Nel post di segnalazione dedicato al libro di Cornacchia e Rendo (qui) sono emersi interessanti spunti di discussione sull'editoria che s'occupa di poesia (telematica o tradizionale). Per approfondirli, pubblico questo gustoso e informato saggio di Gianmario Lucini. La via della poesia è lastricata anche di porcheriole economico-psicologiche. Parliamone. [E.A.]
L’Italia è la patria dei poeti, ma anche dei gonzi, dei polli. Il pollo è un animale simbolico, metaforico. Ha le ali, può volare, andarsene libero come tutti gli altri uccelli, eppure gironzola nell’aia, beccheggia, poltrisce finché qualcuno gli tira il collo. Il pollo è convinto che tutto gli sia dovuto: becchime, riparo notturno, protezione, senza nulla dare. E’ un animale banale, cialtrone, sciocco: è un gran narciso. Sì, certo dà le uova, quando diventa gallina e forse, nell’ingenuità della sua visione, questo gli sembra uno scambio equo. Nella sua ottusità, offuscata dal narcisismo non immagina che ci sia una visione del mondo diversa dalla sua, più predatrice.
1. Il poeta-pollo.
Il poeta-pollo rappresenta il 99% dei poeti italiani, una
popolazione che si aggira sui 62 milioni di individui. Non parlo degli
italiani, che sono di meno, ma dei poeti italiani, che sono più numerosi della
popolazione italiana. Si potrà obiettare come mai questo sia possibile: non ho
risposte, è un mistero anche per me. Il
carattere più spiccato di questi individui è il narcisismo, da forme appena
velate a forme esasperanti. Il pollo-poeta non nasce pulcino-poeta, ma è pollo
da sempre. Egli non lo sa, ma l’editore (il rapace, ossia l’1% mancante alla
statistica di cui sopra), lo sa da sempre.
Come avrò
modo di esporre, è proprio il carattere narcisista del poeta italiano, la leva
che muove qualsiasi aberrazione nel campo editoriale.
La quasi
totalità di italiani che scrivono versi, lo fanno per una ragione molto
semplice: l’arte della poesia non è faticosa (in apparenza) come qualsiasi
altra arte – che necessita di studio, di applicazione, di forti investimenti
anche economici. Per scrivere una poesia basta carta e penna. Anzi, è sufficiente
pensarla e recitarla. Il suono delle parole cattura: non importa se il
musicista è stonato e quel suono, di conseguenza, è orribile: ogni scarafone
è bello a mamma sua... Se io mi metto al pianoforte e strimpello qualcosa,
sono conscio e pago del mio strimpellare-passatempo e non pretendo certo di
creare un’opera d’arte. Ma, se nel medesimo atteggiamento creativo, mi metto a
giocare con le parole (e coi “buoni sentimenti” e con le “emozioni”) allora
scatta l’idea che “ho scritto una poesia”. Non è strano (o meglio
“presuntuoso”) questo atteggiamento? La presunzione, però, è costitutiva del
carattere narcisista. Come strimpellatore di pianoforte, infatti, non mi sogno
neppure di mettermi a livello del musicista di professione, il quale ha dovuto
studiare anni e anni per impadronirsi del suo mestiere ed esprimerlo come forma
d’arte. Come perdigiorno con le parole, invece, emetto un vagito e lo chiamo
“verso” e non mi vergogno a recitarlo a chicchessia, o a pubblicarlo in una
sequela di altri “versi” che chiamo “raccolta di poesia”. Ma non è tutto. Il
musicista di professione, che sia interprete o compositore, ha investito nella
sua formazione, oltre al tempo (pensiamo al pianoforte o al violino: 10 anni
per il diploma, numerosi anni di specializzazione post-diploma) anche un
consistente capitale, ben oltre i costi scolastici. Un pianoforte mezza coda
adatto ad un concertista costa dai 20 ai 40.000 € - e un pianista, dall’inizio
degli studi e sino ad arrivare al livello di concertista, cambia almeno 4
pianoforti. E poi ci sono gli spartiti, i viaggi, i soggiorni spesso all’estero
(perché i bravi maestri non abitano sotto casa...). Quando un concertista può
emettere il suo primo vagito come interprete, ha già speso, in formazione, più
o meno lo stipendio di dieci anni di un impiegato statale. E viene pagato si e
no cento euro a concerto. Il sedicente “poeta”, al suo primo libro, non spende
nulla. Spesso la sua cultura poetica consiste in qualche centinaio di libri
regalati dagli amici, la maggior parte mai letti, qualche classico, i libri del
liceo. Eppure il poeta, specie se al suo primo libro, si sente già nel ruolo
del grande artista. Dal suo primo verso in poi, la sua vita cambia. Egli vive
“per la sua poesia” (e lo dice con un piglio serio, pensoso, come di
colui che esprime una verità altissima di fronte alla quale non possiamo far
altro che inchinarci). Se la tira, insomma. La “sua” poesia, appunto, perché
quella di altri poeti – e dei classici in primis - gli è estranea se non per
qualche reminiscenza scolastica. Di questa sua ignoranza (che sarebbe
intollerabile nel campo nella musica, della pittura...) egli non si preoccupa
affatto e non gli è difficile trovare un costrutto logico, una razionalizzazione,
che lo auto-assolva. Spesso non sa neppure scrivere: compie banali errori di
ortografia e li chiama “refusi”, sbaglia le concordanze, usa parole imprecise,
banali, accosta stili e linguaggi che stridono, usa arcaismi per darsi un tono,
ripete sino al vomito le parole-repertorio della sottocultura canzonettistica
(cuore, amore, dolore, anima, emozione, ecc.), riesuma tutto il repertorio dei
buoni sentimenti vetero-romantici, crepuscolari, decadentisti, e lo rimacina in
infinite, mielose e stomachevoli variazioni. Rilegge il tutto e si meraviglia
di sé, se la suona e se la canta. Così nasce l’opera prima.
2. Il critico-Polifemo
Fare un volume della sua
magnifica opera è, nella fantasia del poeta-pollo, lo scopo dello scrivere.
Egli scrive non per comunicare qualcosa a qualcuno, ma per vedere il suo nome
stampato su un libro. L’odore dell’inchiostro gli procura l’orgasmo e lo scopo
della sua vita è poter dire: l’inchiostro è mio. Vivere per la poesia è questo:
sentire l’odore della sua poesia nell’inchiostro fresco di stampa, sentirlo
scorrere nelle vene. Solo così si considera poeta. Un poeta che non scrive
libri, non può definirsi tale: è come un pittore che dipinge per se stesso:
sarà sempre considerato un “dilettante”. Questa parola fa orrore al
poeta-pollo. Tant’è che il rapace, ottimo conoscitore della sua psicologia, da
tempo l’ha archiviata e sostituita con un eufemismo: esordiente, colui
che inizia (qualcosa di grande ovviamente). L’esordiente è colui che per la
prima volta si esibisce in un certo ruolo. Dunque, l’opera prima è anche la
consacrazione di questo ruolo o status (ma certo più status che ruolo). Se non
c’è il libro non c’è il poeta.
Ruolo e status sono però
attribuzioni sociali. Io posso sentirmi poeta, ma se soltanto io mi sento tale,
in realtà non lo sono, neppure per me stesso. Anche il narciso più sfrenato
arriva ad intuire che, senza una intermediazione (un traghettatore, un
declamatore, un banditore che dall’alto dei tetti proclami il suo status), la
sua affermazione tramite il libro è improbabile, non ha rilievo, rischia di non
venire colta con la dovuta sottolineatura. Questa ruolo di traghettatore, da
status di cittadino anonimo a status di cittadino poeta, è universalmente attribuito
al critico. E’ necessario perciò che il critico sia una persona conosciuta,
importante, nota nell’ambiente e pertanto capace di introdurre il poeta,
di suscitare quella considerazione comune: “se lo dice il critico, allora vuol
dire che questo nuovo poeta è davvero bravo”. Il critico, quasi sempre, si
comporta da gran figlio di puttana. Il poeta gli porta il manoscritto e chiede
una lettura. Il critico (che può essere anche un altro poeta, già
“affermato”), subodorando l’affare, si schernisce e inizia una danza, dalla
coreografia molto complessa, il cui significato simbolico cela un messaggio via
via sempre più chiaro nella mente del poeta-pollo: se mi paghi bene, ti faccio
la prefazione, altrimenti vai da un altro.
