La selezione di poesie che ho fatto dal libro di Lorenzo Pezzato dovrebbe dare un'idea dell'oscillazione, a mio parere irrisolta, di un giovane poeta (Lorenzo è del 1973) tra modelli vagheggiati (le avanguardie artistiche del primo Novecento a cui nei suoi versi accenna) e volontà di stare in questo nostro tempo per ora di crisi piatta e senza sussulti, in cui anche a lui tocca crescere. "Scapigliato fogliame agitato/ da veloci venti futuristi" è, al presente, solo una pianta (il noce) evocata nei suoi versi, non la gioventù a lui coetanea. Le sue poesie mi paiono la registrazione fredda degli umori, delle irritazioni e degli sgomenti (anche familiari) di un giovane alle prese, come tanti, con la gabbia (dorata? postmoderna? addirittura liquida?) e per ora senza uscite in cui tutti siamo. Rafforzata ancor più dall'uso capitalistico delle nuove tecnologie e dalle sue dinamiche imprenditoriali. Il poeta (fossile di altri tempi?), per il lavoro "non poetico" che gli tocca fare per vivere e che pur lo porta in contatto quotidiano con "cento persone diverse", fronteggia l'insensatezza (una volta si diceva l'alienazione) della società (capitalistica) tenuta sotto controllo da potenze sempre più innominate o indecifrabili. E Pezzato reagisce con gli strumenti di pensiero e linguaggio di cui dispone, continuamente istigato dall'esterno a "riempire il vuoto con altro vuoto". Ne risente anche la sua poesia. Che non ha più Tradizione affidabile a cui ancorarsi (ci sono in questi versi solo alcuni echi distorti e dolenti e inerti di un immaginario religioso più o meno biblico e una volta potente: "maledirai la madre bestemmierai il padre per la
croce". Ho aggiunto alla fine delle poesie due brani dell'introduzione di Giorgio Linguaglossa a questa raccolta. Il critico romano insiste sulla "marginalità linguistica e stilistica" della ricerca di Pezzato e di altri giovani. Epigoni vecchi con lo sguardo volto al passato (il solito angelo di Benjamin...) noi? E smarriti, testardi, solitari esodanti loro? Un problema spinoso da trattare a parte. [E.A.]
La parabola dei talenti
Scagliano versi con fionde rudimentali
come ciottoli da tavole di legge frantumate
nel passaggio al nuovo millennio,
i contemporanei poeti a corta gittata
stelle filanti
talenti in parabola discendente.
Odio l’estate
Odio l’estate la calura il frinire
la funesta eccitazione di cicale antropomorfe
e io formica non mi do pace travaglio immagazzino
prego perché presto giunga l’autunno
a riportar malinconia.
Natura ed ex avanguardie
Con gusto Dada cresce il noce
che vedo dallo studio, intrico di rami
contorti trionfo di frutti immaturi
scapigliato fogliame agitato
da veloci venti futuristi.
Picasso ritrae Serena
Cigno occhio
collo lungo sbaffo
di pennellata occhio chioma
ramata fusto fuscello mosso
ancheggio attraente quadrati
sfumati tratti somatici
scomposti tridimensionali
apprezzano dettagli migliori
bellezza a bagliori flash
scotch aggiustare forme
fiore petali cangianti sfondo
contorno di figura sentimenti
silente eruzione effusiva.
lorenzopezzato@gmail.com
Contatti umani
nella rubrica, amici
lontani o s-conosciuti
epistolari muti virtuali
frammenti di conversazioni
rimaste in sospeso relazioni
a tempo determinato che a volte
ho segnalato come “importanti”.
Social networks (e motori di ricerca)
Ti guardo non te ne accorgi
non puoi sono invisibile
traccia labile confusa tra milioni
di connessioni alla rete
dove raccolgo brandelli
delle tue giornate delle ore
che mi sono negate vicino a te
e immagino a piacimento
le parti che mancano, illusioni
che completano il puzzle l’idea
della tua presenza suggerita da Google.
non puoi sono invisibile
traccia labile confusa tra milioni
di connessioni alla rete
dove raccolgo brandelli
delle tue giornate delle ore
che mi sono negate vicino a te
e immagino a piacimento
le parti che mancano, illusioni
che completano il puzzle l’idea
della tua presenza suggerita da Google.
