Donato Salzarulo
Il piacere è un fatto.
La lettura: un atto di libertà
Questa replica di Donato Salzarulo va letta tenendo conto della discussione iniziata nel post precedente intitolato "Salzarulo-Abate, Sul "piacere della lettura": libertà o ideologia" (qui)
REPLICA AD ENNIO ABATE
1. - «Si dovrebbe guardare allo scarto tra lettori forti, saltuari e non
lettori…Esso è secondo me la spia di differenze sociali (o di classe) che poi
ritroviamo in tutti i campi del sapere, della politica e dell’economia.» E’ più
che probabile. Io, però, non saprei dire se quel 6,9 % di lettori forti
appartenga automaticamente ai “capitalisti, ai leader di partiti e agli
accademici”. La piatta empiria mi dice il contrario. Non so se gli appartenenti
a Moltinpoesia che, stando alla definizione di lettore forte (colui o colei che
legge più di 12 libri l’anno), sicuramente lo sono, debbano finire tutti nel
mucchio dei “capitalisti, ecc.”. I lettori e le lettrici forti che conosco non
li so a capo di aziende, di piccole o medie imprese, dediti al gioco in borsa o
alla scalata di qualche banca, alla gestione di una gioielleria, di una
macelleria, di un chiosco per la rivendita della frutta. Anzi, ne conosco
diversi disoccupati, cassintegrati o disperatamente in cerca di lavoro. Qualcuna
fa la maestra, qualcun altro è pensionato, parecchi sono, addirittura,
ancora studenti o alunni. Risulta, ad esempio, che i bambini di scuola
elementare leggano più degli adulti e le donne più degli uomini. Insomma, non è
detto che in quel 6,9% di lettori forti corrispondenti a 3 milioni e 900 mila
persone (da 6 anni fino alla terza e quarta età), vi sia per forza un
Marchionne o un Ricucci, un Casini o uno Scillipoti, un accademico di Filologia
romanza o della Crusca. Anche perché qui non si parla di letture fatte per
professione. Il preside che legge ordinanze e circolari o l’avvocato che
compulsa sentenze della Cassazione o consulta manuali del diritto non fanno
parte della categoria. I dati Istat, discutibili quanto si vuole (e Ferrieri,
ad esempio, nel suo libro li discute e li critica fortemente), si riferiscono a
lettori che dichiarano di leggere “per piacere”, nel tempo libero. Qui
tornano utili tre righe di Berardinelli, tratte da un articolo pubblicato
domenica 27 novembre sul Domenicale del Sole 24 Ore: «Leggere letteratura,
filosofia e scienza, se non lo si fa per professione, è un lusso, una passione
virtuosa o leggermente perversa; un vizio [anche lui!...] che la società non
censura; è sia un piacere [ancora!...] che un proposito di automiglioramento.
Richiede un certo grado e capacità di introversione concentrata. E’ un modo per
uscire da sé e dall’ambiente circostante, ma anche un modo per frequentare più
consapevolmente se stessi e il proprio ordine e disordine mentale.» Che sia
così, del resto, non c’è bisogno di andar molto lontani. Basta guardare Ennio
Abate e Donato Salzarulo che, al momento, non hanno più nessuna professione
(sono pensionati). Eppure continuano a leggere. Forse più di un libro la
settimana: 52 l’anno, forse 60, 70, 80…Altro che lettori forti!
Iper-arci-stra-lettori…Diresti che sono capitalisti? Ma se hanno una casa in
proprietà come l’80% degli italiani e hanno passato una vita a parlar male del
fare soldi ed arricchirsi!...Sono leader politici?...Sì, insomma, qualche
influenza ce l’hanno, ma non superano la cerchia degli amici…Sono
accademici?...Di quale Università? Di Cologno?...Le buonanime di Fortini e di
Masi forse avrebbero detto che appartengono al “ceto medio pedagogico”.