Il poeta-pollo non si dà per
vinto e, convinto della unicità e della grandezza della sua opera e che tale
grandezza e unicità risulti evidente soltanto se non deve sborsare nulla per il
suo riconoscimento, e che tale mancato esborso sia la prova provata di questa
grandezza, di solito va da un altro, ma qualche volta abbozza. Non capita quasi
mai che un prefatore dica a chiare lettere: “la sua opera mi interessa, ma il
mio tempo e le mia professionalità costano TOT” o, più sinceramente, “la sua
opera non è di buona qualità: se faccio la prefazione mi sputtano pure”.
Oppure: “ la sua opera non vale un cazzo ma se paga bene posso pure scrivere
una mezza paginetta di introduzione”. Quando si verifica quest’ultima
possibilità, ossia: quando troviamo la firma di insigni poeti e critici, a volte
anche mezzi premi Nobel, sotto la prefazione di indegne opere di poesia, che
meriterebbero l’amputazione delle mani di chi le ha scritte (opera e
prefazione) è un bel botto di uova marce. Il nostro poeta-pollo, per fortuna,
quasi sempre, ma non sempre, decide di chiedere la prefazione al vecchio
professore di lettere o dall’amico anch’egli sedicente poeta, pur di salvare le
apparenze alla sua “opera” che lo consacrerà poeta a vita.
Il prefatore è, dunque, quasi
sempre un amico, un conoscente, uno insomma che non ha nessuna voglia di
criticare l’opera, e che anzi non deve criticarla, per ovvie ragioni. Tuttavia
questo alone di ambiguità intorno alla “prefazione”, alla sua effettiva o
presunta capacità di traghettare il poeta nell’”ambiente", rimane come un alone
sacrale, legato al nome, alle “competenze” del prefatore, alla sua influenza
nell’ambiente, al suo prestigio meritato o immeritato.
In realtà il prefatore è come
Polifemo, guarda con un occhio solo perché l’altro è accecato o dall’interesse
personale o semplicemente dalla convenienza o da altre implicazioni. Egli
segnala con incredibile pignoleria tutti i pregi o presunti tali (qualcuno,
poi, ci sarà pure...) dell’opera, ma tace sui punti di debolezza, persino
quando sono evidenti: non può fare altro. Non svolge, pertanto, la funzione del
critico ma un ruolo molto più simile a quello del venditore dell’elisir di
lunga vita, così come ci viene descritto in taluni film “spaghetti-western”.
3. L’editore-rapace.
L’opera prima del poeta-pollo è
dunque pronta, prefata, in bella copia, stampata in formato A4. Inizia la
ricerca dell’editore. Ai tempi della mia giovinezza, quarant’anni or sono, il
poeta-pollo si armava di carta e penna, preparava una lettera standard
(l’operazione durava a volte qualche mese, perché ogni elemento, grammatica e
sintassi comprese, doveva essere attentamente vagliato – non certo per amore
della lingua ma a tutela del proprio narciso). La lettera partiva alla volta
delle grandi case editrici (Einaudi, Mondadori, Guanda, Mursia...). Il poeta,
macerandosi e smagrendo a vista d’occhio nello stress dell’attesa, si
interrogava sui motivi dell’inevitabile silenzio. In realtà il silenzio era
causato dall’impossibilità degli editori di mettere nero su bianco il meritato
diniego: il tempo è danaro e quando devi rispondere a diecine di lettere al
giorno, il diniego costa parecchio. Il poeta pollo iniziava così a manifestare
i suoi sintomi depressivi (e quindi aggressivi) verso le case editrici, che non
erano in grado di capire la sua arte. Il progresso però ci ha regalato la
stampa digitale, Internet, la posta elettronica e un’infinità di tecnologie che
hanno abbassato i costi di produzione ed ha prodotto una serie di piccole case
editrici, compresa la mia, che proprio nei poeti hanno individuato i loro polli
da spennare. Inoltre, per mille ragioni che non possiamo qui analizzare, in
questi decenni le grandi case editrici hanno quasi del tutto abbandonato le
edizioni di poesia, considerate non remunerative. Vendere 1000 copie di una
raccolta poetica, in Italia, è un successo più di prestigio per il poeta che di
sostanza (guadagno) per la casa editrice. Alla centesima copia venduta si
stappa la bottiglia di prosecco, che peraltro è più economico e migliore dello
champagne.
Navigando un po’ per Internet,
si trovano centinaia di case editrici che promettono serietà e competenza, ma
ovviamente chiedono un “contributo” per la stampa, ampiamente giustificato dal
fatto che di poesia proprio non se ne vende. L’editore rapace fa un
ragionamento molto semplice: se la stampa di 1000 copie mi costa mille €, io
chiedo un contributo di 2000 €, perché devo comunque lavorare e sono sicuro di
non vendere. Se infatti un italiano va in libreria per acquistare un titolo di
poesia (fatto rarissimo), di sicuro cercherà fra gli scaffali il nome di
qualche poeta recensito in terza pagina da un critico famoso (cosa che solo le
grandi case editrici possono fare) e, soprattutto, una “collana” di poesia di
prestigio e non il libro del nostro poeta-pollo, che nessuno conosce, editato
da una piccola, oscura casa editrice. Dunque, in libreria è inutile – pensa
l’editore rapace – mandare libri: costa inviarli in conto-vendita, costa tempo
contabilizzare gli invii, costa farsi restituire la giacenza (che di solito è
il 100% di quanto inviato in conto vendita).
Solo spese: a quale scopo? É da
stupidi. meglio farsi pagare il “disturbo” dal poeta stesso il quale, pur di
gratificare il suo narcisismo, chiede la stampa di 1000 copie, ne regala una
cinquantina agli amici, e con altre 100, regalate dall’editore (che ne stampa
effettivamente 250 / 300), affronta i concorsi più improbabili che non vincerà
mai. Il resto va al macero.
Ma perché – viene il dubbio –
l’editore rapace non promette soltanto 300 copie e invece dice di stamparne
mille? E’ ovvio: mille è una soglia psicologica. Se stampi 2/300 copie non sei
nessuno. Se ne stampi mille sei, potenzialmente, un “successo editoriale”. Dire
“300” è come dire “ti accontento, ma tanto so che non vali un cazzo”.
Ma non finisce qui. Se davvero
l’editore stampa 1000 (ossia 300) copie, strapagate dall’autore, non gliene
consegna mille, ma forse un centinaio, se va bene. Se l’autore vuole copie in
più, se le acquista, a prezzo “di favore” che in genere non è quello di
edizione ma intorno al 50% del prezzo di copertina. Ecco dunque che l’autore-pollo,
oltre ad aver scritto il libro, ad aver pagato le spese di edizione, diventa
cliente dell’editore ed acquista lui i libri che l’editore non potrebbe mai
vendere, magari anche qualche centinaio. Chiamare “pollo” un individuo che si
comporta in questo modo è, a questo punto, un’offesa per i polli. Gli sarebbe
costato molto meno acquistarsi un codice ISBN, impaginarsi da solo il volume,
farne stampare 300 copie e spendere 450 € invece di 1.600 o di 3000.