Fantacomunicazione
Dai, chiamami spiazzami sorprendimi ti prego
sono qui di fianco al cellulare lo fisso intensamente
magari lo stai facendo pure tu
lo tieni nelle mani sudate
tremi d’impazienza d’indecisione
maledizione ai cellulari da fisso a fisso forse potrei trovarti
seguendo il filo invece non so dove sei
se non chiami perché sei in piscina
perché hai finito la batteria
perché vuoi evitarmi
o perché esisti solo nella mia fantasia.
Paninari (poco è cambiato)
Mangiavo pane e penitenza già quando
al parco giochi delle prime poppate
ai vagiti gioiosi della prima ora
eravamo avvezzi, piccoli compagni di giornate frivole
alla vineria o in paninoteca alla piastra con salsa rosa
ai verdi tavoli da biliardo e da calcetto alle sciate dopo la
[ neve
copiosa come i denari caduti a pioggia sopra le teste
[ pettinate
come i denari in mostra sulle copertine di riviste patinate
che ci hanno abbagliato accecato di panorami vertiginosi
quanto curve in auto sportiva o in donna spogliata
di averi da comprare indossare di mode da cambiare
di righe da sniffare con protesi plastiche alla francese
pizzicore leggera anestesia dell’arcata dentale
canini pronti allo shopping sociale
per avere amicizie a credito altrimenti irraggiungibili
sharing some drinks at Bar Centrale, seven thirty pm.
Emo a passeggio
Risucchiati in pantaloni pneumatici sfilano
- eterei efebici marciano compatti dinoccolati
asimmetrici di fronte sguardi sottolineati di nero
adolescenze sottolineate due volte bivalenze
di genere lei-lui lui-lei scompaiono - mentre
chiacchierano forsennatamente al cellulare.
Mi cancello dalla mailing-list
Non invitatemi più alle feste
alle cene con trombette champagne e cappellini
non voglio festeggiare un compleanno ricordare un giorno
[ speciale
non voglio soffiare spuma di birra dal boccale
ascoltare voci aliene perché alieni siete diventati tutti,
[ amici miei
o forse sono io ad aver lasciato il mondo della ragione
e delle sicurezze preferisco la confusione
galoppare alla ricerca del mio senno dissennato
tra parole e donne tra bicchieri e pagine tra campi di
grano
imbiondito maturo come le occasioni da cogliere non
[ invitatemi più
ve lo chiedo implorando clemenza, pazienza farò ciò che
[ volete
lasciatemi in pace anche se in pace non sarò ma in pena
[ costante
in ricerca del niente di nessuno e di tutto.
Percezione globale
Abitare le grotte cibarsi di bacche
aumentare a dismisura la distanza
dalla massa è puro esercizio
- eremita - ormai il mondo
sta tutto nella testa.
Il dolore
Figlio mio
tutto questo un giorno sarà tuo
maledirai la madre bestemmierai il padre per la croce
cui il gesto candido ti ha inchiodato
ma durerà tre giorni appena
risorgerai a nuova comprensione e sarà luce
sarà vita vera.
Quando c’è troppa offerta
C’è un dio per ogni cosa di questo mondo in vetrina
alcuni sono in multiproprietà altri on-demand
qualcuno infilato nella borsa biodegradabile
dalla cassiera all’ipermercato
oppure ne ho visti a muso lungo
in attesa massmediatica per un po’ d’idolatria.
Ritratto di famiglia
Una rana grassoccia staziona
sul confortevole divano nella mano
il controllo remoto dello schermo
piatto l’umido l’alito fetido
il gracidare chiassoso di sottofondo
inedia di contorno nella pancia
indolenza da digerire poltrire
negli spazi assolati negli scantinati
bui ma molto frequentati da corpi
di serpi in seno di amici morti
amicizie mai nate in nottate
folli, tra i banchi di scuola
o al patronato.
Ecco questi siamo noi
la mia generazione (X)
zero eroi mero esistere
in funzione a, in caso di
eppure di qualcuno siamo figli.