Ginsborg a quello “riflessivo”. Per usare un linguaggio vecchio, direi che sono
due piccoli borghesi, provenienti da famiglie povere, contadine che, come
cantava la canzone, “volevano cambiare il mondo” e che si concedono il lusso,
il privilegio, il piacere, la passione di leggere più di 12 libri l'anno.
Perché lo fanno? L’elenco dei motivi sarebbe lungo. Per quanto mi riguarda ho
cercato un po’ di raccontare come sono diventato “lettore forte”. All’interno
di questa categoria-Istat è possibile incontrare uomini/donne della finanza,
manager, membri di consigli di amministrazione, onorevoli, segretari di
partito, presentatori televisivi, registi, direttori di case e collane
editoriali, professori universitari e prof. di liceo?...Sì, è possibile. Anche
se il 20% dei laureati non legge MAI un libro, è probabile incontrarli più tra
i lettori forti che tra i non lettori. Quale utilità scientifica ha questa
classificazione Istat?...Non sono un esperto della materia. A naso, direi non
molta. E’ una categoria descrittiva.
2.- «Credo che chi parla della lettura ancora oggi la intenda come un
valore. Chiameremmo “vizio” la democrazia, l'amore, la fraternità o altra cosa
a cui attribuiamo significato positivo?... » Oh, Dio!, ma ti sembra
possibile mettere insieme tutte queste parole-cose soltanto perché gli
attribuiamo un valore positivo? La lettura è un'abilità, la democrazia una
forma di governo, l'amore un sentimento, la fraternità una relazione di
appartenenza tra figli della stessa famiglia... Limitandosi ad affermare
che sono tutti valori positivi, sì che si rischia di far della retorica e del
moralismo. La democrazia, anche quando funziona benissimo, non ha nulla di
perfetto. Figurarsi quando è azzoppata, dimezzata, spettacolarizzata, ridotta a
forma vuota come ai nostri giorni. I suoi vizi appaiono più che evidenti.
Dell'amore, non parliamo!...Tutti, ma proprio tutti i “teorici”, ne parlano
come di una malattia che acceca: fa vedere principi o principesse laddove si ha
a che fare soltanto con poveri uomini o povere donne. Le pene d'amore sono
proverbiali e...molto poetiche! Gli innamorati spesso maledicono il giorno del
loro primo incontro. «L'amore è una malattia senza la quale non si sta bene »
sostiene qualcuno che non ricordo. Da questo punto di vista, è meglio
dell'odio. Ma si sa che è soltanto l'altra faccia. La fraternità… Devo
ricordarti Caino ed Abele?...Detto questo, è meglio la democrazia che la
tirannia, l'amore che l'odio, la fraternità che la rivalità e lo scannamento,
ma ritenere che queste esperienze siano privi di vizi e malattie, è roba da non
crederci. Al di là del bene e del male. La via dell'inferno è lastricata di
buone intenzioni. Sì, però, tutto questo che c'entra con la lettura? Questa è
un'abilità importantissima. Possedendola si possono fare esperienze fondamentali:
dal capire cosa dice la fidanzata nella lettera al comprendere il contratto
scritto dal notaio, dal capire l'avviso pubblico del Sindaco alla comprensione
di un articolo di giornale. Si può leggere la storia d'amore di Lancilotto e
Ginevra come faceva zio Peppo, tornando ogni sera dalla campagna, in attesa che
la moglie preparasse da mangiare. Zio Peppo era formidabile. Aveva imparato a
decifrare le righe stampate nelle trincee della prima guerra mondiale. Sapeva
solo leggere e fare la sua firma. Non sapeva scrivere. E non faceva che leggere
questo libro, questo suo unico libro. Ne era geloso. Una volta buttai l’occhio.
