G. Zanafredi, Pioppi, 1997 - gessetti su carta
Gianna Zanafredi
Un’arte altra
metamorfosi, mutazioni, paesaggi
Casalmaggiore 26 maggio - 1 luglio 2012
apertura: da martedì a venerdì ore 8,00 -
13,00; sabato e festivi 15,30-18,30
Museo Diotti, via Formis 17, Casalmaggiore
(Cr)
tel. 0375 200416 www.museodiotti.it info@museodiotti.it
COMUNE DI CASALMAGGIORE
Un'arte altra
metamorfosi, mutazioni, paesaggi
di Piero Del Giudice
Mettiamo in scena qui, in questo catalogo e mostra, una vocatio
con risposta tardiva, una chiamata, cui l’artista risponde:
«quando ero avanti con la vita - sposata, madre, divorziata».
Passione alimentata a tratti, dedizione sempre rinviata, seduzione
infine accettata, la pittura esercitata è per la
Zanafredi
maturità raggiunta e pratica salvifica.
Un humus acido nutre il suo linguaggio, un’alchimia tra materie
di fondo e solventi/reagenti che amalgamano queste materie
alimenta la sua diversità di persona e la
diversità delle sue
tele. Artista originale e ostinata, intellettuale che coltiva un
rapporto critico con la realtà. Nel profilo di genere, nel suo
ritratto
di signora, una donna spaventata dal mondo e dalla sua
propria ribellione.
All’inizio, subito adotta il linguaggio a disposizione più emotivo
(già stato eversivo) l’informale. Lo trova, non
è una invenzione.
È una tecnica, ormai, l’informe in pittura, un reperto,
un codice estetico. Quell’andare alla “materia e al corpo del
mondo” che segna la rivolta della pittura e del linguaggio
artistico
al cuore del secolo subito dopo la Seconda guerra mondiale,
è inerte stereotipo, adesso, esercizio accademico e ultima,
testamentaria issue della pittura (poi la fine [della pittura],
poi la morte dell’arte, la pop-art, l’arte povera, la body-art,
il concettualismo, la video-art, le installazioni).
Lei non se ne occupa, aggira il problema innovando il rapporto
con la materia e il rapporto tra artista e tela. Le sue materie,
le sue strutture, diventano e mutano, facendole: con spugne,
spatole, con il dripping e soprattutto
con le mani. Coinvolta
psichicamente e fisicamente forse prossima alla body-art, se
una vigile energia intellettuale non imponesse un distacco e
una distanza. Il mondo è là e l’artista non vi si può perdere. Vi
si immerge, ma anche lo giudica e ne chiede il cambiamento.
Il fondo della sua tela non è una mera sovrapposizione di ingombri
(terre, sabbie), ma una trasformazione chimica, una
alterazione, un movimento interno, una mutazione.
La sua tela ha sempre un corpo centrale, in orizzontale o in
verticale. Corpi, paesaggi, l’isola, il fiume, ciò che rimane di
un mondo di natura e di un universo di boschi e campagne a
coltivo che invece dilagava attorno a lei negli anni visionari di
lei bambina. Vertigo
delle infanzie, mutazioni del secolo.
È piuttosto oggi una emulsione fotografica ciò
che vediamo,
la remota origine è lì dove si elabora la moderna apparizione
dell’immagine. Nero sul bianco di calce che costituisce la base
di luce della tela - un artificio la luce, non pensabile ormai una
luce di natura.
I corpi sono ingombri, densità materiche, che interferiscono
con la luce e vengono impressi sulla pellicola e/o sulla tela.
Che il procedimento sia rovesciato - corpi che appaiono da un
fondo di visioni e anche di memorie - poco importa. C’è molto
occhio qui. Le immagini di queste tele sono tutte in origine
prese dalla realtà (caotica, frammentaria) su cui si posa lo
sguardo. In una innocenza visiva dell’artista, in una sorta di
caso nella
scelta dell’oggetto e/o lacerto. Lo sguardo si posa
sul mondo e ne incrocia i frammenti.
Chi sono allora gli antecedenti dell’esperienza artistica della
Zanafredi, i suoi maestri di fatto, coloro che aprono la strada
anche alla sua ricerca? Che lei ne sia consapevole o meno, no-
nostante la frammentarietà del mondo e la labilità delle memorie,
ci sono percorsi nella storia dell’arte ed esperienze artistiche
che stanno dentro la storia collettiva. Non sono più ormai,
all’origine delle scelte e del processo di conoscenza, i
maestri dell’informale germinale, di natura. Queste tele acide,
queste emersioni della figura e delle sagome dal fondo, hanno
altri rimandi, in altri studi e vicende dell’arte. Corpi, sagome,
fantasmi, sono in conflitto costante con la calce dei fondali di
queste opere, così come la luce di fondo morde, elide e sagoma
gli oggetti nelle tele di Sergio Romiti, nei bianchi abbaglianti
e totali di Enrico Castellani dove l’oggetto è abolito e la
superficie è il lampo di un flash. È lecito guardare anche agli
artisti dell’emballage
(Christo appare) perché la frammentazione
del mondo è così avanzata che i reperti che possiamo
cogliere della realtà, è necessario conservarli e trattenerli a
noi
con il packing, la carta da pacco, la tela, l’insaccamento.