L’editore rapace ha però
escogitato un altro sistema, tutto sommato legittimo, per spennare il suo
pollo. Un libro, infatti, viene oggi memorizzato in un Hard-disk” e, se sono
necessarie delle ristampe, viene immediatamente richiamato e stampato in
pochissimo tempo per il numero di copie richieste. L’editore rapace, stanco di
essere chiamato rapace, decide allora di tentare un’altra strada, che gli
permette di ripulirsi la reputazione e di guadagnarsi la fama di editore
magnanimo e illuminato che stampa poesia gratis. Espone a chiare lettere, sul
suo sito Internet, un avviso che la sua casa editrice stampa qualsiasi opera di
poesia gratis, e “basta con i comitati di lettura, che sono una presa in giro”
(in pratica: stampa di tutto e non gliene frega niente).
L’autore-pollo pensa di aver
trovato l’editore-santo, capace di fare miracoli e, nella sua ingenuità,
argomenta: se questo mi edita gratis, vuol dire che vende molto, altrimenti che
tornaconto ne avrebbe?
Il gioco però è semplice: io,
come editore, posso far stampare 10 copie di un libro di 104 pagine circa,
compreso il codice ISBN e la spedizione, alla modica somma di 20 € circa.
Ovviamente sarà a carico dell’autore l’impaginazione, secondo le mie direttive,
e inviata su un file via posta elettronica. Nel contratto di edizione specifico
anche che all’autore spettano due copie (e non duecento) ad uso personale.
Cinque copie vanno alle Biblioteche centrali e tre me le tengo lì, tanto per
gradire. Specifico anche che le ulteriori copie saranno corrisposte all’autore
a metà del prezzo di copertina. L’esempio che sto illustrando è reale: quello
di un libro di 96 pagine al prezzo di copertina di ben 13,90 € e l’opera è
quella di una poeta-pollastra “esordiente”. La casa editrice è abbastanza nota.
Leggo tutte queste condizioni, proprio da sito della casa editrice.
L’autore-pollo della
fattispecie, è contento, realizzato. Si sente compreso e valorizzato. In
effetti ha stampato il suo libro senza nessun costo e anzi, con due copie in
omaggio. Gli sembra ovvio che siano
soltanto due copie perché l’editore, poverino, chissà quanto avrà speso... e
già prima della stampa chiederà almeno 100 copie da regalare agli amici (ossia,
spende 700 €), da inviare ai critici, da collocare nelle tre librerie del
paese. L’editore è già in attivo perché spende il tempo di qualche messaggio di
posta elettronica, invece di 10 copie ne fa stampare 110 e invece di spendere
20 € ne spende 170 ma ne incassa 700. Guadagna insomma 530 € senza fare nulla
e, considerando il fatto che egli stampa di tutto, purché respiri, è possibile
ipotizzare che possa stampare anche 20 o 30 libri in una settimana, a
condizioni simili. Ovviamente non è così, ma solo perché gli editori che
stampano gratis ormai sono molti e il poeta-pollo non ha che da scegliere. Ma,
fosse anche un solo libro al giorno, quei 530 € sono rubati: non c’è altra
definizione possibile.
Ovviamente l’editore rapace,
che di solito è piuttosto di mediocre cultura, perché considera i libri merce
da vendere (o meglio, da produrre o assemblare), non organizza una
presentazione, non scrive un articolo di giornale, non presenta neppure su
internet o sul suo sito personale l’opera dell’autore (se non con 4 / 5 righe
di banali luoghi comuni). Tanto meno – e
qui lo capisco – si premura di distribuire il libro, perché la distribuzione
costa circa il 45 – 55% del prezzo di copertina, e neppure lo invia a librerie
convenzionate (per i motivi già spiegati: in sostanza la poca visibilità del
prodotto).
4. Risveglio dal delirio e inguaribile ferita del narciso
Dunque, siamo all’apogeo: il
libro c’è, col suo profumo afrodisiaco di inchiostro. Un centinaio di copie ci
sono. Cosa fa il poeta-pollo? Ovviamente
vuole farsi conoscere, altrimenti a che pro scrivere un libro? E dunque invia
la sua cinquantina di libri a vari critici italiani e persino stranieri
(svizzeri del Canton Ticino, nella più intelligente delle ipotesi), con
preghiera di scrivere una recensione, magari sul “Sole 24 Ore” o su
“Repubblica”. E, lui che non aveva mai acquistato un giornale in vita sua,
spende mezzo stipendio in giornali nella speranza di veder comparire la
recensione al suo libro. Ma, a parte il bollettino della biblioteca locale
(costata ben 5 copie del suo libro, come omaggio alla bibliotecaria, al sindaco
e tre in deposito per i lettori), e a parte un settimanale locale o il
bollettino parrocchiale (se il libro non è “moralmente riprovevole”), che
menzionano il libro, sulla stampa che conta non ci passa manco l’ombra.
Ma a questo punto, fra libri
regalati agli amici, libri inviati alla critica, la metà del capitale di libri
100 se n’è volata e... di libri venduti, neppure uno.
Però il nostro poeta-pollo ha
una fulgida idea: si organizzi una presentazione! Si reca dunque dal suo amico critico, quello
che gli ha fatto la recensione e comincia a buttar là l’idea.
L’amico critico si fa pensoso e
sbotta: ma tu, come te la cavi con la recitazione? Se non sai recitare bene le
tue poesie, allora è inutile fare una presentazione: va tutto in vacca.
L’autore-pollo, che di solito non sa nulla di queste cose, resta lì fulminato:
accidenti, ha ragione. Ma per sua
fortuna l’amico critico conosce un amico attore dilettante dalla voce
impostata, bassa e sensuale: il problema si risolve con 100 €. Ma poi, prosegue l’amico critico, ci vorrebbe
anche un po’ di musica, altrimenti la presentazione diventa un mortorio
insopportabile. Si decide quindi di scritturare un chitarrista classico, un
allievo del conservatorio quasi diplomato, che per la modica somma di € 100 si
presterebbe a inframmezzare le letture con pezzi di flamenco o di fado. L’amico
critico inoltre, da esperto navigato, gli consiglia di organizzare un bel
rinfresco, un aperitivo: così si rompe il ghiaccio e la gente è invogliata ad
acquistare. E lì vanno altre 100 € più o
meno. Infine non bisogna dimenticare l’amico critico il quale, proprio perché
amico, non chiede danaro ma almeno una cenetta per festeggiare. Ovviamente, pensa il poeta-pollo nella sua
logica narcisa, detta cena deve esser presso un ristorante “in”, altrimenti che
figura ci fa? Si metta dunque un preventivo un bel centone – ma non basta,
perché oltre all’amico critico chissà quanti altri saranno invitati.
Ecco dunque organizzato il
pomeriggio di cultura, nella quale verrà presentata l’opera prima del “bravo”
concittadino tal dei tali, alla quale tutti sono invitati – con aperitivo. Sui
manifesti appare anche il nome dell’attore dilettante e del musicista quasi
diplomato, ma più in piccolo, e il nome del noto critico, questo più in grande.
I cinquanta libri che rimangono
però, paiono al poeta-pollo troppo pochi. Egli infatti si dà molto da fare e
molte persone gli promettono di partecipare alla presentazione. Di conseguenza,
prudenzialmente egli ordina altri 100 volumi all’editore, con largo anticipo,
come gli è stato raccomandato (bisogna infatti stamparli), per la modica somma
di € 700, che il poeta è però sicuro di recuperare e peraltro guadagnando il
doppio di quanto speso.
Siamo dunque al fatidico
momento della “vera” assunzione di status del poeta-pollo, ad opera di un amico
critico, un musicista quasi diplomato e un attore dilettante.
Le presentazioni a volte vanno
male, a volte vanno bene. Noi qui ipotizziamo che tutto vada per il meglio.