Era una versione in prosa dell'Orlando Furioso. Bisogna dirsi la verità: per
quanto importante ed essenziale, leggere non è un bisogno primario. Chi non
legge vive lo stesso e non è detto che sia meno intelligente o meno sprovveduto
di chi si dedica appassionatamente a quest’attività. Siamo noi lettori
che vorremmo “salvare” o “promuovere” i non lettori, raccontando loro le meraviglie
del leggere. Ferrieri, che pure non ama la “promozione”, ha addirittura scritto
un libro: «La lettura spiegata a chi non legge». Ma che ne pensano i non
lettori? Potrebbero pensarla come il cardinale d'Este che disse dell'Orlando
Furioso: “quante corbellerie!” . Chi sono i non lettori? Quelli che,
secondo l’Istat, non leggono nel tempo libero neanche un libro l’anno.
Potrebbero essere analfabeti (strumentali o funzionali), ma anche piccoli
padroncini alfabetizzati che ritengono la scuola un luogo inutile o laureati
che, dopo essere stati proclamati dottori, hanno cose più interessanti da fare
che star dietro a testi di letteratura, filosofia, scienze. Costoro per
condizione (gli analfabeti) o per scelta (gli alfabetizzati) se ne fregano del
“piacere della lettura”. Sono per questo “cattivi”, mentre gli altri (i lettori
divoratori di pagine) sono “buoni”? Scherziamo?!... La bontà e la cattiveria
possono essere diffuse nell’una e nell’altra categoria. Non si può far dire ad
una classificazione, più di quanto dica. E’ da buttare alle ortiche perché non
consente una comprensione scientifica e/o politica del fenomeno?
“Comprensione scientifica” e “comprensione politica” non sono la stessa
cosa. Ma sorvoliamo. Ora, però, è chiaro, di quale fenomeno si tratta? E’ chiaro
quale attività vuole misurare l’Istat? La lettura fatta nel tempo libero;
quella che Berardinelli definirebbe “lusso”, quella “passione virtuosa o
leggermente perversa”; quel “vizio che la società non censura”; quella
lettura che è “sia un piacere che un proposito di automiglioramento”.
3. - Ma esiste un’esperienza di lettura così? Se non esistesse, non ci
sarebbe stato sviluppo dell’industria editoriale, librerie, biblioteche. Se le
persone leggessero soltanto i manuali scolastici o redatti per le singole
professioni, non ci sarebbe un’iper-offerta di libri di tutti i tipi e di tutti
i generi. Non ci sarebbe il megastore che mi dà vertigine e crampi allo
stomaco. Non ci sarebbero forse neanche le riunioni di Moltinpoesia. Tutto ciò
è ideologia?... No, tutto ciò è fenomeno che si tocca con mano. Il “piacere
della lettura”, prima di essere proposto come paradigma esplicativo del come e
perché si diventa lettore forte, è un fatto che si può cogliere ad occhio nudo.
Lo si è cominciato a cogliere, come spiega Francesca Serra, dal Settecento, con
l’affermazione della forma-romanzo. E quelle ad essere più coinvolte in
quest’attività “piacevole” sono state proprio le donne. Madame Bovary
legge continuamente romanzi e fantastica, sogna l’amore romantico, desidera
uscire da sé, dall’ambiente che la circonda, dal matrimonio piatto e avvilente.
Forse è qualcosa di più di un’eroina letteraria. E’ lo specchio di un ceto.
Questo fa la lettura non scolastica, quella che non risponde a imperativi o ad
obblighi, che mette in contatto le maschere sociali del Sé con le pulsioni
profonde dell’Es. Anche pulsioni di morte. Ho letto qualche pagina di Freud
e so che Eros e Thanatos lavorano insieme. Infatti, Bovary muore.
«Bovary sono io» disse Flaubert.