Guardando certe opere (In segno di commiato,
pag. 47; Parole
in trappola, pag. 48; In
attesa di traduzione, pag. 50) lo spettatore
si trova di fronte a vere e proprie imbastiture, a imballaggi
appunto, a robuste processioni di punti dati con un gigantesco
ago. Il corpo centrale di una materia strutturata viene
in questo modo celato. Nella conversazione con l’artista trascritta
in questo catalogo (pagine 59-72) la Zanafredi afferma
che questi grandi punti a mano, queste cuciture sulla tela, sono
parole, frasi. Molti titoli di questi quadri si rifanno alle parole,
hanno come riferimento e insegna la parola.
Un alfabeto
protetto, una lingua segreta, un mantra forse, ripetuto e personale,
segni celati che celano, una lingua muta che non vuole
dirsi nello spavento del mondo. La funzione - punto a mano
o parola criptata - sembra la stessa: coprire e proteggere il
corpo
centrale con una narrazione, rappresentare con l’incisione
dei segni uno stigma, marchiare un tatuaggio, consegnare un
corpo avvolto nella pezza di iuta, nel sudario di cotone bianco.
Ogni pezza di tela ha questa funzione. La tela con la sua
base bianca che avvolge e soffoca, protegge e fa emergere,
per reazione chimica, corpi remoti, corpi intravisti e visti nel
viaggio quotidiano di pendolare, in altri viaggi.
Anche quando si abbandona, in quadri espliciti, ai riferimenti di
natura - la straordinaria serie di Isola,
ciclo di lavori tra i più recenti
in mostra - la composizione del quadro chiude l’immagine
in un remoto interno di materia che vagheggia un dagherrotipo
- rame e ioduro d’argento esposti ai vapori per una successiva
resa a stampa fotografica - di paesaggi d’entan.
Visioni anche e
- per estremo occultamento del paesaggio su cui si è accesa l’emozione
(l’isola sul fiume davanti al paese) - notturni. Notturni
i boschi che negli anni della scuola d’arte disegna o traccia con
matite grasse e gessetti su carte - e disperde - finalmente,
furiosamente,
noncurante del mondo intorno; pur in un accesso agli
strumenti espressivi ricco di colori e già fantasmi gli oggetti
nelle
poche rappresentazioni di natura morta.
L’immagine, in queste tele, si condensa e struttura per hautes
pâtes,
come negli artisti/padri che si misurano e affrontano
l’ondata dell’informale nelle sue originarie ragioni d’essere.
Tra questi - numi tutelari della sua ossessione artistica e della
sua umana avventura - l’ineludibile Giorgio Morandi, Antoni
Tàpies, Nicolas De Staël. È un quadro di riferimento, così come
quadro di riferimento è la citazione di Romiti e Castellani,
né si tratta - ovvio - di comparazioni o analogie. In Morandi,
il rapporto tra l’oggetto di natura morta e il fondale della tela,
muta a seconda delle varianti estetiche e dei ‘periodi’ di questo
artista (dall’oggetto metafisico all’informale, dal chardinismo
all’antiretorica). Ma l’ultimo Morandi consegna in offertorio
gli oggetti. Al centro di una tela acida e bianca, bottiglie,
scatole, terrine, hanno perso la forza della propria matericità
- la vicenda del mondo ha reso evanescente il loro peso
specifico - e si consegnano a noi pallide fantasime, spettri,
ombre dei corpi che furono. In Tàpies, all’origine sta la terra
di Catalogna o d’Andalusia e le stratificazioni anche culturali
di queste terre. Terre abbagliate da una solitudine di destino
che è anche solitudine storica della generazione che lavora
e si esprime nell’isolamento del franchismo. In De Staël i corpi
e le architetture dei corpi hanno la capacità di contrapporre
materia strutturata alla dissoluzione dei linguaggi internazionali
in atto, forme - infine - che affrontano l’imperante
informale. E questi corpi hanno soprattutto melanconia di
sé, nostalgia del mondo, con un sentimento del tempo, uno
sradicamento dallo spazio classico, una oscillazione, che
ritroviamo
in molte delle ragioni qui presenti.
Vanno ripensate allora le ragioni di fondo di questa pittura e
le scelte esistenziali della sua fattrice. Più si approfondisce l’analisi
del testo - resa ardua dall’involontaria, ma sistematica,
sottrazione di opere e informazioni dell’artista, donna colma
di pudore e timidezze - e più si allontana questa pittura dai
‘piccoli maestri’ delle culture originali. Maestri del luogo come
Goliardo Padova e/o talento dell’adozione provinciale del
linguaggio
in uso come per Carlo Mattioli.
Lei parla di frammenti
di mondo, parti di un cosmo esploso e
mutante, comete di materie, gli universi di totalità sono
imprendibili,
inafferrabili, sulla tela ne rimangono parti, brani.
