di
Ennio Abate
La ragione
dell’ordine, la dimostrazione del disordine, e tu règgile. L’uno che in sé si
separa e contraddice, e tu fissalo; finché non sia più uno. E poi torni a esserlo,
e ti porti via.
(F. Fortini, L’ordine
e il disordine,
da Questo muro,
in Una volta per sempre, Einaudi,
Torino 1978)
Premessa
Partiamo
da qui: è crollata una chiara definizione dei confini della poesia, è stata svalutata dal prevalere della società
dello spettacolo e dalla TV la lettura in generale e lo studio di quei testi, che autorità
riconosciute nel campo della critica e nella comunità dei poeti avevano fino a
ieri garantito come poesia. La poesia,
come dopo un’esplosione, sembra disseminata dappertutto: nelle canzoni, nei testi di amici e conoscenti, nei poeti
pubblicati dai massimi e dai minimi editori, nelle plaquette autoedite, sul Web…
Questa
crisi ho cercato di leggerla attraverso il fenomeno dell’essere molti in poesia. Che
è sotto gli occhi di tutti, ma rimosso, non pensato, poco indagato nei suoi
aspetti ambivalenti, positivi e negativi. La proliferazione elefantiaca e incontrollata delle scritture poetiche,
parapoetiche o similpoetiche (Raboni) è dovuta a tanti fattori (sociali,
economici e tecnologici) sui quali qui non posso fermarmi.[2]
Ma mi preme indicare come concausa anche il disarmo della critica. Che, tranne
eccezioni, ha preferito affrontare la crisi della poesia (e di se stessa)
tirando i remi in barca e vivendo di rendita, come fecero gli antichi mercanti
borghesi che, durante il Seicento, nel periodo della rifeudalizzazione,
diventarono proprietari fondiari e rinunciarono ai rischi “militanti”. Il
problema di cosa in tale produzione sia o non sia poesia (o se, non più dopo
Auscwitz, ma dentro questa globalizzazione selvaggia, abbia ancora senso scrivere
o fare poesia), non è stato neppure affrontato o non ha ottenuto ragionevoli risposte.
A sei anni dai suoi inizi (2006) c’è da dire che il
Laboratorio Moltinpoesia, nato per
capire proprio tale fenomeno, non è quello che dovrebbe essere: uno dei
luoghi possibili della difficile progettazione di un essere (criticamente)
molti in poesia; e neppure uno dei soggetti di una vera democratizzazione della
poesia, un po’ diversa da quella deludente promossa dalla scuola di massa a
partire dagli anni Sessanta e poi dall’industria culturale o spettacolare. In
esso solo saltuariamente è stato possibile
discutere a fondo della crisi della poesia o delle sue cause (è dovuta
al prevalere dei mass media, che poi sono una delle emanazione di Das Kapital o
no? al venir meno delle Grandi Narrazioni, sulle quali la poesia in passato poteva
appoggiarsi? alla “mutazione
antropologica” pasoliniana? alla
globalizzazione “selvaggia” delle
culture nazionali o locali?).
Non si è capito neppure a
sufficienza che l’essere molti in poesia è uno dei segni della crisi della
poesia e non la soluzione già trovata; e che una ipotetica democratizzazione
della poesia (sulla quale mi va di scommettere, sapendo però che di scommessa
si tratta…) è tutta da pensare; e richiederebbe di essere perseguita con
strumenti adeguati.
Se altrove la crisi della poesia
si manifesta nelle ingessature elitarie o neosacerdotali, nel Laboratorio, data
l’impronta democratica del suo progetto, s’è manifestata più spesso con spinte
democraticiste. Che sono affiorate, ad esempio, in discorsi del tipo “tutto è
poesia”, “ma a che serve la critica?”, “non esistono più canoni e, dunque,
criteri per distinguere poesia da non poesia”. O in proposte (purtroppo astratte
e mai seguite da iniziative conseguenti) di “evangelizzazione poetica” nei
confronti di quanti “non leggono poesia” e andrebbero “sensibilizzati”. O
ancora in vaghe intenzioni di fare del Laboratorio uno strumento di rivalsa o di contestazione
dei poeti esclusi o emarginati (che in effetti sono molti) nei confronti di quelli affermati.
Non vorrei che persino la scelta dell’immagine del Quarto stato di Pelizza da Volpedo come
logo del fogliettone[3] o del blog, simbolo
per me di un legame ideale con la tradizione del movimento operaio, avesse
suggerito solo una facile e superficiale analogia con i molti in poesia.
Il Laboratorio è stato vissuto
perlopiù come una microcomunità più emozionale (come tante in verità) che
operativa, nella quale si sta per uscire dalla solitudine, incontrarsi, leggere
soprattutto i propri versi, ricevere incoraggiamenti.
Non sarebbe una funzione in sé disprezzabile, ma certo è un suo uso improprio
che non può essere predominante (a meno di non cercare nella poesia le consolazioni
della religione o del gruppo terapeutico).