4. - «Mi interessa pensare ai problemi della sopravvivenza, alla lotta
contro la natura spesso ostile alle società umane, ai problemi della loro
riproduzione. Che sono stati affrontati nella storia umana gerarchizzando gli
uomini in classi, imponendo lavoro servile, guerre di conquista, miti e
religioni; e poi, con il capitalismo, il passaggio al lavoro salariato. Freud
parlò di “disagio della civiltà”, di necessaria repressione degli istinti
sessuali per salvaguardare le società. Marx, prima di lui, ipotizzò una
liberazione dal lavoro.» Interessi legittimi; persino condivisibili. Ma in che
rapporto stanno con l’esperienza (non scolastica, non professionalizzata) della
lettura da spiegare a chi non legge?..Non si può menare il can per l’aia. Non
si può dire “il problema è un altro”, se quello da spiegare è relativo alla
lettura. E se si sostiene che è un altro, si deve mostrare, ripeto, in che
relazione, in che rapporto sta con quest’altro che s’invoca. Sotto questo
profilo le osservazioni di Abate mi sembrano davvero generiche. Meglio dire
chiaramente che non si è interessati a questo problema, piuttosto che
rimproverare omissioni, dimenticanze (l’altra faccia della medaglia, la Natura
matrigna, la guerra che infuria, il pan che ci manca, ecc. ecc.). Il
racconto-resoconto-recensione al libro di Ferrieri comincia, registrando una
situazione affettiva malinconica e luttuosa. Non è quindi la consapevolezza del
dolore e della tragedia che manca.
5. - «Le gerarchie di accesso al piacere o al vizio della lettura sono
quasi inalterate. E sul perché si tace o forse si divaga.» Io vorrei non
tacere, né divagare. Perché i non lettori non leggono? Perché non sono ricchi o
benestanti. Se non capisco male, questa è la risposta di Abate. Consolante e
ideologica. Non è così. E, se lo è, lo è solo in parte. Come ho detto sopra,
alle categorie “non lettori”-“lettori”- “lettori saltuari” – “lettori forti”
non corrispondono, più o meno, biunivocamente, classi di reddito. Tra i lettori
forti ci potrebbero essere anche dei poveri (o relativamente poveri), così come
tra i non lettori ci potrebbero essere anche dei ricchi (o relativamente
ricchi). Se devo generalizzare, a partire da ciò che vedono i miei occhi e
ascoltano le mie orecchie, la maggioranza dei lettori forti appartiene forse
alla piccola borghesia intellettuale o, se si preferisce, al ceto medio
pedagogico o riflessivo. E’ un gruppo sociale sotto accusa da anni
(anti-intellettualismo diffuso), che si parla abbastanza addosso (in parte,
anche questo scambio fra me ed Abate lo dimostra), che oscilla tra il populismo
del “qualunquismo critico” (come l’ha definito brillantemente un’amica) e
l’ambizione-aspirazione al protagonismo, alla “conquista della scena”
(letteraria, mediatica, culturale, politica…). Vorrebbe giustamente investire e
far circolare il proprio “capitale simbolico”, ma l’industria culturale e
libraria è inflazionata. Perché i non lettori non leggono? Perché la “dittatura
dell’ignoranza” è più gradevole e remunerativa di quella “dell’intelligenza”.
Giovanni, III, 19, citato da Abate, ha ragione. «E gli uomini vollero piuttosto
le tenebre che la luce». A questo punto cosa possiamo fare? Possiamo provarci a
mostrare la ricchezza, la poliedricità, le tante sfaccettature di un’esperienza
come la lettura volontaria, libera, autopromozionale e, senza dirlo troppo in
giro per non esibire il nostro narcisismo, proporci come esempio. Un po’ come
faceva il mio prof. amante di Dante. Ovviamente noi ripeteremmo a memoria passi
del Capitale, dei Grundrisse, di Brecht, di Fortini…di tutto ciò che potrebbe
servire a far capire che questo sporco mondo capitalistico va distrutto e,
soprattutto, servire a far delle scelte e a spingere all’azione. Perché,
parliamoci chiaro!, non possiamo mica fare come a scuola in cui tutti i
filosofi o tutti gli autori hanno ragione. I libri, quelli che contano,
pretendono scelte. Non si può essere, ad esempio, fortiniani e negriani,
storicisti e antistoricisti, pasoliniani e sanguinetiani, seguaci della
beat-generation e penniani…O si può?...Forse la bellezza della lettura è
proprio questa. Per un po’ ci si può “astrarre”, “isolare” dalle battaglie
cruente della storia. Si può ragionare astrattamente su modelli
(descrizioni del mondo e istruzioni per l’uso), su comportamenti e situazioni.