Anzi, interviene pure il sindaco, che si dice impressionato dalla sensibilità
del poeta-pollo (del quale ha sbirciato il titolo e qualche verso nella
pausa-caffé). Interviene il vecchio professore di lettere, che mai e poi mai
avrebbe pensato... Interviene il responsabile della biblioteca e il presidente
dell’Associazione culturale più nota della città: un successone. Il successo è
anche di pubblico: immaginiamo che ci sia l’improbabile numero di cento
persone, ma proprio perché il nostro poeta-pollo ci muove, a questo punto, a
quella tenerezza che spesso i narcisi sanno suscitare nel prossimo. Ci sono
quasi tutti gli amici e chi non c’è manda a dire di scusarlo. Ci sono i
parenti, qualche amico del critico e del musicista quasi diplomato. Ci sono
persino alcuni vecchi compagni di scuola del liceo. Un pienone. Quasi come a un
funerale.
La musica è discreta, l’aperitivo, preparato con perizia
da mammà, suscita l’ammirazione e una leggere ebbrezza nelle signore e negli
astemi. Tutti acquistano il libro, a parte una trentina di amici ai quali il
nostro poeta-pollo lo aveva già regalato (tanto per non sconfessarsi) e due o
tre ragazzotti interessati più all’aperitivo che alla cultura. Ovviamente le coppie di fidanzati e di
coniugi, ne acquistano uno solo. Il successo dunque decreta la straordinaria
vendita di 50 copie del volume, con rispettive dediche del poeta-pollo, per
l’incasso di ben 700 €, ossia il costo che egli ha già versato all’editore. Il
nostro poeta-pollo ha avuto fortuna: la sua presentazione gli costerà soltanto
400 €, per pagare il musicista, l’attore e il buffet.
Nell’economia complessiva
dell’impresa, diciamo che egli ha speso 1800 € per recuperarne 700, mentre
l’editore-rapace ne incassa 1400 per spenderne 340. Il poeta-pollo si è sbattuto due mesi per
vendere 50 copie del libro da lui scritto, per conto dell’editore, che ringrazia
con un soddisfatto sbadiglio canino.
Un solo vantaggio è
indubitabile: da quel momento in poi egli sarà, per tutto il circondario, “il
poeta”.
Il poeta pollo si ritrova
pertanto, dopo le meschine esperienze di cui sopra, con cento libri invenduti
in attivo e una spesa di 1.100 € da ripianare, se vuole davvero “pubblicare
gratis”. Che cosa può inventare? Ovvio, i concorsi letterari! Nella sua
ingenuità mischia mezza verità e mezza menzogna per fabbricarsi una sua
personale ipotesi: i concorsi vanno a fortuna, molti bravi autori non vincono
mai, molte schiappe vincono anche primi premi: perché non provare? E si inventa giocatore. Pensa: se partecipo a
più concorsi, ho maggiori possibilità di vincere. Dunque, anche se spendo 2 o 300 € per quote
di iscrizione, mi basta vincere un solo concorso che ci guadagno e recupero i
1000 € che mancano alla mia piena consapevolezza di aver davvero pubblicato un
libro gratis.
Vi è però una insidiosa
variabile che egli non prende in considerazione, e cioè che ogni concorso
richiede, per l’iscrizione, non soltanto una piccola cifra che oscilla da 20 a
30 €, ma anche una considerevole numero di copie, che non sono poi restituite
(in genere una quantità che oscilla da 4 a 12 copie). Risulta subito evidente
che le 100 copie che rimangono non bastano a coprire queste esigenze. Il nostro
poeta-pollo è perciò costretto ad acquistare altre 100 copie (per andare sul
sicuro) del suo libro, con lo sconto del 50% (e quindi altre 700 €) e a
sborsare, per la partecipazione a una ventina di concorsi, la modica somma di 400
€ per quote di iscrizione e una imprecisata somma di spese postali.
Non si accorge così di due
verità: a) la somma che spende, complessivamente, supera quella che egli
incasserebbe con una vincita media – che di solito non supera i 1000 € e b) che
la considerazione che egli fa, ossia che “più concorsi tentati maggiori sono le
probabilità di vincita”, in realtà non sta in nessuna logica, perché la
statistica ci dice che ad ogni concorso tu hai una probabilità su TOT, e questo
TOT corrisponde al numero effettivo di partecipanti per ogni concorso.
Ovviamente non vincerà nulla;
molto probabilmente perché egli non sa scrivere ed è ignorato dai giurati o, ed
è il caso di molti concorsi italiani, perché il vincitore del concorso è già
deciso prima di essere indetto. Non c’entra la “fortuna” in queste cose, posto
che esista davvero una “fortuna” che muove gli eventi e che soccorra i polli.
A questo punto, dopo l’ennesima
delusione e dopo aver speso ben 2900 € più imprecisate spese postali (ma
recuperandone ben 700, non dimentichiamolo!) per guadagnarsi a buon diritto lo
status di “poeta”, un’amarezza cosmica invade il nostro poeta-pollo, che
inizierà a sentirsi incompreso e perseguitato. Egli svilupperà una sindrome di
rancorosa ostilità verso i concorsi letterari a pagamento, gli approfittatori
che li organizzano e tutto il marcio che sta intorno. Ma non oserà mai parlar
male del suo editore, il solo che ha riconosciuto il suo talento e che ha avuto
il coraggio e l’illuminata lungimiranza di pubblicare gratuitamente la sua
prima opera letteraria.
Gli esempi che sopra ho
descritto sono quelli più comuni, non certo i peggiori, in questo particolare
settore della piccola editoria e della stampa delle “opere prime”. In seguito
il nostro autore inizierà a ragionare (ma non è detto) e a comportarsi meno da
pollo, seguendo altre vie che cercherò di descrivere brevemente. Ma è fuor di
dubbio che, se così stanno le cose, metà dell’editoria italiana sopravvive
sfruttando il narcisismo dei poeti-polli.
5 Conosci te stesso: la vecchia inossidabile regola
Per non essere polli, dobbiamo
fidarci dei dati. Le indagini di mercato ci dicono che un libro di poesie, in
Italia, difficilmente vende più di 1000 copie e se le vende è perché viene
edito da una grande casa, che ha una sua distribuzione e una sua tipografia. Le
piccole case editrici, come si è detto, stappano una bottiglia di champagne se
viene raggiunto il ragguardevole numero di 100 copie vendute. Dunque, chi sei
tu? Uno conosciuto come Zanzotto? No e allora cominciamo a scendere a meno di
500 copie. Pubblichi con una grande casa editrice? No, e allora scendiamo sotto
le 250 copie. Pubblichi con una casa editrice che ha una certa visibilità nelle
librerie? No, e allora scendi sotto le
cento copie: è già troppo. Il “conosci te stesso”, adagio antico come la
civiltà, ci consiglia questo: agli editori e ai poeti.
Stampare poche copie però, non
significa fare cattivi libri: anzi! Non vendere in libreria non significa non
vendere tout court, anzi! L’impoetico mafioso, in tre mesi ha
venduto 800 copie, senza librerie, da una casa editrice alla sua prima
esperienza (il primo libro stampato!). Che “teneva” insomma era l’idea
editoriale, il senso del libro, il modo di proporlo che è sempre stato
comunicativo, a tu per tu, guardando i lettori nelle palle degli occhi, con le
presentazioni, le discussioni, la vita vera. Questa sembra essere la strategia
che permette di superare agevolmente le 100 copie, ovviamente dandosi da fare
nell’organizzare eventi, discussioni su temi, reading, e altro.