Nel
2012 l’ipotesi di partenza del Laboratorio Moltinpoesia pare reggere: esiste
una nebulosa di molti in poesia ampia, meno passiva rispetto al tradizionale pubblico della poesia ed essa può/deve cercare
la sua strada in poesia (o accertarsi
che è bloccata e indirizzare altrove le
sue energie). Ma lo deve fare tenendo conto che la poesia è in crisi; e che
ambivalenze, velleità, narcisismi,
passiva adozione di modelli poetici assunti criticamente non giovano. Va detto
onestamente e senza pietismi o diplomatismi che non tutti, ma molti dei molti, in poesia cercano di entrarci col piede
sbagliato. È come se s’introducessero in una bottega artigiana, che non hanno
mai visto o di cui sanno per sentito dire, ma subito pretendono di usare gli attrezzi che lì trovano,
rifiutando il necessario studio che l’arte poetica di un tempo richiedeva anche
solo per essere compresa. Va detto pure che molti dei molti spesso non entrano
neppure nel reale terreno storico che fu
della poesia, ma seguono piste diverse,
quelle più di recente aperte dalle avanguardie o dalle neoavanguardie. In
questi casi è come se la poesia la si afferrasse già nella vita (nelle emozioni, in una sensazione, in un’intuizione) e che si
debba semplicemente trascriverla o esprimerla
solo improvvisando e mescolandola con altre forme espressive: dal cabaret al teatro, dalle arti visive alla vocalità o
alla gestualità. E in molti dei molti, infine, è strabordante la coazione a
partecipare, a pubblicare o a non aspettare, a non confrontarsi con gli altri, a cercare soprattutto amici di
solito dal facile applauso. Ci si occupa insomma della poesia in preda a
passioni oscure che non vengono mai,
neppure nella scrittura, sufficientemente chiarite. Insomma, la discussione del
Laboratorio Moltinpoesia tra 2006 e
20012 ha mostrato quanto un progetto (poco
definito al suo nascere o poco inteso da chi vi ha aderito?) calamiti ideologie e immaginari che potrebbero arricchirlo
solo a patto che si riesca a orientare le
energie e a lavorare dentro la realtà, assumendosene la fatica e i rischi.
Parafrasando il Fortini del «Non
esiste un Petrarca per tutti», dobbiamo dire più decisamente che non esiste un Parnaso
per i molti. Tra l’altro esso oggi è alquanto diroccato, anche se quelli che ci
stanno o ci sono entrati per il rotto della cuffia effettivamente danno mostra
di scacciare i molti e di arruolare solo alcuni
giovani sacerdoti per l’improbabile pomerio dei veri
Spiriti Magni. E tuttavia, quelli che sono o si sentono esclusi e, come la
volpe di Esopo, dopo alcuni salti vani rinunciano all’uva, possono autorizzarsi
da soli e dichiararsi poeti o con una qualche pubblicazione o con una rivista o
con un blog, insomma con un Parnaso
fai-da-te, che è evidentemente un surrogato di quello - ripeto -
diroccato e cadente? O ricopiare sempre più stancamengte il gesto ribelle dell’avanguardismo?
In ogni caso il vero problema è
che la crisi della poesia come istituto si fa sentire sugli uni e sugli altri,
sui pochi e sui molti. È come se fossero impraticabili le strade sia del ritorno
ad un passato idealizzato sia della proiezione in un futuro delineato almeno in alcuni suoi contorni. Siamo
in mezzo al guado. E ci dibattiamo tra
mito delle origini e nevrosi della fine[4] o nello stagno della post-poesia e dell’epigonismo, come denuncia Giorgio Linguaglossa,[5]
o tra rifondazione ed
esodo (come tendo a dire io). Per riflettere assieme su questo blocco
della ricerca poetica e critica ecco otto tesi tutte discutibili e da discutere…
1. Essere molti in poesia è prendere atto che non esiste una sola poesia
Perché essere
molti in poesia e non semplicemente essere
in poesia[6]? Perché la poesia
non è (mai stata) una; e non è neppure il luogo dove una pluralità di soggetti
la producono convivendo rispettosamente tra loro. Sono esistite in altri tempi
(forse più limpidi se non tranquilli) le patrie
lettere. Non esistono oggi. Né abbiamo una ONU della poesia mondiale né un internazionalismo poetico, ma solo una “Babele
poetante” che ricalca in piccolo la Babele globalizzata. La poesia resta,
almeno a partire dall’Ottocento, un campo disomogeneo in sé e dai confini
variabili e di continuo ridefiniti sotto le spinte più varie (nobili e meno
nobili). In poesia un’opposizione storica - pochi /molti - per me resta
significativa. Il suo campo, infatti, ora sembra restringersi e iper-formalizzarsi
per il prevalere nei singoli o nei gruppi organizzati che vi intervengono di
una visione elitaria; e ora sembra ampliarsi
sotto la pressione di spinte democratiche. La crisi
della poesia può essere letta, dunque, anche
alla luce di tale opposizione. In poesia ci si aggrega e ci si divide, ci
si confronta e ci si scontra anche
nel voler essere pochi o molti a farla o a parlarne.[7]
Non esiste, insomma,
una Casa della poesia nella quale
abitare tutti in santa pace, come pur ciascuno nel profondo di sé magari
desidera. E perciò, come in tutti gli
altri campi della vita, le persone reali
che, dall’epoca moderna in poi, s’occupano di poesia (poeti, lettori, pubblico
che segue le iniziative, critici, contestatori della poesia) di continuo,
generazione dopo generazione, stabiliscono e ristabiliscono valori, gerarchie e
mode al posto di valori, gerarchie e mode concorrenti o opposte alla propria (elitaria o democratica), che del resto alludono a concezioni diverse non solo
della poesia ma dei rapporti sociali
possibili nel mondo storico.
2.
Essere molti in poesia
non
significa che lo siamo già: è una contraddizione da gestire e un progetto da
costruire
Il
termine moltinpoesia contiene in sé
una contraddizione. Essere molti in
poesia è come voler essere molti in
cima a un monte (magari il Parnaso) o voler abitare dentro un vetusto edificio,
costruito secoli fa e pensato per soddisfare le esigenze di pochi
(malgrado una secolare ideologia
universalistica che va dal Convivio
ai nostri giorni). Non è possibile. Già
Fortini ammonì: non esiste il Petrarca per tutti. E coerentemente le
avanguardie artistiche del primo Novecento, quando assaltarono la Casa della
Poesia di allora, mirarono a distruggerla non ad abitarla. Sapevano bene che i molti non potevano starci e
avevano bisogno d’altro. Mirarono a una rivoluzione, non a un cambio di
proprietà. (Anche se poi, sconfitti, quando non si suicidarono, ripiegarono e
si adattarono a spodestare i precedenti inquilini
per mettersi al loro posto. Anche se nessun esercito “proletario” raggiunse mai
il terreno dove le avanguardie avevano distrutto/innovato. Anche se una poesia
per tutti, sognata ad es., da Eluard non ci fu).
