Abbozzo in questo breve intervento alcune incidentali e accidentate riflessioni a margine delle note di Ennio Abate sulla “moltitudi-ne poetante”. Sarò necessariamente e volutamente schematico. Sarò un poco caleidoscopico. Nel merito il primo merito (da riconoscere a Ennio) è quello, secondo me, di aver fatto emergere e non più solo sotto l’aspetto della lamentazione e del fastidio, ma sotto quello della potenzialità, un fenomeno quale è quello, appunto, della “moltitudine poetante”, che mi pare di grande interesse per chiunque voglia scrivere e leggere poesia o anche solo vivere culturalmente il presente. Il bisogno di scrivere, e di scrivere poesia, va pensato e trattato come uno dei bisogni culturali emergenti.
Nel merito comprendo anche l’insistenza e la testardaggine con cui Ennio questo tema ha proposto e riproposto in ogni occasione utile. Le nostre orecchie, infatti, amano professare sordità quando i suoni che le percuotono non sono voci d’arpa. Il secondo merito (nel merito) è l’utilizzo (potremmo dire creativo se non rischiasse di essere squalificante) di una categoria del pen-siero filosofico e politico trasferendola al mondo della cultura e della poesia. Questa operazione, che i più giudicano o avventata o presuntuosa, è invece a mio avviso un salutare atto di inveramento del pensiero filosofico e anche di quello poetico, perché lo co-stringe a fare i conti con la materialità del suo pensare, con le incessanti trasformazioni cui il pensiero va incontro, con lo scorrere dei mutamenti reali che impediscono di pronunciare un pensiero (lo stesso pensiero) due volte eguale. Può darsi che Spinoza quando parlava di moltitudine non avesse precisamente in mente un fiorire di versi anelanti la pubblicazione, ma è indubbio che solo una parola carica di pensiero (e di pensiero critico) ci consentirà di aprire alla comprensione del mutamento. E con i meriti mi fermo qui perché ora voglio presentare alcuni miei distinguo. Il primo è il rovescio del merito appena nominato, è il suo possibile de-merito (non che sia presente nelle note di Ennio, ma qualcuno potrebbe leggervelo come corollario). Il rischio della trasmigrazione di un concetto dal suo originario campo ad un altro lontano è quello del puro meccanicismo o della pura analogia. Ci sono avvisaglie di meccanicismo se la moltitudine spinoziana viene intesa e utilizzata come un edulcorante e un additivo ideologico in una situazione ancora spuria e confusa, in cui si riflettono dimidiate e qualche volta riprodotte in farsa le tendenze e le guerricciole che si combattono a livello di accademie, antologie, editorie; così come si presentano all’ennesima potenza fenomeni di narcisismo e autoreferenzialità. C’è sentore di analogismo forzato se si vuol vedere già fatto quello che forse potrà farsi solo dopo un lungo percor-so; se alla moltitudine viene fornito già bello e confezionato un salvacondotto che la certifica come possibile laboratorio del nuovo, come incubatrice di un poeta-massa che possa rivoluzionare l’asfittico panorama delle patrie lettere. Io mi distinguo ancor più accesamente quando Ennio brandisce la parola “elitario” come un semplice diminutivo-dispregiativo. Con-trariamente a quel che molti pensano io credo che una buona dose di elitarismo sia indispensabile al pensiero critico e ancor più a quello utopico. O, detto in altri termini, alla poesia. Per me la “bellezza comune” resta un formidabile ossimoro, capace di illuminarsi di sovversiva poesia solo grazie, appunto, alla sua potenza ossimorica. Con questo però non credo di meritare il ritiro delle patenti democratiche, sia perché tra letteratura e democrazia rimane comunque uno iato finora incolmato, sia perché non è la diversità dei pochi che dobbiamo combattere ma la distribuzione di tale diversità in base al privilegio, alla classe, alla cultura, al potere, ad ogni altro criterio che non sia la libertà di ciascuno e di tutti di essere quello che si sceglie liberamente di essere. L’elitarismo "positivo" non è certo quello che crea una sfera di eletti (tra elitarismo ed elettoralismo c’è una qualche sillaba e una qualche traslitterazione di differenza) ma quello che ricerca una cifra che sia il portato di una esperienza personale e singolare. Tra l’altro mi era parso di capire che l’utilizzo della categoria della moltitudine ci consentisse di uscire da un secolo di dittatura del popolo e del popolare e di entrare (o di rientrare) in quello della singolarità non rappresentabile e non riducibile. E’ solo in nome di un nuovo individualismo, ossia di una nuova concezione dell’individuo, che ci è possibile pensare oggi anche il collettivo, la comuni-tà, la condivisione. È possibile condividere solo ciò che, inizialmente, non è comune. Se tutto è già comune infatti non