, la vita nelle grandi metropoli, le nevrosi psicosi o follie legate al lavoro industriale, i dibattiti teorici o politici dei grandi movimenti di rivolta che si sono sviluppati sempre a partire dalle città, ecc.); e qui i poeti dialettali hanno dato meno dei poeti in lingua; non mi pare che ci siano poemi in dialetto che esplorino le suddette esperienze.
[Continua 3]
Ennio Abate [continua]:
Conclusione provvisoria e parziale. Secondo me non è buona cosa separare fino all’indifferenza reciproca i problemi della poesia dialettale (e in lingua) dai problemi pragmatico-politici a cui ho accennato. E qui ricompare il problema posto, forse in modo troppo unilaterale e drastico, da Sonia. Anche per me *scrivere in dialetto ha una sua valenza politica*, ma non necessariamente negativa (regressiva, reazionaria, leghista). Può esserci un positivo intento conservatore. Come si conservano certi monumenti dalla corrosione del tempo e della storia, si possono conservare i dialetti (io ho usato il termine *reliquia* forse troppo religioso, ma in questo caso c’è proprio il legame - io penso della propria storia - che non si vuol perdere e il termine mi pare giustificato). Ma dev’essere chiaro che di reliquie o di monumenti (magari vivi, parlanti) si tratta. Invece può anche essersi affermata, per ragioni politiche esterne e complicate - un’ideologia localistica miope. Essa esalta il dialetto come *autenticità* o *purezza* incontaminata. E in nome di questa dubbia autenticità/purezza non vuol vedere o non vede i mutamenti comunque avvenuti. Né capisce che resistere a una minaccia di morte o di emarginazione è cosa legittima, ma non vedere gli altri e chiudersi a riccio è impossibile, perdente e paranoico. Certo, come dice Emy, il dialetto * è passato che vuole ancora vivere e non essere dimenticato*, ma i parlanti in dialetto o i poeti dialettali non possono pretendere di cancellare la storia o disinteressarsene. Non possono non sapere o far finta di non sapere che dalla metà del Settecento in poi il capitalismo ha praticamente imposto che il cambiamento non deve guardare in faccia nessuno e deve essere necessariamente distruttivo. E questo capitalismo, che doveva essere sconfitto uasi automaticamente dal vero Progresso (socialista-comunista), ha operato ed opera tuttora rivoluzionamenti dall’alto estremamente distruttivi, fino alla guerra vera e propria. Che i dialettali vogliono difendere i loro dialetti o la loro poesia dialettale mi va bene. Che lo vogliano o possano fare senza capire quanto sia potente e indifferente alle particolarità e alle differenze (anche linguistiche) il Nemico vero ( e non solo dei dialetti), che non solo ha già disgregato o emarginato le comunità dei parlanti in dialetto, ma sta operando allo stesso modo anche con quelle nazionali, è il segno di una cecità politica per me inaccettabile.
[Fine]
Assai stimolante la discussione. Ennio giustamente osserva che pochi poeti dialettali hanno praticato la poesia civile.
Quali le ragioni? Mi pare che Ennio propenda per una minore adeguatezza dei dialetti ad esprimere in poesia concetti razionali, lessici specialistici,analisi storiche e sociologiche.
Può essere, anche se il dialetto è plasmabile in tutte le direzioni, anche in quelle della rilessione astratta, della speculazione filosofica o teologica. Penso che volendo fare poesia di impegno civile saprebbe trovare il modo di superare queste strettoie.
E se invece l'uso del dialetto fosse un modo nuovo e diverso di avvicinarsi alle cose, anche a quelle di carattere sociale e politico? Di parlare - complice un lessico limitato - del mondo e dei suoi guasti, anche in "situazioni inedite", con gli slanci di una meditazione interiore che interiore non è, con la sua sapienzialità, anche popolaresca (vedi G.G.Belli), senza impegolarsi nella caducità del contingente. Insomma la poesia in dialetto lavora, secondo me, un altro legno per fabbricare un altro oggetto che - se è vera poesia e non filastrocca - guarda ugualmente alle realtà del mondo, forse da un'altra angolazione.
Mario Mastrangelo
"Assai stimolante la discussione. Ennio giustamente osserva che pochi poeti dialettali hanno praticato la poesia civile.
Quali le ragioni? "
No, non è da chiedersi "quali le ragioni" , ma anzi da chiedere ad Ennio chi siano ''esattamente'' i poeti dialettali che "non hanno praticato la poesia civile" e chi invece sono i poeti dialettali "che hanno praticato la poesia civile" _ Senza questo dato/questi dati, non è possibile fare nessuna affermazione, e trarre nessuna deduzione, tranne che aleatoria/e.
Sonia
**** Ma se siete "pirati", come lo siete, evidentemente, praticando . come fate, il solo impegno di essere "pirati", che pure è nobile missione, perché, chiedo, e aspetto risposta nel dibattito, vi fingete poeti, e per di più civili???
Cosa c'è di tanto riprovevole ad essere pirati, e ad ammetterlo, essendo voi tali?
Uhm... mi meraviglio che nessuno abbia qui interrogato la questione, nominando pasolini, e la poesia in dialetto friulano, come poesia civile, anche quando parla d'altro, perchè la scelta è politica, ed anche in pasolini re-azionaria, da revival intellettuale del mito della landa e della lingua delle origini. A cosa servì quell0'suo, nel suo caso, nemmeno è stato qui interrogato, come dilemma (ANONIMO)
nel senso che Ennio pone la questione "Pasolini" ma Linguaglossa non risponde.