Va aggiunto che la crisi non tocca solo i molti in poesia ma anche i pochi
in poesia. Dopo i tentativi rivoluzionari delle avanguardie primo
novecentesche, non c’è stata più la Poesia
di prima o di sempre; e la crisi non ha fatto che prolungarsi fino ai nostri
giorni. I molti che sono entrati in poesia hanno trovato un campo in crisi e
comunque organizzato per le esigenze di pochi.
Hanno cercato dei maestri e non ce n’erano più. Oppure i pochi
vecchi maestri sopravvissuti non davano risposte ai loro bisogni. S’era
rotta, già attorno agli anni Settanta,
una continuità nella stessa trasmissione dei saperi poetici. E, dunque, l’ingresso disordinato e inquieto dei molti
in poesia ha trovato una situazione disordinata e caotica: la stessa, di cui soffrono le pur recidive corporazioni nepotistiche. (Un processo
simile è accaduto anche nella scuola. Dalla ventata del ’68, quando i molti, prima esclusi dalla scuola “di classe”, vi
penetrarono tentando senza riuscirci di
cambiarla, la scuola non è più quella di prima, malgrado le apparenze, ma geme in perpetua crisi. Per non
parlare più in generale della democrazia…)
3. Essere molti in poesia è
soprattutto essere laboratores di poesia (essere
in laboratorio), più che oratores della
Poesia sacerdotale o bellatores
della Poesia d’avanguardia
Per correggere un’immagine
ingenua o falsata dell’essere molti in poesia, bisogna dare importanza all’idea di laboratorio (tra poeti e poeti, tra poeti e critici ed
altre figure ancora…); e quindi al lavoro, ad un’attività niente affatto naturale o spontanea, priva di ostacoli e
soprattutto non romanticamente solitaria. Solo in un’attività di laboratorio le
due spinte fondamentali del fare poesia - quella espressiva dell’ ‘io’
(privata, individuale, apparentemente libera) e
quella pubblica del ‘noi’ (sorvegliata, critica, pedantemente normativa)
- potranno ritentare un confronto. Il laboratorio può/deve funzionare da cerniera tra il momento della ricerca in solitudine
dei singoli poeti e il momento dell’incontro con gli altri. Avvertenza: ma non
è facile costruire un buon laboratorio, farne un luogo di cooperazione, imparare
da altri ed insegnare ad altri su un
piano di rapporti tendenzialmente paritari, malgrado differenti orientamenti e
tensioni inevitabili. Non basta avere delle buone intenzioni o rispettare con
convinzione una logica democratica di comunicazione tra singoli e singoli, e
poi tra il singolo e il gruppo (che ha
dinamiche proprie), e infine del gruppo in rapporto ad altri gruppi. Non basta concordare sull’obiettivo
di moltiplicare le potenzialità costruttive reali di tutti quelli che entrano nel
discorso che si va costruendo.
Anche nel laboratorio e nelle posizioni dei singoli echeggerà la medesima
tensione tra molti e pochi.
4. Essere molti in poesia è ricongiungere il fare poesia col fare
critica
Bisogna
riaccostare il fare poesia al fare
critica e non, come accade oggi, separare o contrapporre le due funzioni. E
non perdere di vista la ragione profonda
del loro “starsi addosso” anche in passato. Oggi si finge che non sia così o
che non sia più possibile. Eppure poesia
come espressione e poesia come critica convivono quasi dall’inizio. Ciascuno s’accorge
di stare tra due fuochi contrapposti: dell’esprimersi e del censurarsi, del dire senza freno e del
dire controllato, dell’ascoltarsi e del non ascoltare gli altri, del criticare
e non criticare, del sottoporsi alla critica e dell’averne timore. Ma è
solo un’ideologia (romantica o
classicista) che induce ad isolare l’espressione rispetto al controllo formale
o viceversa. È vero, oggi l’alleanza, mai priva di contesa, tra poesia e critica non è affatto facile.
Entrambe sono boccheggianti. Né la situazione incoraggia. Ma bisogna insistere.
Non si può poetare né criticare azzoppando uno dei due piedi o saltellare su
uno solo.
5. Essere
molti in poesia è rendere scorrevoli i rapporti tra livelli alti medi e
bassi del fare poesia (o parapoesia o similpoesia)
Nei molti che oggi vogliono fare
poesia ci sono differenze reali di preparazione e di consapevolezza dei problemi
della poesia. Parafrasando
Spinoza, che si riferiva alla lingua, potremmo però dire che la poesia «è conservata contemporaneamente sia dal volgo che dai dotti» e che il suo
senso è prodotto dall’uso che ne fanno sia i più «dotti» che i più
«ignoranti». Se alcuni poeti o poetanti ne sanno più di altri, questo non significa che la loro conoscenza
debba servire a istaurare rapporti di obbedienza o di timore reverenziale.
Eppure realisticamente è questo che accade il più delle volte. Il fatto che poeti di lunga pratica o
con talento straordinario scrivano ottime poesie sarebbe un arricchimento per
gli altri, perché accedono a un patrimonio di saperi di cui godere e da sfruttare.
