sabato 13 marzo 2010

Grazia De Benedetti: Discutendo di dialetto.Serata 26 marzo 2009 Palazzina Liberty Milano

Per darvi un’idea dei dibattiti di approfondimento che si svolgono a colpi di e-mail tra i MOLTINPOESIA, ecco qualche cenno a quello recente sulla poesia in dialetto. Tantissimi gli spunti forniti da Ennio Abate con lo scambio di mail tra lui e Mario Mastrangelo avvenuto già del 2004. In sintesi, per Ennio il dialetto è una lingua basilare, elementare, che storicamente non ha mai avuto un rapporto paritario con la lingua italiana, bensì gerarchico e conflittuale. Perciò per lui certi termini astratti o moderni, strettamente collegati alla cultura dotta, letteraria, sono poco conciliabili con il dialetto, lingua pratica, del popolo, finché in Italia sono esistiti un popolo e un universo culturale e materiale popolare, cioè fino alla prima industrializzazione. Il dialetto che si usa oggi, specie in poesia, è lingua morta anzi carbonizzata. L’italiano no, anche se vogliamo considerarlo in declino, subordinato a lingue più diffuse. Ennio ha usato il dialetto per evocare immagini e sentimenti arcaici, intrisi di angoscia e l’italiano per le riflessioni o per “incorniciare” la memoria carbonizzata della sua infanzia .
Mario Mastrangelo concorda sul fatto che il dialetto è un mezzo linguistico congeniale per
recuperare la memoria, ma sottolinea che esso è qualcosa di diverso per lui, rimasto a Salerno, che
per Abate, che ne è emigrato. Egli pensa di avere, nello scrivere poesie in dialetto, più libertà e
meno steccati. E’ d’accordo poi con Franco Fortini, che la poesia dialettale, che già adesso è in
alcuni autori troppa complessa e autoreferenziale, rischia di divenire in futuro snobistica,
circolante solo tra addetti ai lavori.
Con vari interventi, Giorgio Mannacio ha cercato tra l’altro di ristabilire un certo equilibrio tra
lingua e dialetto, restituendo a quest’ultimo una residua dignità. Per lui anche il dialetto è un mezzo
di comunicazione, capace di servire ad ogni tipo di scambio, benché sia stato eroso nella sua forza da
contingenze storiche, sociali ma anche scientifiche. Si è creata così tra l’area sociale della
concretezza e quella della “cultura” una frattura che ha ridotto le possibilità del dialetto. Oggi ogni
linguaggio di poesia – dialettale, italiano o di altra lingua - è ormai marginale perché la poesia è
...per pochi.
Mannacio osserva pure che nello scambio Abate/Mastrangelo è mancato un riferimento al Belli.
Abate gli risponde che la situazione nella Roma dei tempi del Belli era molto diversa. Si potrebbe
dire che il dialetto era l’accademia, e lingua il dialetto utilizzato dal poeta. Il dibattito tra lui e
Mastrangelo era però focalizzato sull’uso poetico del dialetto oggi, sulla sua ambigua rinascita
elitaria e sulla sua circolazione obbligatoriamente “marginale”. Abate, come Mannacio, pensa che
si debbano fare i conti con la globalizzazione, ma evitando di scegliere tra i due estremi:
l’anglicizzazione (mentale, prima che linguistica) o l’assolutizzazione del dialetto come “piccola
patria” (leghista), aprendosi invece alla mescolanza linguistica.
L’accostamento caotico però ad altre lingue lascia irrisolto il problema della traduzione tra i vari
linguaggi, dialetti compresi. Insomma il multilinguismo può essere solo di superficie (di segni, di
significanti) oppure puntare ad una strutturazione dei significati (storie, tradizioni singole): cosa più
ardua perché i conflitti linguistici rimandano a conflitti sociali irrisolti.
Anche Beppe Provenzale conviene che i dialetti si trasformano da sempre e che memoria e
tradizione orale hanno da sempre veicolato conoscenza. Prende però una posizione distaccata. Non
ama certe analisi al “bisturi elettronico” e ritiene che il dialetto sia una “lingua senza passaporto”.
Enzo Giarmoleo, invece, si chiede in che misura il pensiero unico sia riuscito a omologare i dialetti
appiattendoli alle esigenze del mercato. E cita Antonio Gramsci, che apprezzava il dialetto e
riteneva che non lasciar parlare in sardo i bambini nuocesse alla loro formazione intellettuale e alla
fantasia. L’ultima riflessione è toccata a Mastrangelo che ha scritto: «Penso che in poesia conviene
non soffermarci troppo sulle caratteristiche di un linguaggio o di un altro. Io talvolta mi considero
un poeta-falegname. Mi sono trovato questo pezzo di legno e ho visto che riuscivo a lavorarlo, a
farci delle cose che con altri legni non sapevo fare. Ora ne conosco la durezza, i punti deboli, le
nervature, il colore, l'odore, ma penso che non mi è molto utile per il mio lavoro sapere da dove
viene, quanti quintali se ne producono all'anno, quanti controlli ha dovuto superare alla dogana

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