Il poeta-pollo-narciso infatti
è, dentro di sé, convinto che l’editore debba farsi carico di tutto questo:
ossia organizzare presentazioni su tutto il territorio nazionale, scrivere
recensioni da inviare ai quotidiani (magari nazionali!), stampare le locandine
quando serve, prendere contatti con Enti di promozione di eventi, ecc. ecc.,
insomma, qualcosa che sta a mezzo fra l’agenzia di viaggi (perché poi l’editore
deve essere presente a tutte le manifestazioni, e quindi muoversi, sbattersi,
viaggiare), l’agenzia culturale e l’impresa commerciale. Eh sì! perché il
grande genio ha scritto il suo capolavoro e tutti devono sculettare e riverire
il grande genio, tutti devono essere dei piccoli Mondadori o Einaudi che fanno
esattamente quello che può fare Mondadori o Einaudi. Con quale danaro lo sa Iddio. Con le cento
copie vendute?
L’editore onesto invece sa che
non potrà mai vendere nulla in libreria e perciò si attrezza per la vendita
diretta e su Internet. Si organizza per fare almeno due presentazioni nello
stesso giorno, così da avere più possibilità di guadagno dimezzando le spese.
Sa che può scrivere un trafiletto, uno “strillo” sul giornale locale (se il
poeta gli trova l’aggancio con la stampa locale...), sa che può fare una
piccola locandina, che il poeta distribuirà in alcuni punti strategici. Si
rende disponibile magari per un’intervista, tutto insomma che possa contribuire
a far conoscere l’opera del poeta. E quindi può promettere al poeta questo, non
altro.
Il poeta intelligente, che
conosce se stesso e i suoi limiti, non andrà quindi alla ricerca dell’editore
fanfarone che promette la stampa gratis e la provvigione del 7% o massimo 12 %
con la vendita della prima copia, perché sa che non è possibile. Cercherà
invece l’editore che non gli chiede 1600 o 3000 € per stampare 300 copie di un
volumetto di poesie, ma saprà che non può stampare le sue 100 copie gratis,
perché il piccolo editore non può rientrare dalle spese vendendo 100 copie del
suo volume e guadagnare quello che è giusto guadagni per il suo lavoro. Il
poeta sa benissimo che l’impaginazione di un libro costa sui 100 €, una
copertina anche bianca costa altrettanto (perché anche senza colori o
fotografie, deve essere fatto un progetto grafico per la stampa di copertina, e
il grafico non lavora per nulla). Sa benissimo che l’invio alla critica di una
trentina di volumi, costa i volumi stessi e le spese postali. Sa benissimo che
la correzione delle bozze necessita di tempo, e così l’editing. Sa anche che i
libri non camminano da soli e devono essere trasportati dalla tipografia a
destinazione. Si rende conto insomma che prima della stampa, il suo libretto di
80 pagine costa già 400 € circa, ma sa anche che 200 copie costerebbero 700 €,
300 copie 850 € e così via perché, nella stampa di un libro, i costi che
incidono sono quelli iniziali e che tali costi vengono diluiti, tanto da essere
irrilevanti sul prezzo unitario dell’opera soltanto se la tiratura è molto
alta. Se una stampa di 100 copie costa 2 € a copia, una tiratura di 2.000 copie
costa esattamente la metà...
La conseguenza del “conosci te
stesso” è quindi il “fatti furbo”. Se sei un poeta furbo allora cercherai l’editore
che pretende di essere rifuso nelle sue spese (almeno in quello) e chiede i
famosi 5/600 € per le 100 copie, ma solo 850 per 300 copie (e non 1.600 0
2.500!). L’editore onesto però non riconosce soltanto il 7% o il 12% di diritti
all’autore, se le condizioni sono queste, perché l’autore, a questo punto,
visto che paga le spese, ha diritto a molto di più. Se è onesto gli riconoscerà
almeno il 30% delle copie vendute via Internet e almeno il 20% delle copie
vendute nelle presentazioni al pubblico (lì infatti ci sono spese vive, che
l’editore deve pur recuperare qualcosa, se vuole sopravvivere). L’autore
inoltre sa che l’editore onesto non gli chiederà il 50% del prezzo di copertina
se chiede altre copie del libro, oltre le 100 iniziali, visto che se l’è pagato
lui e non l’editore: sa che l’editore onesto glielo girerà a costo di stampa,
con un leggerissimo ricarico per diritti editoriali (un libro di 80 pp.
dovrebbe essere inviato all’autore, a questo punto, a meno di tre Euro a copia
e non a 6 o 7 €).
Se per qualche congiunzione
astrale felice il libro deve essere stampato oltre le 100 copie, sarà l’editore
onesto a valutarlo, insieme all’autore, e spenderà quei 150 € che servono a
stampare le 100 copie in più, magari chiedendo 75 € all’autore a fronte di un
certo numero di copie).
In definitiva, con questa ipotesi, l’autore riesce, con un
po’ di intraprendenza, a far stampare e diffondere 200 copie del suo libro al
ragionevole importo di 675 € (in gran parte recuperandoli con una ragionevole
percentuale di diritti editoriali), mentre nell’ipotesi precedente, quella del
pollo e del falco, ne spendeva 3.000 per venderne 50. Inoltre, se proprio vorrà
partecipare a concorsi letterari, sa che spenderà, per i libri, una somma
ragionevole per ogni concorso e non un salasso da 28 a 84 €. a botta.
Io però faccio l’editore e
spero che continuino ad esistere i poeti polli. Spero che continuino a
proliferare e non vengano da me, disonesto editore che chiedo 5/600 € per non
fare la carità ai narcisi.
E poi, senza polli e falchi, che
spettacolo ci resta? La poesia, purtroppo, ormai è tutta lì. Dirò soltanto, per
parafrasare Epimenide di Creta: “tutti gli editori sono bugiardi”.
CFR - Quaderni di poetica
Raccolta di saggi brevi
Edizioni CFR – dicembre 2011-
Edizioni CFR
Edizioni CFR
Via Amonini, 9 – 23020 Piateda (SO)
info@edizionicfr.it
ISBN 978-88-97224-30-3
Finito
di stampare
nel mese di dicembre 2011
da
Universal Book srl – Rende (CS)
Per conto di CFR editore
21 commenti:
Sei forte Lucini! davvero forte, fortissimo! E' un fatto bellissimo poter leggere tutto ciò che ho letto ! Ascolta te lo dico in un orecchio: - io sono una gallina, a volte prendo lezioni dagli usignoli, ma ieri ho sentito uno di questi usignoli che faceva,coccodè coccodè senza neanche un uovo! Ciao sei davvero forte fortissimo! Ennio, mandacene ancora! Emy
Peccato che Emy a parte, questa miniera di luci sia ancora deserta. Dev'esser dura la lettura per chi abbia quell'aspetto narciso tacchino sviluppato dietro una corazza che sembrerebbe agitare autonomia e indipendenza e tanta autocoscienza dei fenomeni da cui crede e s'illude d'essere più libero di altri.
Oltre che divertente o gustosa, la lettura è preziosa per uno sviluppo reale delle relazioni e dei rapporti fra " piccoli" di ogni parte della fattoria, mai sottovalutarne la massa critica all'interno di un lavoro per primo individuale nella componente di certi pennuti da esca o becchime, da evolversi come auspicabile in ex-polli alla riscossa.
Ennio Abate:
A proposito di libri acquistati o non acquistati ho trovato per caso questa testimonianza in una intervista fatta a Roberto Roversi poco prima della sua morte:
I suoi amici scrittori?
"Oh no, loro non compravano. Quando riunivo in libreria la redazione di Officina, con Pasolini, Sciascia, Scalia, Leonetti, erano battaglie senza sangue tra cervelli aguzzi che io ascoltavo con ammirazione: ma non capitava mai che qualcuno di loro buttasse un occhio agli scaffali che ci circondavano, silenziosi, gremiti e attenti come palchi di un teatro. E se per caso qualcuno manifestava una certa attenzione per un volume poggiato sul tavolo, era solo perché glielo regalassi... Così preferivo anch'io che non li guardassero troppo, i libri". [...]