Ma, affinché i molti in poesia possano inoltrarsi sui percorsi aperti dai
grandi poeti, c’è bisogno che venga
corretta (non ci illudiamo di superarla a parole!) la divaricazione fra specialismo e dilettantismo, fra «eccellenza»
e «mediocrità», fra «uomini di qualità» e «uomini senza qualità». E qui
c’imbattiamo purtroppo nel’area scivolosa degli utopismi che hanno
caratterizzato molto Novecento “democratico”; e che hanno fatto cilecca. Qui il
discorso sulla crisi della poesia va intrecciato
per forza di cose con dei bilanci severi della
crisi del progresso, della democrazia e del fallimento del comunismo. Le
semplificazioni e i dubbi sono in agguato. Come si fa a predicare la democrazia
in poesia, se la stanno azzerando nella società? Che senso ha portare i molti
in poesia mentre la poesia quasi non c’è più? Non è possibile placare dubbi e scetticismi con
risposte rassicuranti. È possibile solo reggere la contraddizione, scommettere su ciò
che pare il meglio senza abbandonarsi al nichilismo e vedere
cosa avverrà. Anche se i tempi sono bui,
almeno si può scommettere. E nel frattempo tentare di rendere fluidi i contatti
tra espressioni e discorsi che si sviluppano ai piani alti, medi e bassi della ricerca. O mettere
in relazione le singolarità “forti” e quelle
“deboli”, affinché qualcosa possa pur scorrere in una direzione e in quella inversa, non irrigidire le differenze, non ingessarle o considerarle insuperabili, fino cancellarsi a
vicenda e a chiudersi in pose
identitarie o di superbia statuaria o di tragicità orgogliosa. Ecco perciò la
necessità di una presa di distanza da
entrambi gli snobismi più incalliti (quelli
elitari e quelli democraticisti), refrattari entrambi non solo al confronto ma persino
allo scontro; e alla fine tendenti al ghetto (o dorato o plebeo). Bisogna
puntare agli scambi, alle dialettiche ( ma non più a senso unico, come
quelle progressiste o pedagogiche, che spesso sono partite dall’alto di una
Tradizione per depositarsi nel basso della quotidianità, verniciandone la miseria
senza però rivitalizzarla).
6. Essere molti in poesia è costruire una nuova estetica
Uno dei punti massimi di resistenza sta nella difficoltà
di apprezzare il bello di essere molti. Lo so che l’espressione è quasi scandalosa,
perché nella cultura e nella poesia italiana persiste una illustre tradizione
di sensibilità anti-molti (ridotti
a folla o a masse informi sempre e solo minacciose). Uno dei
rappresentanti di questa solidissimo
pregiudizio fu Eugenio Montale. Ma tutta la storia letteraria e la storia tout
court ci mostrano esempi a iosa di un elitarismo, ora occulto ora mascherato; e
anche nella Sinistra che si è voluta democratica. E perciò è davvero arduo
smantellare un monumento ideologico tanto imponente. Che esistano empiriche,
storiche ed accertabili differenze di qualità fra i testi o fra le facoltà
degli individui, che non si debbano negare le gerarchie fra bello e brutto,
riuscito e non riuscito, mi pare indiscutibile e facile costatazione. Ma
accettabile solo a due chiare condizioni: - che esse, da provvisorie e
accertate nella realtà, non diventino permanenti e “naturali”; - che non si taccia
sul grado di violenza che comunque fissano a livello simbolico (e quasi sempre
a vantaggio dei pochi).
Potranno mai ‘eccellenza’ e ‘mediocrità’ avere un altro
senso (includente e non escludente)? Non so dirlo. Diffido sempre più sia delle
facili proiezioni utopiche sia del realismo statico. Mi pare giusto riconoscere
e anche valorizzare tutte le possibili differenze, senza però
irrigidirle per sempre come fa il
pensiero elitario (liberale, razzista, classista o sessista) e senza fissare - con un automatismo che ha profonde radici inconsce tutte da indagare -
tale operazione in gerarchie addirittura “naturali” del tutto
indimostrate teoricamente. In poesia, dunque, mi pare pensabile , anche se ardua come ho
detto, una valutazione dei testi di chiunque
secondo una dialettica fra riuscito e non riuscito. Come mi sembra possibile un andare
avanti e indietro del pensiero critico fra livelli qualitativamente alti, medi, bassi e viceversa, senza limitarsi a separare definitivamente
e di netto l’eccellente dal
mediocre (e dunque anche il poetico, dal parapoetico o dal similpoetico).
Ripeto: non si tratta di negare le gerarchie, ma di non renderle statiche e respingenti. Non
si può comunque continuare a difendere in poesia una qualità neutra, una
bellezza neutra. Non solo perché a me pare continui ad avere dei connotati troppo elitari. Ma anche perché
le sue estensioni “democratiche” sono spesso soltanto un annacquamento di valori nati dai modi di vita
delle élite oggi impraticabili (insomma: il Petrarca per tutti). I modelli di
questa bellezza neutra, continuamente riusati e quindi convalidati socialmente
(prima attraverso la scuola e oggi soprattutto attraverso i mass media), diventano indiscussi e,
automaticamente, con la loro evidenza materiale ed emotiva impediscono di porre
il problema di una qualità e di una bellezza che sfugga a queste stereotipie
consolidate. Certo una nuova estetica (che dovrebbe nascere da una nuova
critica e da una nuova poesia) per affermarsi avrebbe bisogno di un linguaggio nuovo dei molti in poesia. Ma
per ora è solo un auspicio. Non è certo quello semplificato sì, ma inerte, di
cui i mass media c’invadono. E neppure, credo, vi possono rientrare quelli novecenteschi
elaborati dalle neo e postavanguardie in lotta contro la banalizzazione mediatica
inferta alla lingua di uso. O quelli neosacerdotali o orfici o neo orfici. Un
linguaggio nuovo (non oso dire ‘comune’
data l’inflazione ambigua e appunto
anch’essa democraticista del termine, specie negli ultimi anni) può forse
venire solo da una piena espansione delle potenzialità positive (poetiche e critiche) dei molti in poesia liberati dalle scorie di cui ho detto sopra.
7. Essere molti in poesia è riusare
criticamente ciò che è stato finora considerato poesia
Non è stata mai esclusa dal Laboratorio una
dimensione diciamo pure scolastica, educativa, pedagogica, che miri al “riuso”
della poesia, come si faceva o si dovrebbe fare ancora in qualsiasi buona
scuola o gruppo di lavoro. È una cosa semplice e ragionevole (o almeno lo fu in
passato nei limiti unidirezionali, che ho
indicato, di una logica progressista e di un’educazione dall’alto verso il
basso senza ritorno…). Avvicinare molti alla poesia resta un obiettivo
“scolastico”, ma da prendere sul serio. Si tratta di capire però che tipo di scuola non deve essere un
Laboratorio che operi nella crisi della poesia. Questo per non illuderci che il
contatto con la Bellezza dei capolavori ci faccia uscire dalla crisi della
poesia (o per non farci ammaliare e distrarre …).