Ennio Abate:
Preciso che la mia (sui limiti del dialetto) è una ipotesi. Va trattata come tale. E le ipotesi possono essere confermate o smentite. Non sono uno studioso di poesia dialettale; e non sarei in grado di soddisfare la richiesta di Sonia (tra l'altro molto più drastica di me nelle sue affermazioni sulla poesia in dialetto).
Preciso pure - per Mario - che non ho usato il termine 'poesia civile. Ho scritto, infatti:
"ci sono memorie, rabbie, sentimenti d’amore o di odio più complicati, impastatisi con idee, filosofie, concetti scientifici, lessici specialistici o sperimentati in situazioni inedite ( le guerre mondiali, la vita nelle grandi metropoli, le nevrosi psicosi o follie legate al lavoro industriale, i dibattiti teorici o politici dei grandi movimenti di rivolta che si sono sviluppati sempre a partire dalle città, ecc.); e qui i poeti dialettali hanno dato meno dei poeti in lingua; non mi pare che ci siano poemi in dialetto che esplorino le suddette esperienze".
Sempre per ragionare anche ricorrendo a semplificazioni, mi dico: se teniamo conto della suggestiva formula pasoliniana della "mutazione antropologica", possiamo dire che le esperienze (complessive) possibili in epoca moderna o ora “postmoderna” (almeno per una parte dell’umanità) sono altra cosa (attenuiamo: abbastanza diverse) da quelle che furono possibili in epoche premoderne o mitiche. Se n’era accorto un poeta sensibilissimo come Leopardi, che pur affascinato dagli antichi, all’antico sapeva che non si poteva più tornare. Ora a me pare che in genere i poeti dialettali si muovano entro una sensibilità “premoderna” e diffidano o neppure vogliono guardare in faccia il “mondo” (niente affatto più bello, poco armonioso e caotico) che si è andato affermando col moderno e - se volete - con la sua involuzione postmoderna. E' questa mutazione che essi non hanno vissuto, forse non vogliono vivere e, perciò, forse non possono neppure esprimere. Se si convincessero a guardare in faccia questo “nuovo” (ma anche tremendo) mondo, si accorgerebbero anche che il dialetto non ce la fa, non li aiuta, resta inerte, non scava, non afferra.
Il caso del Belli mi pare confermi quanto dico:
quella "sapienzalità popolaresca", anche quando critica i Potenti, è tutta, a me pare.
nella dimensione premoderna.
P.s.
Mi sono ricordato che nel 2009 abbiamo discusso sia di poesia in dialetto che della poesia del Belli in uno scambio di mail tra partecipanti al Lab. Moltinpoesia. È una prova di quanto questi temi sono sentiti ed è bene riprendere quelle riflessioni. Nei prossimi giorni sistemerò quel carteggio che ci fu tra alcuni di noi e ne farò un post.
Ad Ennio:
tu parli di involuzione postmoderna, ma anche quei tempi premoderni , almeno quelli dei miei nonni e forse in parte anche quelli dei mie genitori, non erano affatto meglio dei nostri: Guerre , malattie, ingiustizie, dittature . La metropolitana la prendiamo ogni giorno, grazie a dio ed è veloce! L'industria ha fornito milioni di posto di lavoro, compreso il mio, i dibattiti politici e le rivolte ci sono sempre state. Il dialetto ora non si parla più, perchè la cultura scolastica così ha voluto è diventata un lingua legata alla civiltà contadina, ma in tante regioni si parla ancora. La poesia dialettale , che ripeto può essere considerata davvero grande e molto simbolica solo quando è sostenuta dalla poesia, anzi direi che il dialetto stesso è poesia. Non me ne vogliano coloro che stanno a mille miglia lontano dal mio modo di intendere poesia. Emy
@ la questione Pasolini
credo che occorra sfatare (una volta per tutte) la questione della super valutazione delle poesie in friulano di Pasolini... è bene dirlo con la maxima franchezza: si tratta di belle cartoline colorate con l'impiego dei colori e dei sapori del dialetto friulano. Il fatto che le poesie in friulano di Pasolini abbiano sucitato l'attenzione e la stima di Contini non significa che dobbiamo nutrire verso quelle poesie una specie di iconodulia: si tratta di modesti quadretti poetici in stile impressionistico rurale.
E chiudo qui il discorso. Altra cosa sono "Le ceneri di Gramsci" (1954), che invece rappresentano una grande novità per la poesia italiana di quegli anni, soprattutto il ritorno ad una poesia-ragionamento che innova profondamente il concetto asfittico che di questo genere si aveva negli anni Cinquanta.
A me sembrerebbe pacifico che, rispetto alla poesia in Lingua di Pasolini, quella in dialetto friulano sia veramente una cosa secondaria e del tutto trascurabile.
Insomma, voglio dire, per semplificare, che la poesia in dialetto del secondo Novecento sia cosa del tutto diversa dalla poesia in dialetto della prima metà del Novecento. Di mezzo c'è la rivoluzione industriale e la televisione che ha cambiato le carte sulla tavola dei giochi e che ha fatto della poesia in dialetto una dependance, una camera secondaria, della poesia in Lingua.
Giorgio Linguaglossa
A Giorgio Linguaglossa:
Per la tutta la poesia varrebbe il suo discorso...ma tristemente non mi arrendo. Emilia Banfi
Politicamente, signor Linguaglossa, come colloca qualsiasi operazione sul dialetto, in poesia, data la, ormai, centenaria Unificazione di Italia?
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