Questa è la bozza del testo concordato nel 2005 dai promotori dell'inchiesta sulla moltitudine poetante (qui) e poi non più pubblicato per dissensi che portarono allo scioglimento del gruppo. [E. A.]
Il gruppo di lavoro raccoltosi oltre un anno fa attorno all’idea di una prima inchiesta concreta sul fenomeno della odierna diffusione a livello di massa della scrittura poetica rende qui conto dei risultati dell’iniziativa.
Sapevamo
di affrontare una realtà complessa, sfuggente e carica di ambiguità e perciò
abbiamo mirato soprattutto a raccogliere elementi conoscitivi concreti,
proponendoci un obiettivo in apparenza minimo:
dare la parola e far uscire dal vago i tanti che conducono in solitudine
o in piccoli gruppi la propria ricerca poetica.
Da qui
l’invito rivolto ad interlocutori in parte poco conosciuti a confrontarsi con
noi promotori alla pari, rispondendo ad un questionario dettagliato, a volte
anche pedante nella sua meticolosità sociologica (lo riconosciamo), ma
sicuramente insolito rispetto al gommoso diplomatismo che caratterizza gli
ambienti letterari italiani o all’aura, sacerdotale ed elitaria, che è tornata
ad avvolgere la pratica poetica nel nostro paese, dopo le pirotecniche stagioni
neoavanguardiste o sperimentali.
Il
questionario (Cfr MOLTINPOESIA APPUNTO 5) presentava 8 gruppi di domande - una quarantina in complesso -
riguardanti molti temi: poetica adottata;
contatti con poeti, critici e case editrici; motivazioni della propria
scrittura; definizione della poesia;
scelte linguistiche; ecc.) e dava ampia libertà di risposta: se qualcuno
riteneva gravoso esaminare tutti i punti o
tutte le domande, poteva scegliere quelli o quelle che più sollecitavano
la curiosità o toccavano sue corde
profonde. Per autodifesa, ci eravamo concessa un’unica raccomandazione: la
risposta ad ogni singolo punto non doveva
superare all’incirca le 2000 battute (due paginette, se scritte a mano).
Abbiamo
spedito un centinaio di questionari e ricevuto una trentina di risposte. Poche?
Molte? Noi, al di là di ogni valutazione
quantitativa, siamo soddisfatti e
ringraziamo sinceramente questa trentina di “colleghi” e “colleghe” in poesia,
che si sono messi a tavolino o al computer per la disponibilità e l’attenzione
dimostrataci.
Infatti,
questo sia pur limitato campione dei tanti che oggi si dedicano alla scrittura
poetica ha messo in luce aspetti veri delle motivazioni soggettive e delle condizioni
oggettive in cui essa si svolge; e che solo in minima parte sono riconducibili
alle regole delle istituzioni poetiche (autori, gruppi, riviste) anche di un
recente passato.
Analizzate
le risposte, è nato però un problema: pubblicarle e basta o interpretarle,
cercando di coglierne il possibile senso? o almeno dire quali reazioni hanno
suscitato in noi promotori dell’iniziativa?
Adottando
la prima via ci pareva di ricadere nel consueto e dannoso diplomatismo cui
abbiamo accennato sopra e di interrompere così quel dialogo-confronto
che abbiamo voluto e che almeno in trenta hanno mostrato di accettare.
Ribadendo, perciò, che le nostre considerazioni vogliono essere interlocutorie,
provvisorie e rimanere sul piano dello
scambio di giudizi alla pari, abbiamo scelto
di pronunciarci anche in modo non unanime su due punti rilevanti, che
pensiamo di dibattere in seguito con gli stessi interessati in un incontro da
fissare, approfondendo se possibile il rapporto stabilito con l’invio del
questionario.
Li formuliamo
così: 1) le risposte che ci sono
pervenute accennano ad una qualche
tendenza che incoraggi il dialogo
fra i tanti che oggi in Italia scrivono
e s’interessano alla poesia?; 2) nel loro “bagaglio culturale” (esperienze
vissute, motivazioni, poetiche o autori di riferimento, richiamo a qualche
“tradizione” o rifiuto di ogni “tradizione”, ecc.) s’intravvedono elementi innovativi?