8 . Essere
molti in poesia e essere pochi in
poesia sono ideologie della poesia
Questo
dev’essere molto chiaro. Ci sono schiere di poeti pronti a giurare che la
poesia c’è quando e dove l’ideologia
tace. E, quindi, a ritenere del tutto secondaria l’opposizione molti/pochi in
poesia. Per loro il problema della
democratizzazione della poesia potrebbe riguardare al massimo la sua
divulgazione e non il momento della sua produzione, che - dicono - è
impensabile possa essere affidata ai molti; anzi è meglio che sia attività in mano a quei pochi che la
sanno davvero fare. Come ci sono schiere di critici pronti a sostenere che le
loro argomentazioni teoriche o estetiche
sono neutrali e al di sopra di qualsiasi
ideologia. Come ci sono schiere di poeti o di poetanti che, stanchi di queste
“chiacchiere” o “inutili polemiche” si rifugiano nella “poesia fatta in casa”, nella poesia fai-da-te, espressione di virtù private, solitarie o di esercizio che
ciascuno esegue per conto suo e a modo suo, “liberamente”. Eppure, anche se il
linguaggio poetico può allontanarsi di molto dalla lingua sociale fino a
rarefarsi e la poesia è pensata e scritta da un singolo e non può essere, se
non per gioco, costruita in immediata collaborazione con
altri, nel testo, alla fine di un
complesso e mai del tutto afferrabile
processo, si sedimentano anche (non dico
solo o soprattutto) le ideologie dei molti o dei pochi,
che il linguaggio sociale e persino quello poetico più rarefatto comunque conservano
- o in modi evidenti o in modi celati - in sé nelle loro strutture
più profonde. E poi , come tutte le altre pratiche umane, la poesia è soprattutto istituzione pubblica. Poesia è solo ciò che in un
determinato spazio e tempo certe istituzioni o comunità - quella dei poeti,
quella dei critici, quella del pubblico o dei lettori - autorizzano
ad essere poesia; poi ciascuno nel
suo intimo potrà ritenere poesia un sospiro, un gesto, una sua parola, ma resterà
poesia solo nel suo foro interiore fino a che una qualche autorità - di governo o
di opposizione della poesia, ufficiale o
antagonista - non riuscirà ad imporre quel sospiro, quel gesto, quella parola
come poesia.
Nota. Sia
lo schieramento dei molti (democratico) che quello dei pochi (elitario) possono
essere portatori di valide ragioni (o
quantomeno di problemi irrisolti e magari rimossi dall’uno o dall’altro
schieramento o da entrambi). E sia un
singolo (poeta o critico) che un gruppo possono ridimensionare di molto (ma mai
abolire) l’ideologia di partenza, che comunque resta e permette di distinguere
appunto testi e poeti anche secondo che siano portatori di un’ideologia dei pochi
o dei molti.
6 giugno 2012
[1] Il termine moltinpoesia è nato attorno al 2006, dopo un periodo di incubazione in cui avevo scritto sulla crisi della poesia da un’insolita angolazione: partendo cioè dal fenomeno dei tanti “scriventi versi” o “poeti massa” o “similpoeti” o “irregolari”. In uno dei primi incontri di fondazione del Laboratorio, circolarono non senza scetticismo e autoironia i termini di “nebulosa poetante” e “moltitudine poetante”. Poi optammo per il più semplice (e augurale) molti in poesia assemblato alla fine in moltinpoesia.
[2] L’ho fatto in passato in Poesia moltitudine esodo pubblicato su Inoltre N.7 inverno 2003/2004 e ora leggibile qui: http://www.backupoli.altervista.org/IMG/POESIA_MOLTITUDINE_ESODO_2003.pdf
[3] Il fogliettone del Laboratorio Moltinpoesia è un foglio A4 stampato con brevi notizie, dizionarietto di poeti e riflessioni. Ne sono usciti finora cinque numeri.
[4] Cfr. Gianluigi Simonetti sul blog Le parole e le cose: http://www.leparoleelecose.it/?p=5322
[5] Giorgio Linguaglossa, DALLA LIRICA AL DISCORSO POETICO, Storia della poesia italiana (1945-2010), Edilet, Roma 2011
[6] Come ha obiettato Patrizia Villani. Cfr. http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/05/essere-moltinpoesia-in-vista-della.html
[7]La collocazione dei poeti o dei critici nell’una o nell’altra di tali categorie non è facile da stabilirsi perché in gioco non entrano solo fattori semplici o accertabili sul testo (come ad es. la leggibilità o il contenuto), ma altri complessi o extratestuali (come ad es. il gusto, l’organizzazione della cultura, lo “spirito del tempo”, le mode spontanee o costruite). Spunti elitari e spunti democratici si possono ritrovare in varie misure in autori di segno culturale e politico anche opposto.
36 commenti:
Bravo Ennio. Con questa tua ri-flessione e otto tesi (piegamenti) hai ottenuto non l'approvazione convenzionale e diplomatica ma il silenzio: proprio quello che ci vuole affinché Miss Poesia possa uscire dalla crisi e manifestarsi nella sua potenza.
Samizdat
Parla Poesia:
Alla fine si cade
la riflessione si fa spada.
Portami o poeta dove l'indaco finisce
del rosso fammi rosa, con foglie di smeraldo,
non credere ai mercanti e alle fattucchiere,
dietro lo schermo un nido di parole, sberleffi
buone maniere, ma tu portami oh degno ambasciatore
là dove il lavapiedi muore e che io rinasca fiore.
Emy
Si separarono.
Uno di qua uno di là. Uno veggente
l'altro che fa il clown.
…
Così le anime:
si risollevano solo nel dubbio.
Intollerabile.
mayoor
Le otto (ipo)tesi di Ennio sono molto stimolanti per un lavoro di Laboratorio come quello che si propone di svolgere Moltinpoesia.
