Faccio circolare anche tra i moltinpoesia alcune poesie di Gianfranco Ciabatti (1936-1994). Le
prelevo dal «medaglione artigianale» curato da Roberto Bugliani a quindici anni
dalla sua scomparsa su Nazione indiana (16 aprile 2009, qui),
dove si trovano anche informazioni sulla sua vita, la sua militanza politica e un
prezioso rimando al n. 34-35 della rivista Allegoria (gennaio-agosto
2000), che gli dedicò una sezione con interventi di Timpanaro, Luperini,
Fortini, Cataldi, Commare.
Le riprendo perché
Ciabatti, non intaccato né dalla sconfitta politica né dalla malattia, ha
voluto e saputo parlare fino al momento della morte in «prima persona plurale», usando un «tu»
collettivo e di classe o il «noi» della
storia ormai di un’altra epoca. Ha mantenuto, cioè, un rapporto conflittuale di fronte alla realtà sociale modellata dal Capitale. Non si è “dato pace” (neppure con il "piacere della lettura", aggiungo maliziosamente!).
Quel «noi», oggi, se siamo vecchi, è svanito dai nostri
discorsi, tornati fin troppo facilmente all’«io»
o al massimo a un inquieto «io-noi». E, se giovani, non è quasi più pensato
come possibile, anzi è spesso deriso. Lo dico senza moralismo. Come presa d'atto di una realtà (ostile e da combattere per me).
Riporto l’attenzione
a questa sua poesia per un’altra ragione. Ciabatti, pur scrivendo poesie (tra
altre cose), adottò, come sottolinea Bugliani, «un lirismo rovesciato o
negativo» e mai abbandonò certi temi “bassi” e “ignobili” alla Brecht. E fu consapevole - per dirla con Fortini - dei confini della poesia . E cioè? Lo spiega bene un commento di ng
sotto lo stesso post di Nazione Indiana: «a differenza di tanti autori che pure
mirano a politicizzare il segno, [Ciabatti] aveva ben presente la differenza (e
la contraddizione) tra la prassi poetica e quella politico-ideologica; ben
sapeva che l’azione nella parola, quand’anche condotta in opposizione, è ben
poca cosa rispetto a quella nel reale, unica veramente capace di trasformare
una situazione». Che, si deve aggiungere, ora che i tempi sono diventati ancora
più bui, è ipotesi più ardua, ma mai da
abbandonare, anche se fossimo costretti per quel che ci resta da vivere soltanto a scrivere poesia. [E.A.]
Dal di
dentro
Poiché dobbiamo
viverci,
teniamo pulita la nostra prigione,
apriamo i vetri all’aria del mattino
zufolando immemori
che un giorno il
sole ci accecherà
e la strada sarà troppo grande, per noi,
tremanti passi di convalescente
deboli sotto la madida pelle.
Noi dovremo
allora richiamare
gesti antichi alla mente, ricusare
la pace che consente con la legge del silenzio,
tollerare la dura libertà
(aprile 1962)