Alcuni di
noi hanno avuto l’impressione che in molte risposte prevalgono individualità
gelosamente chiuse in se stesse, solo a tratti veramente dialoganti e piuttosto
portate a “marcare le distanze”.
Si
rivendica, infatti, l’utilità, la necessità, il valore oggettivo del proprio
fare poesia, come unica vera difesa da una oscura e incombente minaccia o una
inadeguatezza delle pratiche altrui. Ad esempio, nessuno o quasi vuole sentirsi
parte di una moltitudine. Affiora anzi il fastidio per l'odierno
eccesso di produzione di poesia o pseudopoesia, che verrebbe scritta da “altri”
senza necessità interiore, senza adeguate conoscenze tecniche, e quindi solo
per sfogo. Ma per se stessi c’è quasi automaticamente una sorta di
autoassoluzione da questa “dissipazione
poetante”: o direttamente o tramite il ricorso al giudizio degli amici, che
è davvero debole garanzia.
Questo duro
nocciolo individualista di matrice romantica (e che spesso privilegia in poesia
il genere lirico-elegiaco-intimista) sembra scoraggiare ogni sortita dai piccoli mondi letterari, che sono spesso
acritici, compiacenti e neppure tanto “terapeutici” come si pretende. Di
conseguenza, l’ipotesi di confronto, cooperazione e solidarietà, che almeno per
qualcuno di noi era implicita nel concetto di moltitudine poetante che faceva da titolo all’inchiesta, pare messa
in crisi.
In secondo luogo - e sempre per alcuni di noi - dalle risposte emerge un attrito confuso fra concezioni di poesia o troppo vaghe o troppo ancorate a scuole ed etichette ereditate dal Novecento. È giudizio abbastanza comune che oggi il campo della poesia sia mal definito o indefinito; e ci si muova in ordine sparso, atomizzati e ormai senza bussole. Quasi nessun punto di convergenza pare possibile con gli “altri” o le “altre” che pur s’incrociano o con cui si convive in riviste, letture pubbliche, cenacoli letterari, ecc. Si tratta di una condizione negativa di deriva inarrestabile e duratura? O proprio l'atomizzazione generale può essere considerata paradossalmente persino una buona occasione per tentare il nuovo?
Infatti, sulla domanda chiave:
cos’è la poesia per te che la fai, abbiamo avuto - in pillole e alla rinfusa e
spesso con una buona dose d’ingenuità ignara della realtà e delle svolte
epocali di cui siamo testimoni - proprio la gamma delle scuole ed etichette poetiche
del Novecento.
Scuole ed
etichette nobili quanto si vuole, che ancora ci parlano e amiamo e delle quali
si può anche dire che possono servire per nuove costruzioni, ma solo se si
avesse il coraggio di porre il problema di un nuovo disegno e si tentasse di concordarlo con altri e altre. Ma
fin quando ognuno/a tiene gelosamente stretta al petto la sua etichetta preferita, ritenendola l’utensile
di per sé più efficace, ogni cooperazione apparirà pura utopia (e si sa - nella pratica e in piccolo - poeti e
poetesse sanno essere spesso cinici e
ultrarealisti quanto i managers e i politici più rampanti).
Per non restare nel vago, ecco l’elenco
schematico delle definizioni date della poesia: suono che va verso un senso; frantumazione del
senso; idealistico progresso per stadi di un sostrato emotivo; autoanalisi;
funzione sociale, ma ridottissima perché circolante solo tra poeti e
critici; veicolo alla trascendenza; in
relazione privilegiata con la fotografia, con le immagini, col mondo delle
emozioni, con filosofia e politica (ma secondo modelli del tutto astorici); una
sorta di Eden d’innocenza e bellezza; interiorità; in fuga dall’interiorità
verso la scienza, la realtà, la vita, il «piacere dell’esserci», ecc.