Se ci si trovasse ad operare in un Laboratorio con una sua sede 'fisica', queste tesi verrebbero appiccicate in bacheca. Anche se come temporanee linee guida, suscettibili quindi di discussione e di cambiamento, esse avrebbero un luogo fisso a cui fare riferimento e da cui partire, senza dover sempre ricominciare da capo.
Ma nel Blog, è come trovarsi in un Saloon, gente che va, gente che viene, e queste ri-flessioni - a mio parere molto importanti - rischiano di disperdersi sopraffatte dagli spintonamenti che si muovono in ogni direzione.
Sarebbe quindi il caso di riproporle, ogni tanto.
Rita S.
Ci sono anche le Quattro nobili verità del Buddismo, i Dieci comandamenti... Ennio insuperabile!
Scherzo.
mayoor
Cari Ennio e lettori,
storicamente la «critica» è la mediazione tra l'opera poetica e il pubblico; ma, dal momento che è venuto meno il terzo «momento», cioè il «pubblico», ne consegue la non «necessità» del secondo elemento cioè della «critica». In definitiva, l'«opera» rimane sola. Tutta la critica del contemporaneo è solo «chiacchiera», apologia, discorso intorno...
L'unica critica possibile del contemporaneo ritengo sia quella che proviene da una «posizione di poetica». Al di fuori di questa «modalità» (modus essendi) non vedo come si possa parlare di critica di un'opera di poesia (modus intelligendi). Siamo già fuori del binomio: democrazia-elitarismo. L'opera di poesia è un non-prodotto direi in termini marxiani. Con tutto ciò che ne consegue.
Parole forti. Anche la poesia potrebbe derivare da poetica dovuta a visione, ma dovrebbe essere abbastanza vasta e alta da poterla contenere. E abbastanza bassa da saper comunicare.
mayoor
Forse la poesia è tra le cose che non si possono vendere. E il prodotto è il libro.
mayoor
Ennio Abate:
Caro Giorgio,
se fosse venuto meno il terzo «momento», cioè il «pubblico», non si capisce perché tu *pubblichi* dei libri; né perché continui effettivamente a fare il «critico», se non ci fosse più alcuna materia prima da criticare; né perché insisti a valorizzare, su questo stesso blog, le poesie di Madonna, visto che «in definitiva, l’”opera” rimane sola»; e che «tutta [anche la tua?] la critica del contemporaneo è solo “chiacchiera”, apologia, discorso intorno…».
Non è così. O almeno non credo che sia così. E perciò ho parlato di crisi della poesia e della critica e - parlando dei moltinpoesia - anche di crisi del pubblico, che, come i personaggi di Pirandello, non ci stanno più a fare il pubblico come una volta; e in modi certo maldestri o ambivalenti, come ho cercato di dire, vogliono poetare, pubblicare, eccetera.
Io credo che stiamo vivendo una complessa trasformazione di queste funzioni (autori, critica, pubblico); e che non «siamo già fuori del binomio:democrazia-elitarismo». ( Tra l'altro preciso che non ho presentato questa come l’unica opposizione da cui leggere la crisi, ma una delle possibili).
Sarebbe più utile, dunque,( e questo mi aspetterei...) smontare analiticamente punto per punto le mie otto tesi, piuttosto che liquidarle con un oltranzismo che sposta il dialogo su un piano del tutto indefinito.
da Rita S.
Caro Mayoor, dimentichi l'Ottuplice Sentiero (sempre del Buddha, e di chi sennò?) che
porta alla meta salvifica (di chi e di che cosa?!) fornendo gli strumenti pratici attraverso i quali ogni discepolo può realizzare la liberazione dal dolore-esistenza.
Sai che lusso, oggi!!
Ciao.
è sempre stato un lusso, ma per tutti.
Ciao Rita!
m.
Caro Ennio,
tu sai la stima e l'ammirazione che ti porto, sai anche che il tuo "spazio" è uno dei pochissimi verametne aperti e democratici in cui è possibile scrivere le cose che si pensano. Detto questo, io ritengo che tu faccia bene a postare le 8 tesi e a sostenerle; io mi limito a prendere atto che l'età della critica è tramontato (forse risorgerà in un'altra epoca prossima e ventura, non so), ma l'epoca dei Fortini e dei Pasolini è tramontata con loro, oggi nell'epoca della stagnazione politica e stilistica, l'epoca del disincanto (come altri l'hanno chiamata), non è più possibile (non ci sono le condizioni storiche e le condizioni filosofiche9 per fare una critica seria; tutto quello che oggi si fa è un «discorso intorno le cose» (anche quelle di poesia), un discorso di fiancheggiamento e di accompagnamento. Oggi noi possiamo soltanto accompagnare il feretro, partecipare con la nostra «chitarra azzurra» (W. Stevens) al funerale delle «cose». Parlare intorno ad «ante rem» o «post rem», è un discettare di maggiordomi... le cose vanno là dove le conduce l'economia monetaria, le cose si liquefano come si liquefà l'economia monetaria, c'è una economia del «vedere» e del «fare», pensare di arrestare questo flusso, questa mareggiata è semplicemente ridicolo. Noi non possiamo arrestare il mare che ci viene incontro con la sua forza d'urto. Però possiamo «tenere il punto», possiamo perire nella mareggiata, sommersi dallo tsunami.
Tu mi chiedi: e allora perché tu scrivi e pubblichi poesie e saggi? - ti rispondo: perchè ho deciso di tenere il punto, pur sapendo che siamo nel bel mezzo di uno tsunami che tutto travolge e travolgerà. Così, dopo lo tsunami non rimane che un ammasso di macerie. Dopo i tartari, tu mi dici, si è ripreso a vivere e il pittore Rublev ha ripreso a dipingere. Sì, non c'era altro da fare: o la barbarie o la barbarie. E allora Rublev ha ripreso a dipingere.
E allora, che cosa fare delle poesie di Madonna? Dobbiamo tenere il punto, pur sapendo che siamo nel bel mezzo di una invasione di barbari.