Insomma tanti intellettuali, nessun cliente?
"Sciascia era interessato solo alle stampe. Fortini una volta mi chiese di procurargli uno studio sul Tasso, poi però lo trovò troppo caro e non lo comprò. Ma non è colpa loro, capisce. I grandi intellettuali, i libri sono abituati a riceverli in regalo. Non li cercano più, sono i libri che cercano loro".
(da http://cedocsv.blogspot.it/2012/09/roberto-roversi-scrittore-di-fogli.html)
POETA
Scrosta della vita
il fondo
più giù
più giù
pulisce il vetrino
ora è chiaro
tutto agli occhi
è una strage
di polli
niente sangue
solo
-becchi-.
Emy
Si ricava un grande insegnamento dalla lettura di questo saggio.
Lucini ha letteralmente sviscerato il problema evidenziando con acume e freddura tutto quanto c’era da dire per un’analisi che è al contempo lucida e spietata sulle colpe, sulle manchevolezze e ogni altro recondito aspetto della tanto dibattuta questione ‘cosa spinge ancora oggi tanti poveri fessi a farsi spennare vivi, e nel nome di che cosa?’, con un linguaggio che più chiaro non si può...
E dice la giusta e sacrosanta verità su cosa significa per gli inesperti del 'mercato poesia'(i polli)imbattersi in simili imbonitori, così egregiamente da lui tratteggiati.
Che non esistono buoni samaritani né tra i piccoli né tra i medi editori (figurarsi i grandi) non ci vuole che un contratto per accorgersene: una volta stipulato, zitto tu, zitto io! Visibilità per presentazioni e quant'altro uguale a zero, o quasi zero. Tutto dunque viene calcolato in termini di ritorno economico, con buona pace delle aspettative dell’autore e della sua poesia, vera o presunta che sia.
Mi chiedo, allora la poesia è una merce? Pare proprio di sì, da pagare non solo in termini di denaro.
Mi verrebbe da dire però che essere definiti polli - mi presento: sono una gallina anch'io (ma sono in ottima compagnia grazie a Emy)- in un mondo di furbi perlomeno conferisce a noi, poveri ingenui, quel minimo di dignità che tanto manca a quegli altri.
Giuseppina Di Leo
Adesso basta con i polli!!
è razzismo puro
tutti i polli al muro
e suvvia che siamo?
Della vita di un pollo
che ne sappiamo
fino al giorno in cui
ce lo mangiamo?
-Pollo Stupido,bugiardo
opportunista,un guaio!-
ma sappiamo che vuole dire
viver in un pollaio?
Polli unitevi con tutti i pulcini
aguzzate il becco armatevi
aspettatelo tutti vicini
tutti fuori dalla casa
del Lucini!
Emy
C'entrerà anche la vanità, ma ho il sospetto che i poeti si sentano a disagio a dover passare repentinamente da un'attività priva di scopo, che si conclude in se', ad un'altra fatta di costi e guadagni. Non credo sia per ingenuità se mi vien da pensare che la logica dell'economia, quella del Monti-pensiero, sia entrata ormai nel midollo di tutti.
Può far male la stroncatura di critici e intellettuali, (non è escluso che possa essere salutare), ma è niente al confronto dell'indifferenza del pubblico, o peggio, della pubblica stroncatura quelle rare volte che accade. Lo dico perché ogni tanto ne faccio l'esperienza partecipando a reading in locali pubblici, così, per mettermi alla prova come fanno certi scultori che si tengono le mani allenate scolpendo la pietra ( ne ho conosciuti) anche se poi espongono altre cose, più attuali e concettuali.
Il Monti-pensiero è una stortura senza rimedio, pare, e ci si adegua. Inoltre bisogna fare i conti col fatto che la cultura oggi è soggetta alle regole dell'intrattenimento, non perché sia giusto ma perché questa è la condizione richiesta dai più. E finché gli editori cercheranno di soddisfare questa richiesta ragionando solo di carta e copertine non se ne verrà fuori di certo. Il limite sta proprio nel mezzo, nei media che non necessitano di interazione. Ed è significativo che si storca il naso di fronte a internet o, come nel caso offerto da Cornacchia che pubblica senza spese su ilmiolibro. Secondo me c'è un diffuso ritardo nella comprensione degli eventi e si pasticcia col valore delle cose. Serve un'altra mentalità.
mayoor
caro Gianmario e lettori tutti,
c'è una sola ragione che può spingere a pubblicare con un piccolo editore piuttosto che con un altro: LA QUALITA' - il criterio della qualità è quello che meglio può proteggere un libro e un autore dalle altre innumerevoli pubblicazioni degli editori i cui cataloghi sono pieni zeppi di dilettanti e di simil-dilettanti e di semplici amatori della (propria) poesia.
Ed è proprio per questo motivo che dò qui l'annuncio che da gennaio 2013 prenderò la direzione di una COLLANA DI POESIA DI ALTA QUALITA' con le edizioni EdiLet di Roma.
Il vantaggio che offrirà questa pubblicazione è che i simil-dilettanti non verranno mai publicati nella collana da me diretta e lo scrivente si assumerà la piena responsabilità degli autori inseriti nella collana.
Altra garanzia non v'è (e non sono in grado di fornirla) che non sia la QUALITA' DELLE OPERE E DEGLI AUTORI.
cordiali saluti.
Giorgio Linguaglossa
Serve un’altra mentalità: vero, Mayoor.
Se ragionare in termini di profitto è, in termini generali, di per sé ingannevole, applicare tale ragionamento in poesia è semplicemente irragionevole. Al di là degli editori-impostori, la poesia è sicuramente altro (per fortuna) da un tornaconto in termini economici (che non esiste). Il poeta che pubblica lo sa, o dovrebbe saperlo, fin dal principio.
Ma il corollario luciniano sottende a un altro discorso - che lo stesso Lucini svela solo a piccole dosi - ma è quello che davvero importa per chi scrive poesia: la libertà del poeta nel fare e nel proporre poesia.
Dice bene Mayoor (è questo il messaggio che ho colto): la poesia ha le capacità per farcela da sola, e può farcela solo attraverso il confronto con il pubblico, anche a costo di stroncature.
per Linguaglossa:
Leggo con piacere la buona nuova. Con i migliori auguri.
Giuseppina Di Leo
Ennio Abate:
A me pare che il saggio di Lucini dia la sveglia a poeti ed editori e invochi sia chiarezza nei rapporti sia un'alleanza tra loro scendendo giù dal pero (che può essere per gli uni la Poesia e per gli altri il Profitto) e poggiando i piedi per terra (la materialità dell'economia, che non va, secondo me, disprezzata e nessuno può dimenticare a meno che non viva di rendita).
E' questo discorso dell'alleanza che posi con forza in un carteggio con un piccolo editore. L'episodio risale al 2001
quando fui in trattative per una mia raccolta di poesie.
Mi sento di pubblicarlo (ovviamente velando nell'anonimato il mio interlocutore) per la riflessione di poeti ed editori.
****
21 maggio 2002
Gentile X,
ho riflettuto una settimana sulla questione, da me lasciata in sospeso, sulle sorti della mia raccolta di poesie e ora ti comunico la mia rinuncia a pubblicarla alle condizioni che mi hai ribadito per telefono (le stesse di un anno fa). […] Il principio che un poeta, per far conoscere a una cerchia più ampia di lettori una sua raccolta giudicata degna di circolare, debba pagarsi la pubblicazione, non lo riesco ancora a digerire.
Avevo però affacciato anche una proposta "di compromesso", che mi pareva dignitosa sia per me che per voi: io riconoscevo le difficoltà economiche e politiche del piccolo editore mio alleato e mettevo mano al portafoglio, lui fugava ogni sospetto che mi prestasse semplicemente "l'etichetta" (quasi facessi parte di una sorta di "indotto" secondario della sua attività principale). Ma non l'avete voluta o potuta prendere in considerare.
