Da qualche anno partecipo con molto interesse a serate di Poetry-slam, qui a Milano, in città o nell’hinterland, a Torino, Pavia e in molte altre località, sia del nord che del sud Italia.
"Il Poetry Slam è sostanzialmente una gara di poesia in cui diversi poeti leggono sul palco i propri versi e competono tra loro, valutati da una giuria composta estraendo a sorte cinque elementi del pubblico, sotto la direzione dell’Emcee (Master of Cerimony), come dicono in America, mutuando il termine dallo slang Hip Hop. In sintesi è questa la spiegazione che ne da Lello Voce, il poeta che, forse più di ogni altro, ha il merito di aver promosso in Italia questo genere di spettacolo.
Nata a Chicago nel 1987, ad opera del poeta Marc Smith, la pratica dello slam si è rapidamente diffusa in America, Canada, Inghilterra e Germania. In Italia se ne fanno ormai un pò dovunque, fuorché nei circoli letterari tradizionali dove ho constatato personalmente che non se ne sa nulla. Non solo, in questi ambiti tradizionali, dove si fa tanto parlare del pubblico della poesia (ma chi ha avuto la brillante idea di chiamare così un pubblico composto per lo più dai poeti stessi?), quand’anche fosse conosciuto il Poetry-slam è comunque soggetto a pregiudizi: una cosa per ragazzi, la solita bagarre di dilettanti, esterofili nostalgici della Beat-generation...
Sarà, ma intanto a queste manifestazioni il pubblico, quello vero, quello che normalmente non scrive poesie, ci va ed è quasi sempre piuttosto numeroso. Forse la ragione sta nel fatto che si diverte partecipando, esprimendo il proprio giudizio, fischiando se gli va, ma spesso anche applaudendo con commozione. Ben altro che stare seduti in silenzio nelle cerimonie dei reading tradizionali.
Capisco che a qualche poeta possa sembrare imprudente, oltre che ingiusto, sottoporsi a giudizi così evidentemente epidermici ma, se ammettiamo che si scrive per tutti, che ogni libro non nasce sapendo con certezza chi lo leggerà, allora bisogna anche ammettere ragionevolmente che imprudenza e avventura sono comprese nelle finalità e nel destino di ogni poesia.
Molti i poeti giovanissimi agli slam, giovani non tanto per l’età ma per le influenze culturali. Nulla a che vedere col verso libero dei beat, mi riferisco piuttosto all’hip-pop, un movimento musicale parallelo al graffiti writing che da noi, in lingua italiana, si traduce con curiose caratteristiche. Prima di tutto la contaminazione del ritmo musicale che sembra imporre l’uso della rima, poi il verso che non può sottrarsi da cadenze metriche spesso piuttosto ripetitive. Da musica leggera per capirci, anche se questo termine, i rapper, credo neanche lo conoscano.
Preciso che nelle regole degli slam è vietato avvalersi di qualsiasi altra cosa che non sia la voce. Quindi questo tipo di slammer finisce con l’esprimersi a raffica, talvolta improvvisando ma quasi sempre recitando a memoria, in modo per medavvero ammirevole, sia testi lunghissimi e collaudati che improvvisazioni. Personalmente ci trovo del sano ribellismo e mi provoca non poche domande sull’evolversi del linguaggio, in questa epoca di internet e di scrittura mail e sms.
Questo vale naturalmente solo per i rapper, ma ai Poetry slam possono partecipare tutti, spesso non c’è alcuna selezione e conta chi si fa avanti prima. Quindi c’è spazio per poeti intimisti dove, vuoi per la qualità dei versi, vuoi per la convincente presenza scenica, riescono comunque a farsi ascoltare. E spesso vincono.
Il dibattito sulla qualità delle poesie resterà sempre aperto ma bisogna avere fiducia nel fatto che, in tutti i casi, la poesia da sola ha una sua forza e per quanto sia dimenticata dal mondo della comunicazione, resta benvoluta e, come arte, è nel cuore di tutti. E’ circonfusa dall’amore popolare tanto che nessuno si sognerebbe di temerla o disprezzarla. E’ antica e la gente lo sa.
Alle volte per poter capire bisogna accorgersi nuovamente di cose che sembrano scontate. C’è rispetto e timore verso il poeta forse perché inconsciamente è associato ad una razza in estinzione, quasi un’anomalia del genere umano dalla quale però ci si aspetta molto: verità, creatività non comune, cuore e sentimento, oppure intelligenza , saggezza.
Devo dire che agli slam ci porto le mie poesie così come sono nate maturando nei giorni, ma ammetto che la presenza attiva del pubblico può indurre a scelte facili, a preferire l’aneddoto prosaico più comprensibile in alternativa ai versi complessi di chi si è allenato nel modernismo, anche minimale, di questi ultimi anni in Italia. Insomma, sto parlando di una buona occasione per fare palestra con il pubblico anzi, per quanto ne so, al momento l’unica. Infatti gli slam si presentano come poesia scritta ma che subito si fa voce, portando con sè molti altri aspetti della comunicazione che, a ragione, la sconfinano nello spettacolo.
Ho ancora bene in mente la vitalità scenica di alcuni poeti americani, quando ho avuto modo di sentirli in tour in Italia. Si sa che in America si preferisce l’aneddoto, che a ben vedere, anche quando ben tradotto, spesso sembra mancare di un solo verso, uno di poesia. Ma questa mi sembra una caratteristica propria della poesia detta a voce, certe finezze stilistiche rischiano di passare inosservate, oppure... son così azzeccate che comunque qualcosa della poesia e della sua arte finisce con l’arrivare.
Da molto tempo in Italia, come in Europa del resto, si fa uso della sola parola scritta. Scritta per essere letta in un libro. E’ una parola contenuta nel silenzio. Però poi bisogna chiedere alla gente di fare il piccolo sforzo di leggere, che è una pratica in fondo più complessa che assistere, per esempio, ad una sfilata di moda.
Lo slam è quindi uno spettacolo popolare, anche nel senso necessario della mediocrità: il gioco della scelta della giuria, la votazione, la proclamazione di un vincitore... intanto però la gente sta due ore con la poesia, si diverte, ascolta e se occorre si fa sentire rumorosamente. E molti poeti possono conoscere meglio il valore umano di quanto hanno scritto, che è quel tipo di esperienza di cui spesso gli esteti non tengono conto.
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