Si può ipotizzare in astratto (cosa succederebbe se?...). Si possono immaginare
dinamiche e possibili conseguenze: “Ok…L’amore romantico è meraviglioso, ma non
mi va di finire come Madame Bovary!...”. E’ evidente ora perché la
lettura può diventare un vizio? Vitale quando si voglia. Perché tutto questo
spremere meningi, può risolversi in poco o nulla. Ma tu leggi!
6. – Perché nel decennio 1967-77 ho letto pochissimi romanzi e
molti saggi?...Abate lo sa perché. Dovevo formarmi. L’ho raccontato “in mare
aperto”, un articolo scritto per il numero 8 di Poliscritture. Ancora oggi,
comunque, continuo a leggere molti saggi e pochi romanzi. Basta scorrere i
titoli dei libri che confesso d’aver comprato nel megastore o che ho citato
nella prima replica postata.
7. - Estetizzazione della vita significa volerne fare un’opera d’arte. E’
un progetto che non ho mai avuto. Preferisco la vita all’opera d’arte, il bacio
alla rappresentazione del bacio. L’estetizzazione, però, può riguardare tutto:
anche la politica, il dolore, la violenza, la guerra…Sull’estetizzazione della
politica, inutile dire. Leggere e rileggere, se necessario, Walter Benjamin. La
politicizzazione dell’arte è la cattiva risposta che venne data.
Per l’estetizzazione della violenza, piccola citazione da Wikipedia: «Il
mondo dell’arte in senso lato e, in particolare, le arti visive e la letteratura hanno estetizzato
la violenza al punto da renderla una forma d’arte
autonoma. Nel 1991, Joel Black,
professore di letteratura dell’Università
della Georgia, ha affermato che: “Se, tra tutte le azioni umane
possibili, ce n’è una che evoca l'esperienza estetica del sublime, di certo si
tratta dell’omicidio”. Black notò che “Se l'omicidio può
essere una forma d'arte, allora l'omicida è una sorta di artista — o un
anti-artista — la cui arte si manifesta quale “performance” e la cui
specificità non consiste nel “creare”, ma nel “distruggere”». L’idea dell’omicidio
quale manifestazione di elementi estetici è di vecchia data, e risale al 1890,
quando Thomas De Quincey
scrisse: “Qualunque cosa può essere considerata da due punti di vista.
L’omicidio, per esempio, potrebbero essere valutato sul piano morale […],
tuttavia – lo confesso – questo è il lato più debole; viceversa potrebbe essere
valutato da un punto di vista estetico, in relazione cioè a ciò che i
tedeschi chiamano il “buon gusto”.»
Francamente,
per quanto mi sforzi, non riesco a trovare sublime la violenza, l’omicidio, la
guerra. Lavoro a contenere anche la violenza presente nelle relazioni d’amore.
Forse non mi piace il sublime. Amo la prosa e la cura del mondo.
8. - La soggettività. L’atto di lettura è per sua definizione soggettivo.
Ed è mosso, secondo me, più che dal piacere, dal desiderio: di conoscenza, di
potere, di riconoscimento, di costruzione dell’identità, di esplorazione, di
fuori-uscita dal sé, di voglia d’azione e trasformazione… Ogni atto di lettura
è davvero singolare. Vale più che mai l’aforisma fortiniano: «Due persone che
dicono la stessa cosa, in realtà non dicono la stessa cosa». Adattato: due
persone che leggono lo stesso libro, in realtà non leggono lo stesso libro.