Peccato. Vuol dire che aspetterò che qualche editore (grande e piccolo) affronti con più coraggio e senza ambiguità il fenomeno della moltitudine poetante, a cui sento di appartenere. Oppure, semplicemente, mi accontenterò di farmi ospitare nel circuito delle riviste più o meno clandestine che - come la vostra - segnalano quel che in questi tempi bui eppur si muove.
Senza rancore, specie nei tuoi confronti, porgo cordiali saluti.
Ennio
03 giugno 2002
Gentile Ennio Abate, su richiesta di […]-sempre imbarazzata quando si tratta di denaro- rispondo io alle sue considerazioni: ad una in particolare.
Non c’è nessuna ambiguità nel nostro comportamento: noi scegliamo i libri che ci piacerebbe pubblicare, e poi facciamo una valutazione di ordine commerciale, talvolta valutiamo che il libro si venderà abbastanza da coprire i costi; talvolta valutiamo che la vendita non sarà pienamente sufficiente, ma ci saranno recensioni, presentazioni e “ritorno in immagine”; talvolta valutiamo che un libro venderà pochissime copie.
Questa ultima eventualità è -per la poesia- la norma con pochissime eccezioni.
Noi pubblichiamo più o meno una trentina di libri di poesia all’anno: lei pensa che potremmo -non essendo principi rinascimentali né banchieri- spendere 150 milioni di vecchie lire all’anno in poesia? Lei pensa che ci sia qualcuno in Italia non dico che lo faccia (perché so che non c’è) ma che sarebbe disponibile a farlo?
Noi mettiamo a disposizione dell’autore che ci interessa una struttura, un’organizzazione di distribuzione, canali di promozione e diffusione, un catalogo ecc.; spendiamo quella che lei chiama “l’etichetta” (e che è la risultante di due decenni di lavoro duro e rigoroso); se l’autore lo ritiene opportuno, ci mette dei soldi di tasca sua: altrimenti perché dovrei metterli di tasca mia? Se lei non riesce a digerire l’idea che un autore debba pagarsi la pubblicazione, perché dovrei digerire io l’idea di pagare la sua pubblicazione con il mio denaro, sapendo con certezza che questo non rientrerà?
Cordialità,
Y
Ennio Abate (continua):
6 giugno 2002
Caro Y,
non si allarmi: la mia poesia non vuole strapparle il *suo* denaro.
Ho rinunciato, come scrivevo ad [X], senza drammi e senza rancori alla prevista pubblicazione presso la sua casa editrice della mia raccolta. Perciò non mi aspettavo nessuna risposta e, di certo, non la sua, così risentita e alquanto sprezzante. Ma ci tengo a ragionare; quindi aggiro per quel che mi è possibile la sua ostilità, e le rispondo nel merito.
L’ambiguità, a cui ho accennato (in verità molto velatamente) nella mia ultima lettera, trova numerose conferme proprio in quanto lei mi scrive.
Ambiguo (anche se non in senso tutto negativo) trovo il suo atteggiamento verso la poesia: lei alla poesia dà l'impressione di non essere proprio interessato e di darne una valutazione soprattutto commerciale o d'immagine; e allora perché pubblica «più o meno una trentina di libri di poesia all’anno»? (Logica di mercato vorrebbe che questo "ramo secco" venisse tagliato...)
Altrettanto ambiguo (in senso un po’ più negativo) mi pare il fatto che lei continui a godere in pubblico della fama di editore “controcorrente” e “resistenziale” (che, appunto, malgrado la poesia non si venda, pubblica ben una trentina di titoli di poesia all’anno), mentre la sua è in effetti una resistenza a responsabilità limitata, visto che, come “ormai fan tutti”, chiede che l’autore ( beninteso: esordiente e/o sconosciuto e quindi senza potere acquisito o forza contrattuale) paghi di tasca sua la pubblicazione.
Se lei, come editore, può oggi mettere a disposizione, in modi più o meno efficaci, soltanto «una struttura, un’organizzazione di distribuzione, canali di promozione e diffusione, un catalogo ecc.» e, per forza di cose e indipendentemente dalla sua volontà, deve chiedere agli autori “un contributo” per pubblicarli, perché queste condizioni non vengono rese pubbliche?
S’indigna perché io non digerisco l’idea che un autore debba pagarsi la pubblicazione. E perché mai?
Esistono ancora editori (grandi e piccoli) che rispettano, pur con molte tortuosità e senza il «coraggio» che io auspicherei, il principio sacrosanto per cui, fra chi produce diciamo “l’opera d’ingegno” e chi, mettendo il denaro, la fa conoscere, deve esserci un’alleanza (relativamente) paritaria e non un rapporto strumentale (o da “indotto” secondario, come scrivevo nella mia del 21 maggio c.a.).
Pubblicano cinque titoli all’anno invece di trenta (e magari, di questi 5, tre già sicuri e consolidati), oppure cavano il denaro per la collana di poesia (e altri generi “in disuso”) da altre operazioni più commerciali. (Io stesso condirigo la rivista INOLTRE per la Jaca Book. La rivista è in perdita, come molte riviste e le collane di poesia, ma esce; e noi che vi scriviamo, non siamo certo retribuiti, ma non paghiamo per pubblicarvi i nostri articoli).
Ora io non mi scandalizzo per questo suo trapasso da editore “classico” (che, per quanto io ne sappia, in passato non faceva pagare il poeta, che aveva liberamente deciso di accogliere nella sua collana di poesia) ad editore - diciamo - “a responsabilità limitata”. Può essere stato dettato da dure necessità. Ma perché deve restare in ombra? Se prima lei “digeriva” l’idea di pagare la pubblicazione di un poeta con il *suo* denaro, perché da un certo momento in poi non l’ha più “digerita”? E il trapasso di cui sopra (inevitabile?), quali riflessi sta avendo proprio sull’immagine discretamente “anticapitalista” di Y Editore (quella che mi aveva spinto a proporre la mia raccolta proprio a voi)?
[continua]
Ennio Abate (continua):
Secondo me risulta appannata: il “passaparola” , mica tanto sotterraneo, fra scrittori e scriventi più vigili alle dinamiche editoriali, sta trasmettendo all’incirca il seguente messaggio: “Sai, ormai anche Y fa pagare per pubblicare e, per giunta, non distribuisce”. (Solo dettata da malignità quest’ultima diceria? Resta il fatto che, per quanto mi riguarda, nel contratto che mi avevate spedito a suo tempo, oltre all’acquisto delle 200 copie da parte mia, non era chiaro – né è stato mai chiaro in seguito - quante altre voi ne avreste stampate o mandate in giro…).
E, sempre a proposito di ambiguità, quante ne alimenta la Y Editore presso quella che io chiamo moltitudine poetante (o scrivente)?
Il discorso sarebbe lungo, ma mi limito a dire che incoraggiare o anche cedere alla pubblicazione a proprie spese (mascherate), muoversi alla spicciolata e individualisticamente e in assenza di una seria riflessione critica sulle implicazioni profonde (etiche, politiche ed economiche) che ha assunto la dimensione di massa dello scrivere poesie nel contesto della postmodernità rischia di aggiungere solo una gregaria microcorporazione di poetanti o scriventi di massa, ignara dei suoi compiti veri, alla macrocorporazione accademica e in rovina dei Poeti.
Questi sono i ragionamenti sinceri e non personalistici che mi sento, malgrado tutto, di proporre alla sua riflessione.
Un’ultima precisazione. Sapendo che i tempi sono bui per tutti, anche nelle precedenti lettere ad [X], ho evitato toni irrealistici o rivendicativi nei vostri confronti ed ho insistito sulla mia proposta “di compromesso” (Cfr. ancora il mio e-mail del 21 maggio 2002), sollecitando la cosa a cui più tenevo: stabilire un rapporto chiaro e dignitoso di alleanza con Y Editore.