Mareggiate? Noi stiamo vivendo e la poesia resiste eccome! C'è bisogno di pubblico per farla vivere ? Forse è meglio dire per farla sopravvivere. Nessun grande (Dante ,Manzoni, Pirandello e altri) avrebbe scritto se avessero pensato al pubblico. Forse io ho bisogno solo di capire gli sconforti dei critici, ma penso sempre di più che manchi il coraggio di trovare la novità in qualche modo , per esempio una grande novità è stata la scrittura di Tagliavento (vedi nel blog dei Molti) il bidello che ci ha lasciati.Ho voluto dire la mia perchè spesso, troppo spesso non so stare zitta. Ciao a tutti Emy
Caro Giorgio,
solo per mancanza assoluta di tempo, anche per un veloce commento, non sono intervenuta sulla poesia di Madonna, che come sai trovo di alto profilo. Mi riprometto di farlo appena ne avrò la possibilità.
Ennio Abate:
Indipendentemente dalla possibilità o fiducia soggettiva di poter "arrestare il mare" o la "mareggiata", credo che la tendenza a parlare per metafore (come queste) quando tentiamo di costruire un discorso critico (e non un discorso poetico, dove la metafora ha un ruolo diverso e credo più conoscitivo) ci porta in un vicolo cieco.
Noi abbiamo un intelletto che va usato per conoscere in termini analitici la realtà ( i mass media, i linguaggi poetici, la comunicazione).
Mi viene in soccorso questo saggio appena scovato sul sito L'OSPITE INGRATO. Parla dei modi in cui Fortini e Pasolini hanno affrontato il loro rapporto con l'industria culturale e l'industria cinematografica.
Mi pare di grande interesse.
Rimando al link:
http://www.ospiteingrato.org/Fortiniana/Fortini_Pasolini_Industria_culturale_Cordisco.html
e ne stralcio la parte finale per intenderne la tesi e stimolare alla lettura:
È evidente che dinnanzi al fenomeno della mutazione antropologica lo sperimentalismo di Pasolini non teme di misurarsi con i più svariati linguaggi e di adeguarsi, seppur contraddittoriamente, alla mutazione degli strumenti intellettuali, accettando così di lasciare senza volto il potere economico che spesso li condiziona La “metacritica” di Fortini, come giustamente l’ha definita Pier Vincenzo Mengaldo30, non può, al contrario, riflettere sulla mutazione senza prima interrogare se stessa e i propri mezzi espressivi. Ciò significa che non si può denunciare il cambiamento se non si porta avanti, di pari passo, un’indagine sulle interferenze del sistema politico ed economico sugli organi della cultura addetti alla trasmissione del sapere e all’informazione. La critica non è solo un linguaggio che chiama in causa la realtà esterna, ma deve anche essere dotata di uno sguardo introspettivo che la porti a farsi critica di se stessa e consapevole delle proprie condizioni nel secolo della scienza e della globalizzazione. Non si può ignorare il funzionamento dell’industria culturale né tantomeno le dinamiche del mercato editoriale se l’intenzione è quella di ricercare coscientemente spazi ancora utili all’attività critico-intellettuale. Nell’invito a riconsiderare l’importanza della nozione gramsciana di “organizzazione della cultura” e a capire il nesso tra sistema economico e produzione culturale si nasconde uno dei messaggi più attuali di Franco Fortini. Non basta essere consapevoli che nel mondo moderno, compreso il nostro, la cultura è ormai merce, bisogna anche essere in grado di riconoscere le influenze politiche e gli interessi economici che l’hanno immessa sul mercato. Per questo non si può che avallare l’allora «perplessa richiesta di una critica della produzione editoriale»31 avanzata da Fortini.
Leggendo questa poesia ho trovato degli aspetti collegabili alle tesi esposte.
La trascrivo:
Notte dichiarata
O poetare- che cos'era mai?Un rapimento in
vecchi sentimenti..
Pesca di voci, magia di sillabe,ars magna, stile
superelaborato.
Freddo all'incontrar se stessi, danza fra sedie.
Nulla a metà perciò, e nulla appieno, eppure un certo
non so che di troppo.
Per l'uno una preghiera senza Dio, per l'altro l'"ens
realissimum".
Quella cucitura a zig-zag- la ragione legata a miti e
affetti,
che fa del corpo assonnato un preparato con dei
punti sensibili.
Echi che tornano alla fonte, alla bocca, ove si
arrotondano i suoni.
Alito soffiato fuori nell'aria gelida, nel nihil fresco
come di rugiada.
Guinzaglio magico, filo d' Arianna al buio di aporie,
catena di momenti felici, indietro fino ai bagni delle
fanciulle al Nilo.
Linea intimissima, incompresa dai numeri,sfugge
alle geometrie,
dacchè il mondo è creduto descrivibile, risolvibile in
formule ed in leggi.
Dimenticate questo io spudorato e anche il suo tu
chiamato da lontano.
Il verso è un tuffatore, tira al profondo, in cerca di tesori
sotto il mare, fuori nel cervello. E cospira con gli astri.
Le metafore : i ciottoli che si lanciano al largo dalla riva.
A salti sfiorano l'acqua in superficie, tre quattro
cinque volte se hai fortuna,
prima di perforar lo specchio come sonde di piombo.
Crepe sono
che attraversano i tempi. Filosofia in metrica, musica
d'allegri salti
da parola a cosa. Dice qualcuno:un dono, dice l'altro:
un frutto dell'ingegno.
Ciò che resta son poesie, canzoni che intona il nostro
essere mortali.
La miglior guida,al momento dell'esodo da questa
notte umana.
Durs Grùnbein
Strofe per dopodomani
a cura di Anna Maria Carpi
Ho dimenticato la firma
Maria Maddalena Monti
RICEVO E PUBBLICO IL SEGUENTE COMMENTO:
Pregiatissimo Giorgio,
nel ringraziarLa per la notifica colgo l'occasione per lasciarLe la seguente personale riflessione sulla poesia del tempo presente.