Ancora, più singolare: la stessa persona che legge lo stesso libro in momenti
diversi scoprirà significati sempre diversi. Ibis redibis non morieris in
bello. A seconda di come metterai le virgole, tornerai o morirai in guerra.
Così per la lettura. Basta rileggere, basta spostare l’attenzione da un
sostantivo a un verbo, da un aggettivo a un avverbio, da una frase a un’altra e
il campo dei significati si mette in movimento, oscilla, si allarga, si
arricchisce. Macchie di Rorschach. Se non si ha l’onestà di tenere a bada le
proprie proiezioni e se non ci si immedesima, non si cerca umilmente di
comprendere le intenzioni dell’autore, si può far dire a uno scritto ciò che si
vuole. Che potessi diventare portatore del “principio del piacere della
lettura” o che, addirittura potessi trasformarlo in ideologia, non l’avrei mai
creduto. Per sfuggire alle astrattezze e spingere il discorso verso la
concretezza, avevo ricordato le regole delle cinque W: chi legge, cosa legge,
come legge, dove legge, perché legge…Già perché leggi? E’ la domanda che
rivolgo all’amico Abate.
30 Novembre 2011
9 commenti:
Che bello bellissimo: due persone che leggono lo stesso libro in realtà non leggono lo stesso libro... . Mi fai venire voglia di leggere,così la pianto lì di scrivere... o no? devo finire una cosa...devo scrivere...ma no dai va che leggo... leggere o scrivere anche qui Donato le due cose si avvicinano senza mai toccarsi.Tu mi capisci! Ciao Emy
Mi sento di sottolineare, e condividere, questo passo di Salzarulo, al punto 8 : "La soggettività. L’atto di lettura è per sua definizione soggettivo. Ed è mosso, secondo me, più che dal piacere, dal desiderio: di conoscenza, di potere, di riconoscimento, di costruzione dell’identità, di esplorazione, di fuori-uscita dal sé, di voglia d’azione e trasformazione… Ogni atto di lettura è davvero singolare."
L'essere umano per comunicare ha bisogno di rappresentazioni,di ipotesi che poi si configureranno in storie con i loro personaggi in cui ci si potrà riconoscere o disconoscere.
Leggere aiuta in questo processo di soggettivazione. Leggere è un ausilio che può fare tutt'uno con il progetto per cui si legge (per il potere - ricordiamo il Dario Fo dell'operaio che conosce 100 parole e il padrone 1000 e per questo lui è il padrone -; per far parte di un gruppo (a volte, casta) che parla lo stesso linguaggio, legge gli stessi libri e guai a non conoscerli; per il piacere della scoperta, essere il Cristoforo Colombo della situazione; scoperta a cui si mescola un po' (un bel po')di narcisismo nel senso che "solo io sono in contatto con il sub-limem e voi non capite un accidenti"; oppure come una scelta di fare certe letture più sintoniche e non altre (magari dispersive) e quindi entrare in contatto con la rinuncia del desiderio onnivoro di comprendere tutto, sapere tutto.
Perchè allora lo strumento cessa di essere uno strumento, diventa un fine a sè.
Si può leggere per entrare in comunicazione... ma per comunicare ci sono anche altri strumenti.
Pertanto il leggere è una opzione squisitamente soggettiva. Si possono reclutare gli altri a partecipare a questa scelta (vediamo oggi il proliferare del format di *Pordenone legge*) ma rimane soltanto una vetrina per gli organizzatori, i partecipanti ed il pubblico nella misura in cui esso può dire "io c'ero".
Il desiderio è interno al soggetto, il piacere è legato alla condivisione. Fra questi due momenti si può creare uno iato, iato comunicativo che può essere 'coperto', ad esempio, dalla scrittura: almeno la pagina accondiscende a ciò che depositi in essa. Poi si scopre che non è così, che non è sufficiente così...