La poesia
parrebbe essere, dunque, - di volta in volta ma anche contemporaneamente - una
strada per la conoscenza, un baluardo antiutilitaristico, un veicolo potenziale
di messaggi forti, una testimonianza e memoria, una forma alta di comunicazione
(sociale, politica, ecc.), uno strumento per conseguire una qualche investitura
sociale.
12) Definizioni
così varie e ambiziose lasciano perplessi ma concordiamo tutti sul fatto che
sicuramente tali risposte andranno scavate di più, magari considerandole per
ora solo come spunti da approfondire (ad es. attraverso delle interviste).
In
conclusione possiamo dire che il questionario
ha funzionato sì da specchio, ma in modo limitato. Resta il dubbio:
limite dello specchio o reticenza di chi si è specchiato? Ma è un primo passo.
Lasciando da parte ottimismo o pessimismo, ci pare giusto attestarci su un’etica della ricerca: insistere insomma
per trovare coraggiosamente quel “qualcosa” di buono (o di peggio!) che non è
venuto fuori in questa occasione.
La
pubblicazione dei risultati della nostra inchiesta rilancia la sfida e chiama
nuovamente al confronto.
1 commento:
Premesso che non posso dare un giudizio di prima mano su tale questionario, ma debbo partire dalle considerazioni che fanno i curatori, vediamo un po’ cosa posso aggiungere:
1) – “Si rivendica, infatti, l’utilità, la necessità, il valore oggettivo del proprio fare poesia, ecc.”- Ecco, io non so se questo atteggiamento sia “Romantico”, come scrivete voi; di sicuro questi autori sono “in corto circuito” in primo luogo col mestiere stesso del poeta.
Perché se c’è comunque una necessità interiore che deve muovere le acque e una ricerca tecnica che poi la sostiene, non ci si deve poi chiudere al confronto “coi propri simili”: ovvero con quanti seguono almeno questi due punti; senza scordare poi il terzo, ovvero la coscienza che il proprio prodotto può essere utile agli altri, quindi ci si deve sforzare di farlo arrivare all’universo mondo dei potenziali lettori.
Parlo di “corto circuito”, perché questo atteggiamento è più che altro frutto di un errato concetto che si ha del poeta come soggetto culturale e artistico: concetto fuorviato dai giudizi borghesi nati con i cambiamenti dal XVIII secolo in avanti.
2) – Tale idea mi viene in qualche modo confermata dal presunto non superamento delle cosiddette “scuole del Novecento”: beninteso un autore può anche far partire il suo percorso dal Marinismo cinquecentesco, o da scuole e/o autori pure precedenti; ma a patto che poi ci sia appunto un superamento dei modelli di partenza.
Tale mancanza (e la conseguente mancanza di confronti con altre realtà poetiche contemporanee) implicherebbe una lettura solo mitizzata, secondo le concezioni della cultura borghese di massa, di ciò che significhi esser poeta e fare poesia: confermando in questo modo quell’idea di “corto circuito”, che ho espresso al punto precedente.
Un fenomeno analogo a quello che si vede anche in pittura, con tanti autori che restano ancorati alla riproposizione di stili e contenuti tipici delle Avanguardie Ottocentesche, incapaci come sono di comprendere i motivi che portarono al superamento dell’idea che le arti visive fondamentali – pittura e scultura – avessero come compito la pura e semplice rappresentazione della realtà.
Va anche detto che tale rifugio nel passato è peraltro riscontrato in tutte le epoche, come comportamento della maggioranza: pochi si rendono conto, oggi, che quanto noi consideriamo “classico” ai tempi nostri, era “avanguardia” al suo apparire; e degli ostacoli che dovettero affrontare a livello di accettazione pubblica per esempio gli artisti Rinascimentali.
Questo è quanto mi sento di dire, vista anche i riconosciuti limiti del questionario stesso: che proprio per questo andrebbe a mio parere sicuramente approfondito e/o ampliato.
Posta un commento