Tomaso Kemeny Poemetto gastronomico e altri nutrimenti Jaca Book, Milano, 2012
«è della massima importanza / intendere il processo di dissoluzione / dei linguaggi artistici» (T.K.)
Paradossale e
politicamente «scorretto», stralunato, irriverente e bislacco questo libro di
«invettive» e di «licenze» di Tomaso Kemeny contro «lo Spirito della Poesia Gastronomica» del nostro tempo
dove il rapporto tra il «mitico» e lo «storico» appare trasmutato in «segno»
linguistico, e quest’ultimo in effetto «gastronomico». In Kemeny è vivissimo il
senso di un generale effetto di deriva, non soltanto della tradizione, ma di ogni concetto
che voglia applicare un senso alle cose del mondo. Ciò che originariamente, per
i mitomodernisti, era il rapporto ontologico tra «mito» e «storia» che
caratterizzava il tardo Moderno, oggi, nelle condizioni del Dopo il Moderno non è più la Sensucht nostalgica quella che respira nei versi
della poesia più evoluta ma una oggettività, un voler essere e voler apparire
oggettivi o super
partes in mezzo alla barbarie dei rapporti produttivi estranianti ed
estraniati, talché il recentissimo è diventato, come apparenza e fantasmagoria,
lo stesso antico, e l’antico (opportunamente modernizzato) è diventato il
recentissimo (antichizzato), la merce segnaletica del cartellone mediatico.Nella poesia di
Kemeny il linguaggio tende a stare dalla parte della «cosa», più vicina alla
«vita», e quest’ultima si scopre irrimediabilmente lontana dal «quotidiano»;
come per magia, si allontana dalla «vita» per via, direi, di un eccesso di
intensità e di velocità delle cose. La polivalenza polifunzionale degli stili
emulsionati raggiunge qui il suo ultimo esito: una sorta di fantasmagoria
dialettica della realtà e della fantasia: una dialettica dell’immobilità dove scorrono le
parole come fotogrammi sulla liquida superficie del monitor globale-immaginario
caratterizzati dalla impermanenza e dalla instabilità. È la forma-poesia che qui né
implode né esplode ma si disintegra come sotto l’urto di forze soverchianti e
disgregatrici. E la forma-poesia assume in sé gli elementi dell’impermanenza e
della instabilità stilistiche quali colonne portanti del proprio essere nel
mondo. La rivendicazione della «bellezza» rischia così di diventare una parola d’ordine
utile agli altoparlanti del cerchio informativo mediatico. Quella che un tempo
era la dimensione mitica (in quanto passato più lontano), si è tramutata in
preistoria, e la preistoria è diventata più vicina a noi proprio in quanto
preistoria di un mondo divenuto post-storia (barbaro e barbarizzato). Così
pre-istoria e post-storia si uniscono in idillio. Di positivo in questa poesia
è la scomparsa dell’interieur, dell’anima bella, della ulcerazione del cuore alla
Mariangela Gualtieri, della fleboclisi del patetico delle sacerdotesse del
tempio dell’«io», della camera oscura dove avveniva la trasmutazione della
carne della parola in spirito della parola, e della reincarnazione dello
spirito della parola in carne. Possiamo dire che nelle nuove condizioni della
poesia di Kemeny il nuovo si confonde col vecchio, il patetico con l’apatico,
l’incipit con l’explicit ed entrambi
risultano indistinguibili in quanto scintillio di una fantasmagoria, alchimia
di chimismi elettrici, brillantinismi di un apparato fotovoltaico.
Scrive Kemeny: «“ma è della massima importanza /
intendere il processo di dissoluzione / dei linguaggi artistici” “Le cose
stanno così”». Appunto, il problema così posto dall’autore appare di
problematica soluzione se lo osserviamo dallo speculum della
disintegrazione delle Forme e della forma-poesia in particolare; e così la prassi poetica
priva di una filosofia della prassi si risolve in girotondo, erramento, serie
infinita di Irrveg
(falsa
strada), di Holzweg
(sentiero
che si interrompe nel bosco), di strade interrotte perché inghiottite nelle
sabbie mobili di una stagnazione che non vuole avere fine.
Le scimmie di Dio
«Gli studenti non
difendono
né che sia difesa
chiedono,
che cosa? La cosa, la
lingua madre!», così Henry
scendendo un giorno
lontano verso l’Eracleion.
«Ogni rapporto con la
lingua sacra
si perde nella Babele
contemporanea.
mentre la donnola
corre ancora mirabilmente,
amorevole è ancora il
canto dell’allodola,
pomposamente ancora incede il tacchino,
s’arrampica ancora
sull’albero spigliato lo scoiattolo,
ancora il babbuino
imita perfettamente il mandrillo,
solo il poeta non
scimmiotta più Dio,
tende ora lasciare
cadere il Fiat lux».
Visodangelo si chiude
in un pauroso silenzio,
sentendo la perdita
senza rimedio.
A guardia del pozzo
dei traditori, Nemroth
con la fiera bocca
grida:
«Raphèl mai amècche
zabì almì!»,
irriconoscibili
parole-relitto
esemme dal primo
essere potente sulla terra,
suo il progetto, ora
globalizzato, della superba torre
nella regione di
Senàaron.
«On public pour
chercher des hommes
et rien de plus»,
disse il maestro
della rivolta totale e
io «si scrive
perché l’uomo e la
donna s’incontrino
nell’Eden, gli occhi
incendiati dall’estate».
A scuola la poesia
costretta al servizio didattico
spinge all’arte di
dubitare e sembra dimenticare la vita,
ma la meretrice
dell’apocalisse, l’ultima Musa, strappa
sensazioni estreme di
gioia disperata
ai poeti della parola
in rivolta che si sperdono
nella risonanza
cosmica, ultimi imitatori
della creazione. Il
giudice istruttore, asciugandosi
le labbra bavose con
un fazzoletto bordato di nero,
dichiara che questi,
della parola in rivolta, sono morti
che dialogano con
altri pochi morti. Majakovskij entra in casa
barcollando e
lasciando impronte di fango in cucina
I suoi occhi
sprofondano nelle orbite e da lì
scrutano il mondo
esterno che ha assunto la forma di un caos
mercificato. Poi,
ridendo esclama: «Ogni poeta degno
di questo nome è
scimmia di Dio, o dell’idea di Dio,
per questo cerca nella
bellezza la forma certa, dictamen magnum,
e anche per la
fugacità delle cose del mondo».
L’infinita risonanza
del cosmo dimora
nel soffio vocalico di
queste scimmie,
nei labirinti del loro
respiro,
fedele al respiro
delle nuvole più bianche
salpa su un ruscello
di salmi.
Henry a Creta, in una
stagione remota mi disse
che i nuovi barbari,
masticando chewing-gum
con saccenteria
spavalda distruggono il parlar materno
ma che un giorno la
poesia tornerà sull’orlo della ferita
e che allora il caos
letale s’arrenderà alla sua forma divina.
1 commento:
Speriamo.... Emy
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