La utilizzi, se lo ritiene, come meglio crede.
Forse il rischio, oggi più probabile di essere moltinpoesia potrebbe essere quello di essere nessunoinpoesia.
Fatto sta che, a mio avviso, al poeta è richiesto un dono sopra tutti, quello dell'antiretorica nella retorica, dell'antiovvietà nell'ovvietà, nel gettare sul mondo tutti i temi possibili distanziandoli e aggirandoli in una vicinanza basica, in un canto nel controcanto.
Si rialzerà la poesia dalla sua intrinseca caduta libera?
Chi può dirlo.
Dovrà in ogni caso essere agile, asciutta nella sua gentica umidità.
Le spetta un compito arduo, quello di ri-significare se stessa nel non-senso della parola follemente portatrice di senso in un delirio onirico che si fondi su una fascinazione che esondi dal verso all'asfalto umano alto e basso, leggero e grave.
Cristina Raddavero.
Ennio Abate:
"Forse il rischio, oggi più probabile di essere moltinpoesia potrebbe essere quello di essere nessunoinpoesia" (Cristina Raddavero).
Se non interpreto male lei con molta eleganza e tatto dice:
"Chi troppo vuole, nulla stringe".
O ancora più drasticamente (è sempre una mia interpretazione, ohibò!): "essere moltinpoesia= essere nessunoinpoesia".
Via boccata quella dei molti, dunque. Off limits.
E siccome i molti non possono che fare retorica, scrivere ovvietà, controcantare, al poeta (meglio sarebbe, per distinguerlo ancor più, scriverlo con la maiuscola: il Poeta) è richiesto ( da chi? Oppure: da Chi?) che “doni” antiretorica, antiovvietà, canto.
Come ai bei tempi.
Mi scusi la parodia. Ma ci ricorro per segnalarle il mio disaccordo. Siamo molti, anzi miliardi e abbiamo da pensare a una poesia che tenga conto di questa realtà fatta di molti, che non la neghi.
Altrimenti diventa pur essa retorica (dei pochi), ovvia ( esiste anche un'ovvietà signorile o oggi pseudo signorile), controcanto ( perché anche i molti cantano o forse cantano rumoreggiando...).
Per intenderci fino in fondo: dev'essere chiaro che non si può tornare alla poesia dei bei tempi, se non spazzando via miliardi di persone che oggi tentano di vivere su questo pianeta.
Sembra una boutade. Ma credo che ci sia un nesso tra società e poesia. Quella possibile nell'antica polis o alla corte medievale o rinascimentale o perfino nei salotti borghesi del Sette-Ottocento non è effettivamente realizzabile oggi (tranne qualche eccezione “archeologica”) se non con una "decrescita" (reazionaria per me) della popolazione mondiale. Una quarta guerra mondiale che faccia un repulisti del diavolo, insomma e faccia ricominciare la storia umana dalla clava o giù di lì.
Ma non voglio passare, se mi leggete bene, per sostenitore di una poesia casinista o rockhettara o, come ho detto, populistica. Questa m’incuriosisce e non mi fa però paura. Quando mi irrita, lo dico, segnalo il mio dissenso. E cerco di teorizzare un come essere (criticamente) moltinpoesia.
Apprezzerei anche però un "Dante reazionario"( titolo di un libro di Edoardo Sanguineti) o dei Danti reazionari.
Mi spiego. Il mondo nuovo che si va preparando molti di noi non lo vivranno e non possono immaginarlo. Ma hanno una buona esperienza di quello in cui hanno vissuto e della poesia del passato (diciamo fino agli anni Settanta in Italia).
Ebbene, assumano almeno l'atteggiamento di Dante. Ce l'aveva a morte coi borghesi della sua Firenze ( le masse d'allora), giudicava poesia solo quella - pensate un po' di un Virgilio - ma capì che il latino non era più veicolo praticabile, neppure per i poeti come lui, e passò al volgare. Certo da par suo, che era un aristocratico e la sapeva lunga.
Noi forse non sappiamo passare al volgare d'oggi. Non lo sappiamo inventare. Ma almeno critichiamolo sapendo che sarà la lingua del futuro e cerchiamo di "grammaticalizzarla", per quel che ci riesce, secondo il latino ( poetico) che abbiamo appreso.
Aspetto fucilazione (poetica spero)!
RICEVO E PUBBLICO QUESTO COMMENTO:
Gent.mo Giorgio,
rispondo volentieri e senza fucilazioni che non siano quelle poetiche.
Temo di essere stata fraintesa, ma, se ciò è accaduto, la "colpa" è mia.
Quando dico che esiste il rischio di essere nessuno in poesia a suon di
"molti" faccio riferimento alla schiera di coloro che oggi si professano
tali con quella facilità e "professionalità" che dicono di possedere i
guaritori dai poteri magici con pronta guarigione della malattia senza l'uso
dei farmaci adeguati. Il paragone è forte, lo so, ma efficace.
Se ho il mal di denti non mi reco dallo stregone così come se devo asportare
l'appendice infiammata vado dal chirurgo specializzato e non dal
fisioterapista.
Orbene, se la mia anima e la mia interiorità, se il mio sentire ha sete di
poesia, non mi avvicino ai versi di Pinco Pallino che ha trovato un editore
compiacente e ha pubblicato l'elogio della mozzarella.
Per questo genere di avventure pseudoletterarie siamo umani dotati di tutti
gli accessori e relativi optionals come nessun altro tra i pianeti
dell'universo che naviga nel mare dell'abilità a creare poeti, artisti e
saggi alla velocità della luce.
Credo, ma resta solo il mio punto di vista, che anche nel meraviglioso mare
della poesia dovrebbe esserci la qualità prima della quantità.
Mia nonna mi ripete sempre che, alla fine, se urli troppo spesso, non ti
ascolta più nessuno e non vorrei che la cera nelle orecchie venisse
utilizzata in quantità industriali per evitare di udire il canto delle
sirene.
Cordialmente,
Cristina Raddavero.
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