A fine giornata
Una doccia
per togliere di dosso
le identità di oggi
le cento persone diverse
che hanno abitato
lo stesso involucro
tutte trovandoci un’abissale
mancanza di senso.
Ninna nanna (per adulti)
Mi sono spaventato stanotte
per un attimo ho visto il futuro
ho pensato ad occhi chiusi
ma sono andato troppo avanti
che tutto sembrava già finito
non albeggiava più nel cielo
neanche un desiderio minuscolo
rimasto non un sogno
nel cassetto o un imprevisto.
Sono corso come un pazzo
felino agile e silenzioso
giù per le scale fremente
fino alla camera di mio figlio
apparentemente ogni cosa in ordine
lui era lì nel solito lettino
dove solo un bambino ci può stare
però non mi sono fidato dell’apparenza
ho alzato la coperta per vedere
non fosse rannicchiato cresciuto all’improvviso
moltiplicato i quattro anni
invece no era ancora piccolo
così come lo avevo lasciato
solo qualche ora prima. Impossibile
descrivere il sollievo, l’ho raccolto
dolcemente e nel mio letto
non abbiamo avuto più paura
della notte.
Vuoto
Sono rinchiuso ma nessuno è lì fuori a braccarmi
nessuna folla tumulta per linciarmi
fuggo dalla possibilità di uscire e non trovarti
dalla tentazione di riempire il vuoto con altro vuoto.
Dall'introduzione di Giorgio Linguaglossa, La fine del Novecento è l’inizio di che cosa?
Lorenzo Pezzato impiega l’arma dell’ironia, fa le capriole, assume pose
attoriali, celebra cerimonie, prende possesso del palcoscenico come
d’un artificio, d’una messinscena. Il divertimento del poeta desublimato
corrisponde alla irriverenza con cui tratta il proprio materiale poetico;
l’entrata in gioco (ovvero, l’entrata in scena) è anche la presa
di possesso d’un materiale poetico povero, automatizzato, sclerotizzato,
socialdemocraticamente complicato da rime, contro rime e anti rime,
assonanze interne (ed esterne) dove è possibile perfino registrare il
«gioco» tra presenza (dell’orecchio) e assenza (dell’occhio), squisita
mistificazione del poeta di corte.
Ne esce l’istantanea composita di un «mondo in vetrina», un mondo
che è la rappresentazione dell’eterna commedia italiana di palazzeschiana
memoria, il ribaltamento dei piani e dei valori in dis-valori che il
villaggio globale ha riscritto e risistemato, la giaculatoria nei confronti
del «nuovo»: « Tutti i giorni mi umilio allo specchio / tutti i giorni mi
umilio leggendo i versi di ieri / scaduti da ventiquattr’ore», sono gli
internazionali. Scrivo un verso in italiano e so di scrivere in una lingua morta,
in un dialetto agonizzante; scrivo invece queste righe traducibili in qualsiasi
congresso con prenotazione alberghiera, presidenza e microfoni, e so di star
scrivendo una specie di latino, nella lingua della clericatura. La dolce e infame
anarchia del ghetto fa fiore e muffa per entro il Sacro Capitalistico Impero.
indizi del lutto che la società del villaggio globale annunzia: gli oggetti
scaduti (tra cui anche la poesia di ieri), l’amore di coppia, il sublime (e
l’anti sublime) della tragicommedia dell’«io» moderno.
Mentre l’eterna Arcadia italica si esprime «nella lingua della clericatura
», nella lingua di uso pragmatico (sempre più periferica e marginale)
suonando con il plettro delle viandanze turistiche, la migliore poesia
dei giovani dell’ultima generazione sceglie di esprimersi nell’idioma
della propria marginalità assoluta, marginalità linguistica e stilistica
che è stata scacciata dai circuiti della produzione-consumo (quel coacervo
di superconformismo di una sottoclericatura destinata al servizio
di corte): la marginalità della merce riciclata e riutilizzata dell’epoca
della stagnazione stilistica. [...]Lorenzo Pezzato è legittimo rappresentante della «poesia degli anni
Dieci» scaturente da una generazione cresciuta nella democrazia della
stagnazione ma è troppo intelligente per non accorgersi che quella generazione
«eclissata» perché economicamente invalida e culturalmente
improvvida è anche la generazione della stagnazione stilistica, morale e
politica. Si tratta della prima generazione in crisi di identità – in quanto
figlia prima del benessere poi dalla crisi economica – che affronta un
tempo denso di contraddizioni e di mutamenti repentini, di evoluzione
sociale galoppante di cui non riesce a tenere il passo, che stenta a
trovare una qualunque direzione e annaspa in un oceano di apatia e
indolenza.