Non avete speso - né lei né X - una parola al riguardo.
Lei,anzi, difende le sue ragioni senza neppure il saggio (per me) imbarazzo di X. Preferisce respingere ogni dubbio sul suo operato, marcare brutalmente le distanze e la gerarchia esistenti fra noi («la sua pubblicazione», «il mio denaro») e fa prevalere nei miei confronti solo l’aspetto commerciale.
Non mi resta per adesso che salutarla con un po’ di rammarico.
Ennio Abate
[Fine]
Bravo Giorgio. Perché francamente è meglio stampare con ilmiolibro, o lulu o qualsiasi altro sito del genere, sapendo che di stampa si tratta e non di pubblicazione, con costi inferiori a quelli delle fotocopie ma con lo stesso uso (l'ho fatto col mio romanzo) che darsi in pasto a un editore/faina, che pubblica qualunque cosa basta che paghi. E in più definisce polli quelli che lo arricchiscono... saranno pure polli, ma senza quelli lui non campa. Il risultato di quelle pubblicazioni è pari alle fotocopie, solo che te le stampa a peso d'oro e a che serve? Se invece c'è almeno una garanzia di serietà e di scelta di qualità, che escluda il ciarpame, ben venga. Si sente la mancanza di editori come Bino Rebellato e Scheiwiller.
Stare a discutere di principi con gli industriali, Ennio, è tempo impiegato a minchia. Gli industriali vònno fa' i sòrdi e basta. L'unico modo serio di averci a che fare, da poeti, sarebbe chiedere loro compensi faraonici, minimo un milione di euro a poesia. In questo senso è un errore gravissimo lavorare gratis per loro, come dici di fare tu per la rivista. Infatti dal lavorare gratis a pagare per lavorare non c'è che un passo. Se vale il principio...
Larry Massino
Ennio Abate a Larry Massino:
Larry, la poesia non è una puttana e non attira gli industriali. Quello con cui (nel 2001) discutevo non era (per me) ancora un industriale-industriale ma un "compagno industrioso". Se fu errore gravissimo fare una rivista scrivendo articoli gratis, fu un errore doveroso: speravamo ancora che, tramite la rivista, potessimo aggregare degli "intellettuali periferici" non del tutto rincoglioniti o in estasi per Berlusconi e Veltroni (allora).
Ancora una volta, Ennio, giustifichi il lavorare gratis (e questo non piaceva nemmeno a Brecht). Dici che c'era speranza ecc ecc. Cioè a dire che se c'è speranza si può, quasi si deve, lavorare gratis. Prendo atto della tua buona fede, ma lavorare gratis per la controparte non è etico (e nemmeno estetico...). Certo, posso lavorare gratis per il partito, per la parrocchia ecc, all'interno della comunità di cui facciamo parte, " sperando " nel miglioramento della comunità, che porta beneficio anche a noi come singoli. Ma quando da scrittore lavoro gratis per un editore, ancora peggio se " compagno industrioso ", non sto investendo nel miglioramento della comunità, ma nel miglioramento della mia posizione personale nel mondo dell'editoria, nel quale sto sperando di collocarmi meglio in un futuro... Intendimi, Ennio, io non ci trovo nulla di male a lavorare gratis per ambizione (tuttavia io non l'ho mai fatto, pagandone a tutt'ora le conseguenze, per via che l'offerta di lavoro gratuito, nell'italietta culturale è strabordante), ma è francamente seccante il giustificativo ideologico.
Ti faccio capire meglio attraverso cose che sai meglio di me. Mettiamo l'Università: chi ha più possibilità di fare carriera, il laureato povero che ha bisogno di retribuzione per il proprio lavoro o il ricco che può per anni lavorare gratis per il barone? Del resto anche il ricco spesso si dirà che non si tratta di un barone barone, ma di un compagno baronoso...
LM
Ennio Abate a LM
Larry, non giustifico nulla e non lavoro "per la controparte". Il mercato del lavoro non lo gestisco io. Di intellettuali come me, come te, come tanti ce ne sono migliaia. L'offerta rivolta ai lavoratori intellettuali ( oggi per darsi arie si dice ai "lavoratori della conoscenza") è limitata per ragioni politiche. Esistono milioni di disoccupati intellettuali. Le attività gratuite che io faccio ( questo blog, la rivista POLISCRITTURE), le mie scritture poetiche o altro non trovano acquirenti. Lo so in partenza. E per campare ho fatto l'insegnante. Me li trovi tu gli editori a cui chiedere compensi "faraonici" per le mie scritture?
Solo per una ristretta fascia d'intellettuali l'aut aut è tra farsi pagare, che so, 1000 euro o 10mila. Per me, e tanti altri credo, l'aut aut è tra il silenzio e questa attività gratuita. Che rivolgo (così spero) in qualche modo ad altri miei simili e non alla "controparte".
Se tu hai una soluzione diversa, tirala fuori.
Non ce l'ho, Ennio, ma ci sto studiando da sempre. Ad ogni modo non dico che non bisogna lavorare gratis, ché lo facciamo grazie addio tutti; ma che da " scrittori " non bisogna farlo per le imprese editoriali. E' diverso...
Ennio Abate a LM (Massino):
Ma perché uno scrittore si rivolge alle "imprese editoriali"?
Non potrebbe essere lui stesso scrittore, impaginatore, editore, distributore dei suoi testi?
Sì, se avesse il doppio di vita davanti a sé e vivesse di rendita e mirasse ad una forma utopistica di autosufficienza.
No, se sa che la divisione del lavoro non è reversibile, non vive di rendita ma al massimo cava uno stipendio per vivere (di solito da attività "affini" al suo lavoro di scrittura) ed è consapevole che la cooperazione anche se ardua è imposta dalla realtà delle cose.
Perciò ho parlato di possibile alleanza tra scrittore ed editore,
supponendo che se esiste uno scrittore disposto ad allearsi ( io ad esempio) ci può essere anche un editore disposto a farlo.
Se l'alleanza si stabilisce io non lavoro più gratis "per l'editore" ma per un progetto comune.
cari amici e caro immigratorio
se un editore di poesia stampa 30 titoli l'anno, cioè 30 poeti l'anno, vuol dire che in un anno pubblica (ovvero, stampa) 360 titoli (ovvero, poeti). Beh, insomma, qui siamo alla pagliacciata, una tale accozzaglia di numeri fa rabbrividire (permettetemi questo sfogo!), l'editore in questione è uno stampatore che vive sui piccoli sogni degli autori, e allora bene ha fatto l'amico Ennio Abate a non accettare di entrare in questo meccanismo calderone che tritura 360 titoli in un anno e 3600 in 10 anni!
Sarei curioso di sapere l'identità di questo stampatore di sogni, è bene che Ennio Abate la renda pubblica.
Per concludere, io non ci vedo nulla di male se un editore,in una collana rigorosamente selettiva, decide di inserire un mio libro di poesia con il patto di acquistarne un tot di copie e di impegnarmi nella diffusione del libro aiutando l'editore in qualche modo.
Personalmente il criterio di giudizio che mi guida è questo:
1)se l'editore o il direttore di colllana è una persona seria e competente;
2)sapere quanti e quali titoli la collana ha pubblicato;
3) avere certezza che nella collana vengano pubblicati libri di eccellenza, o comunque almeno buoni;
4) avere la certezza che nella collana non vengano pubblicati gli amatori di poesia.
Tutto il resto non ha importanza.
Ennio Abate:
Giorgio, non esageriamo, parliamo pure male degli editori stampatori, ma la matematica dice 30 titoli in un anno=30 poeti in un anno, non 360 poeti in un anno!
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