Che il famoso "noi" è importante, è una specie di lettura 'dal vivo'. Ma provate a leggere un libro in continuo movimento (tentativo di Calvino nel suo "Se una notte d'inverno un viaggiatore..."). Vi viene il capogiro...
Rita S.
Cara Emilia, è vero, leggere o scrivere sono due atti che normalmente si avvicinano senza mai toccarsi. Però potrebbero separarsi a tal punto da produrre una figura come zio Peppo, lettore incapace di scrivere. Paradossalmente si potrebbero avere scrittori incapaci di leggere gli scritti altrui.
Grazie, Rita, per il tuo intervento. Chiarisce e approfondisce con esempi illuminanti un punto importante di questa replica: la differenza tra desiderio e piacere e il processo di soggettivazione della lettura. Grazie ancora.
Donato
Appartengo alla categoria di lettori che non compra neanche un libro...Spero che fra gli utenti di questo blog non ci sia neanche un editore o un proprietario di libreria...Li prendo tutti in biblioteca. Gli unici libri che conservo a casa sono quelli che mi regala un caro amico. E per uno strano, stranisimo caso sono gli unici che ricevo in regalo...ecco che la lettura diventa un vero e proprio piacere.
Donato scrive benissimo e la sua scrittura è una cascata di pensieri e approfondimenti,regala al suo pubblico perle che andrebbero però pubblicate.
Grazie Giulia
Grazie Donato per il tuo scritto.Appartengo alla categoria dei "lettori onniviri" e ho colto il suggerimento presente in queste parole:"..se non si ha l'onestà di tenere a bada le proprie proiezioni ..se non si cerca di comprendere le intenzioni dell'autore si può far dire a uno scritto ciò che si vuole." Invito ad una lettura critica dunque. Un apprezzamento al tuo modo di scriver, ti leggo con piacere per la tua chiarezza.
Maria Maddalena Monti
Appresso molto il titolo "off putting".... :))) erm
Giulia, ma davvero non compri neanche un libro?...Pensa a quante persone lavorano per far girare una pagina scritta!...Grazie, comunque, per gli apprezzamenti.
Grazie anche a te, Maria Maddalena. Fa piacere essere letto con piacere!...
E tu enn che dici? Apprezzi molto solo il titolo?...Le mie argomentazioni non ti convincono?...
Ciao
Donato
già già!
laddove, "più innamorate", Emy e Ritarò, per me significava, appunto, "più sottomesse, dipendenti, risentite..."
infatti, se una o uno sta normale in un rapporto, secondo me, prima di essere "innamorato", semplicemente "ama", vuole "bene".
una sera, due anni fa, con una mia amica americana del Montana, tale Sabine, di origine tedesca... - madre di una bimba di 9 anni, e vedova a soli 32 anni - siamo pervenute alla traduzione in inglese di "ti voglio bene" (espressione che in inglese non esiste come distinzione da "ti amo":
abbiamo fatto una specie di seminario domestico quella sera davanti a una bella camomilla, ed il risultato fu:
"I wish the "good" (the "best") for you...I wish you the good..."
che significa,
"mi auguro il meglio per te, ti auguro il bene"
: ecco cosa significa il nostro "ti voglio bene": "ti auguro del bene..."
ora, questo non è esattamente il sentimento (di augurare il bene all'altro) e la disposizione di animo di uno o una "innamorato/a" in una coppia.....(da qualsiasi latitudine del mondo si inquadri la questione)...
quanto piuttosto "ti voglio mio/a"... "devi essere mio/a": ti auguro di rimanere mio!
ha un aspetto di paradosso, in quanto la mancanza di libertà, che viene dall'appartenere, nella coppia, all'altro, in questa specie di amore-possesso, è la negazione dell'amore.
erma
oppps ho sbagliato a postare, è il post sbagliato...si potrebbe cancellare?
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