La poesia «degli anni Dieci» adotta qui il binario del surrogato della
«Comunicazione», un equilibrismo tra lirica e prosa civile, andando
a sottrarre alla poesia la maggior parte della sua potenza di astrazione,
finendo vicina a diventare una sub componente gergale della «Comunicazione
», poesia nutrita con i surrogati e i succhi gastrici della «Comunicazione
».
Non c’è dubbio che la «nuova poesia degli anni Dieci» debba trarre
linfa e forza dal vuoto che la circonda, dal quasi nulla a disposizione e
da quello cerchi la ripartenza, cerchi di distillare il proprio linguaggio,
il proprio modo e il proprio messaggio.
È d’altronde lo stesso Pezzato che tratteggia una poetica per la poesia
a venire, una poesia intelligibile, diretta e scheletrica nella forma ma
comunque attenta all’estetica dei suoni e dei ritmi (quasi in antitesi
al concetto «classico»), che usa il linguaggio stringato e minimale
del XXI° secolo, che propone temi di stretta attualità perché la poesia
possa servire a «decifrare» anche il mondo moderno nell’immediatezza
della sua rappresentazione, che utilizza l’Io ipertrofico – caratteristica
tipica della nostra contemporaneità occidentale – come centro di
gravità. Un tratteggiare su tabula rasa che si presenta arrogantemente
come abbecedario poetico, come simbolico punto di partenza per la
nuova poetica, come si intuisce incontrando i due “esercizi da sussidiario”
(con la c e con la s).
Il poeta combatte con le armi convenzionali e tradizionali dentro una
forma-interna invece molto «in avanti», come il cavallo «in avanti»
che si appoggia sul morso tenendo in tensione le briglie per sottrarsi al
loro controllo, scattando perennemente.
Dunque, la «poesia degli anni Dieci», appare impegnata nella costruzione
di un discorso poetico fondato sulla interrogazione dell’«inautenticità
». E qui sorge un problema: è ancora possibile il discorso poetico
fondato sull’«inautenticità»? È ancora possibile porre la questione di:
quale poetica? Delle poetiche fondate sulla giustificazione del proposizionalismo
come avveniva nel tardo Novecento? Si tratta di scegliere:
quale proposizionalismo? Si tratta di scegliere: a) un discorso poetico
che si regga sulla semplice giustificazione estetica delle proposizioni,
che le incatena le une alle altre secondo la gerarchia stabilita dalla
«funzione» poetica? b) o si tratta invece di fondare il discorso poetico
non più sul giustificazionismo estetico e proposizionalistico di tipo tardo
novecentesco ma sulla interrogazione dell’«inautenticità»?
Pezzato pone all’ordine del giorno la questione dell’«inautenticità»;
con ciò traduce e ripianta su nuove basi il concetto di «autenticità»,
un modo strategico per introdurre «surrettiziamente» la questione di
un nuovo statuto e di una nuova leggibilità della poesia non più intesa
quale istituzione stilistica.
È oggi ormai chiaro a tutti che in pieno Dopo il Moderno (dopo che la
post-modernità ha provocato l’inflazione e la stagnazione dei paradigmi
stilistici dominanti), il discorso poetico non ha altra scelta, se vuole sopravvivere,
che inoltrarsi verso il «vuoto», l’«ignoto» senza più la sicurezza
dei parametri tematici e stilistici consolidati. Il futuro della poesia
non dà certezze ma solo problemi aperti che attendono una soluzione.
Sulla poesia grava allora il compito di sollevare una serie nutrita di questioni
fissando negli occhi la quotidianità contemporanea, di puntare
l’indice e gli specchi per una profonda riflessione collettiva.