Lei affronta dall’inizio la crisi della rappresentazione dell’immagine.
Quando prende posto sui banchi della scuola d’arte
- e si sente finalmente al posto di guida della
propria esistenza
- è intellettualmente attrezzata e conosce - per altre estetiche
e etiche - la voragine che si è aperta tra la volontà/possibilità
del soggetto di cambiare il mondo e la perifericità, la relatività
della collocazione del soggetto rispetto al fluire e mutare, alla
memoria e al divenire, al cinismo dei potenti e dei poteri, al
possesso della roba, dei beni e delle ricchezze, alla possibilità
di produzione di Storia.
È questo che si rappresenta qui. Questo il pensiero che sta dietro
alle immagini che trapelano ed emergono da un vecchio muro
o esplodono dal fondale di calce bianca della tela, muro esso
stesso. I corpi orizzontali che traversano queste tele sono sì
paesaggi
della pianura, spaccature di fiumi - ma anche inguine nel
corpo della donna. Fiumi e maternità che nutrono terre dure,
cretti ereditati dalle installazioni e dalle tele di Burri, ma
insieme
disastro ecologico e perdita di senso del mondo. Dunque sono
davvero reperti, rovine, storia sociale del mondo che non si
rassegna
ad essere cancellata e che il quadro salva, la tela riesce a
condurre a noi:«Vite, vicende, polvere, terra e acqua, anche
paesaggi
della pianura. Paesaggi delimitati, senza orizzonti lontani.
È muro scrostato, vissuto. Muro che ha le tracce, i segni delle
vite
che sono vissute in queste case».
‘Le vite che sono vissute’, la cronaca e la Storia. Gronda di
umani passaggi la materia - un muro interno di casa abbandonata,
la muraglia esterna di una corte contadina desolata, il
blocco in lento sfacelo di un gruppo di cascine abbandonate.
Per questo le materie della Zanafredi sono così intense, così
intessuti di ragioni e di storia gli impasti dove si invera e
materializza
la passione civile di questa artista. Come potrebbe
assumere i passaggi storici, le vicende e le lotte civili, l’ansia
di proposta al femminile, una pittrice che adotta con naturalezza
la lingua dell’ informale, se non così, con gli spessori di
croma, sabbia, terra, le stratificazioni quasi sempre dolenti
delle sue materie (Nebbia, pag. 53)?
C’è una nascita alla materia negli Ôtages di Jean Fautrier - padre
nobile della interpretazione civile della haute pâte. Era
una villa del Midi, erano i rantoli e lo scivolamento dei corpi
che Fautrier sentiva, aldilà del muro dove venivano fucilati gli
ostaggi dalle truppe tedesche di occupazione. Il tonfo dei corpi
e la dissoluzione dei corpi abbandonati.
Non c’è bisogno di una guerra guerreggiata nelle contrade nostrane
per sapere che il mondo è attraversato da una unica ferita
che ne deforma e piaga la materia che lo costituisce.
Migrazioni, crisi, svuotamento delle grandi aree rurali d’Africa
(i bianchi di Gianna come le djellaba della domenica
contadina
araba) e d’Asia, cecità e disperazione, diaspora e ondeggiamento
dei movimenti delle genti sotto il maglio dell’inesorabile
ritorno di cadenza della accumulazione per cui: «le rendite
[fondiarie] sono molto cresciute, chiese e case sono state
abbattute, e una massa stupefacente di popolazione è stata
privata della possibilità di mantenere se stessa e le famiglie».
Infine l’innocenza nell’approccio con il mondo e con il lavoro
artistico. E davanti alle tele realizzate, la certificazione di un
destino, il riscontro di una vocazione ascoltata, il rischio di un
lavoro che progredisce, la certezza e la paura per i varchi di
conoscenza che si aprono e per una qualità che cresce di opera
in opera. Ma è solo davanti all’opera compiuta che - volta
a volta - si esorcizzano le costanti incertezze. È davanti al
lavoro
realizzato che si riaccende la conversazione costante con
un sé bambina: «…distante da quelle campagne, in una parte
lontanissima del mondo, dirmi “ma guarda Gianna come sei
andata lontano!” come se ci fosse ancora là la bambina che mi
guarda ed io le potessi parlare». Un sé infante che sta nella
culla
del mondo [così in Memorie, pag. 37, nelle fosse
ancestrali
che due lapidi ad arco appena indicano nella terra del mondo],
negli orizzonti di natura della pianura a lungo posseduti dallo
sguardo dell’infanzia e in quella culla - in quel luogo altro -
dove via via l’artista si trasferisce in un altro da sé favoloso e
iperbolico. Altro
razionale, altro romantico, un’arte altra che
accende conoscenza nell’opera, luce sulle tele, strutture di
corpi e figurazione, notturni di mistero, ragioni dell’essere
sociale,
perigliosi equilibri dell’essere progettuale, dell’individuo
che si sogna e si progetta diverso dal tempo dei furfanti.
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