Non è un compito da poco.
attoriali, celebra cerimonie, prende possesso del palcoscenico come
d’un artificio, d’una messinscena. Il divertimento del poeta desublimato
corrisponde alla irriverenza con cui tratta il proprio materiale poetico;
l’entrata in gioco (ovvero, l’entrata in scena) è anche la presa
di possesso d’un materiale poetico povero, automatizzato, sclerotizzato,
socialdemocraticamente complicato da rime, contro rime e anti rime,
assonanze interne (ed esterne) dove è possibile perfino registrare il
«gioco» tra presenza (dell’orecchio) e assenza (dell’occhio), squisita
mistificazione del poeta di corte.
Ne esce l’istantanea composita di un «mondo in vetrina», un mondo
che è la rappresentazione dell’eterna commedia italiana di palazzeschiana
memoria, il ribaltamento dei piani e dei valori in dis-valori che il
villaggio globale ha riscritto e risistemato, la giaculatoria nei confronti
del «nuovo»: « Tutti i giorni mi umilio allo specchio / tutti i giorni mi
umilio leggendo i versi di ieri / scaduti da ventiquattr’ore», sono gli
internazionali. Scrivo un verso in italiano e so di scrivere in una lingua morta,
in un dialetto agonizzante; scrivo invece queste righe traducibili in qualsiasi
congresso con prenotazione alberghiera, presidenza e microfoni, e so di star
scrivendo una specie di latino, nella lingua della clericatura. La dolce e infame
anarchia del ghetto fa fiore e muffa per entro il Sacro Capitalistico Impero.
indizi del lutto che la società del villaggio globale annunzia: gli oggetti
scaduti (tra cui anche la poesia di ieri), l’amore di coppia, il sublime (e
l’anti sublime) della tragicommedia dell’«io» moderno.
Mentre l’eterna Arcadia italica si esprime «nella lingua della clericatura
», nella lingua di uso pragmatico (sempre più periferica e marginale)
suonando con il plettro delle viandanze turistiche, la migliore poesia
dei giovani dell’ultima generazione sceglie di esprimersi nell’idioma
della propria marginalità assoluta, marginalità linguistica e stilistica
che è stata scacciata dai circuiti della produzione-consumo (quel coacervo
di superconformismo di una sottoclericatura destinata al servizio
di corte): la marginalità della merce riciclata e riutilizzata dell’epoca
della stagnazione stilistica. [...]Lorenzo Pezzato è legittimo rappresentante della «poesia degli anni
Dieci» scaturente da una generazione cresciuta nella democrazia della
stagnazione ma è troppo intelligente per non accorgersi che quella generazione
«eclissata» perché economicamente invalida e culturalmente
improvvida è anche la generazione della stagnazione stilistica, morale e
politica. Si tratta della prima generazione in crisi di identità – in quanto
figlia prima del benessere poi dalla crisi economica – che affronta un
tempo denso di contraddizioni e di mutamenti repentini, di evoluzione
sociale galoppante di cui non riesce a tenere il passo, che stenta a
trovare una qualunque direzione e annaspa in un oceano di apatia e
indolenza.
La poesia «degli anni Dieci» adotta qui il binario del surrogato della
«Comunicazione», un equilibrismo tra lirica e prosa civile, andando
a sottrarre alla poesia la maggior parte della sua potenza di astrazione,
finendo vicina a diventare una sub componente gergale della «Comunicazione
», poesia nutrita con i surrogati e i succhi gastrici della «Comunicazione
».
Non c’è dubbio che la «nuova poesia degli anni Dieci» debba trarre
linfa e forza dal vuoto che la circonda, dal quasi nulla a disposizione e
da quello cerchi la ripartenza, cerchi di distillare il proprio linguaggio,
il proprio modo e il proprio messaggio.
È d’altronde lo stesso Pezzato che tratteggia una poetica per la poesia
a venire, una poesia intelligibile, diretta e scheletrica nella forma ma
comunque attenta all’estetica dei suoni e dei ritmi (quasi in antitesi
al concetto «classico»), che usa il linguaggio stringato e minimale
del XXI° secolo, che propone temi di stretta attualità perché la poesia
possa servire a «decifrare» anche il mondo moderno nell’immediatezza
della sua rappresentazione, che utilizza l’Io ipertrofico – caratteristica
tipica della nostra contemporaneità occidentale – come centro di
gravità. Un tratteggiare su tabula rasa che si presenta arrogantemente
come abbecedario poetico, come simbolico punto di partenza per la
nuova poetica, come si intuisce incontrando i due “esercizi da sussidiario”
(con la c e con la s).
Il poeta combatte con le armi convenzionali e tradizionali dentro una
forma-interna invece molto «in avanti», come il cavallo «in avanti»
che si appoggia sul morso tenendo in tensione le briglie per sottrarsi al
loro controllo, scattando perennemente.
Dunque, la «poesia degli anni Dieci», appare impegnata nella costruzione
di un discorso poetico fondato sulla interrogazione dell’«inautenticità
». E qui sorge un problema: è ancora possibile il discorso poetico
fondato sull’«inautenticità»? È ancora possibile porre la questione di:
quale poetica? Delle poetiche fondate sulla giustificazione del proposizionalismo
come avveniva nel tardo Novecento? Si tratta di scegliere:
quale proposizionalismo? Si tratta di scegliere: a) un discorso poetico
che si regga sulla semplice giustificazione estetica delle proposizioni,
che le incatena le une alle altre secondo la gerarchia stabilita dalla
«funzione» poetica? b) o si tratta invece di fondare il discorso poetico
non più sul giustificazionismo estetico e proposizionalistico di tipo tardo
novecentesco ma sulla interrogazione dell’«inautenticità»?
Pezzato pone all’ordine del giorno la questione dell’«inautenticità»;
con ciò traduce e ripianta su nuove basi il concetto di «autenticità»,
un modo strategico per introdurre «surrettiziamente» la questione di
un nuovo statuto e di una nuova leggibilità della poesia non più intesa
quale istituzione stilistica.
È oggi ormai chiaro a tutti che in pieno Dopo il Moderno (dopo che la
post-modernità ha provocato l’inflazione e la stagnazione dei paradigmi
stilistici dominanti), il discorso poetico non ha altra scelta, se vuole sopravvivere,
che inoltrarsi verso il «vuoto», l’«ignoto» senza più la sicurezza
dei parametri tematici e stilistici consolidati. Il futuro della poesia
non dà certezze ma solo problemi aperti che attendono una soluzione.
Sulla poesia grava allora il compito di sollevare una serie nutrita di questioni
fissando negli occhi la quotidianità contemporanea, di puntare
l’indice e gli specchi per una profonda riflessione collettiva.
Non è un compito da poco.
2 commenti:
Mi colpisce, in queste poesie, l'accettazione ragionata dello standard comunicativo, il definitivo superamento del gap tecnologico, nonché gli standard famigliari, e l'uso domestico delle citazioni.
Poesia assai semplificata nel linguaggio, priva di qualsiasi sperimentazione al di fuori del rinnovamento degli oggetti, prosaica e tanto semplice che la si potrebbe definire popolare. Comprensibile al punto che, non fosse che l'autore si descrive come padre e uomo adulto, la si potrebbe prendere per poesia adolescenziale. Pensieri brevi, a tratti scritti con ritmo narrativo. Zero ribellismo, più che altro fastidi.
Qui si sta attenti a non uscire dal poco ma buono.
Inoltre la "riflessione collettiva", suggerita in chiusura di commento da Linguaglossa, mi sembra dettata da necessità estetiche (notare i riferimenti pittorici anziché quelli letterari), e non da altre necessità più impellenti. Ancora non mi è chiaro se il nuovo di cui si parla debba essere di restauro oppure che si aspetti una qualche particella in grado di librarsi solitaria nel divenire.
mayoor
Mi sento davvero davanti a qualcosa di nuovo. Queste poesie piene di stupore ed interrogativi sono un cammino che porterà il poeta ancora più in alto. La chiarezza mi affascina e la realtà della consapevolezza così espressa mi fa pensare ad una nuova ricerca moderna e veramente apprezzabile.Congratulazioni Emilia Banfi
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