c’è il falanste-rio ma il quartier generale. Se vogliamo quindi utilizzare il termine moltitudine in azioni poetiche e culturali dovremo cominciare a chiarire molto bene che esso non ha nulla a che vedere con la cosiddetta cultura di massa e con la massificazione, che esso vuol esse-re altra e antitetica cosa rispetto all’utilizzo che del bene comune, del senso comune, del luogo comune ha fatto e fa l’industria cultu-rale oggi divenuta potenza planetaria. Ancor di più dell’industria culturale occorre diffidare quando pretende di vendere con il pro-dotto anche l’aura e l’etichetta di esclusività. L’ultimo punto che voglio toccare è quello del rapporto tra scrittura e lettura di poesia. Giustamente Ennio ammonisce che il ricor-rente lamento sui “troppi che scrivono ma non leggono poesia” ha spesso il sapore di una tirata d’orecchi libresca, di predica scolasti-ca, di una soglia e di un soglio letterario su cui possono sedere solo pochi eletti, a prezzo di studi, fatiche, titoli. Ma questa non è solo l’unica angolazione da cui osservare il fenomeno della asimmetria tra scriventi e lettori (di poesia), che rimane un fenomeno negativo anzitutto perché testimonia di un piacere a metà, di un canto interrotto. Occorre capire bene la differenza che c’è tra scrittura e lettura (dopo che per secoli abbiamo subito l’egemonia della prima) per riconoscere che anche in poesia l’ora di lettura è l’ora d’aria, l’ora della lettura è l’ora di una liberazione. Quando essa scoccherà vorrà dire che avremo deposto la componente prometeica che affila la scrittura, e a volte la rode dal di dentro, a favore del presente continuo del godimento. Avremo smesso di condannarci al futuro, alla posterità, rinunciando a lasciare il segno di una presunta immortalità sulla carta. Avremo accettato la più transeunte delle arti, la lettu-ra, appunto, che si accontenta di brillare e di spegnersi, come un fuoco d’artificio, come un fuoco fatuo, e di farci così compagnia nella notte dell’esistenza additandoci l’indomani. Se è vero che non c’è lettura senza scrittura, è ancor più vero che non ci può essere scrittura senza lettura, e questo vale ancor di più per la poesia perché il fiume della scrittura poetica, talvolta carsico, lutulento, ribol-lente, ha bisogno di perdersi e di ritrovarsi nel mare e nella pace della lettura. La lettura di poesia tra l’altro è forse quella che con più attinenza ricerca solo in se stessa le sue ragioni e le sue gratificazioni, fuori da ogni utilitarismo e da ogni strumentalità. Non si legge poesia di propria iniziativa se non perché la poesia ci allarga i polmoni, ci fa trattenere il fiato, ci consente l’immersione e la emer-sione nel quotidiano. Per questo la mia chiusa è una specie di poesia sulla lettura come danza d’amore sul corpo del libro. Sarebbe un po’ da ascoltare un po’ da vedere, perché ha la forma di una freccia, di un pungolo, di una chiglia, di una gradinata. Di tutte queste forme è fatta la forma della lettura.
Nel merito comprendo anche l’insistenza e la testardaggine con cui Ennio questo tema ha proposto e riproposto in ogni occasione utile. Le nostre orecchie, infatti, amano professare sordità quando i suoni che le percuotono non sono voci d’arpa. Il secondo merito (nel merito) è l’utilizzo (potremmo dire creativo se non rischiasse di essere squalificante) di una categoria del pen-siero filosofico e politico trasferendola al mondo della cultura e della poesia. Questa operazione, che i più giudicano o avventata o presuntuosa, è invece a mio avviso un salutare atto di inveramento del pensiero filosofico e anche di quello poetico, perché lo co-stringe a fare i conti con la materialità del suo pensare, con le incessanti trasformazioni cui il pensiero va incontro, con lo scorrere dei mutamenti reali che impediscono di pronunciare un pensiero (lo stesso pensiero) due volte eguale. Può darsi che Spinoza quando parlava di moltitudine non avesse precisamente in mente un fiorire di versi anelanti la pubblicazione, ma è indubbio che solo una parola carica di pensiero (e di pensiero critico) ci consentirà di aprire alla comprensione del mutamento. E con i meriti mi fermo qui perché ora voglio presentare alcuni miei distinguo. Il primo è il rovescio del merito appena nominato, è il suo possibile de-merito (non che sia presente nelle note di Ennio, ma qualcuno potrebbe leggervelo come corollario). Il rischio della trasmigrazione di un concetto dal suo originario campo ad un altro lontano è quello del puro meccanicismo o della pura analogia. Ci sono avvisaglie di meccanicismo se la moltitudine spinoziana viene intesa e utilizzata come un edulcorante e un additivo ideologico in una situazione ancora spuria e confusa, in cui si riflettono dimidiate e qualche volta riprodotte in farsa le tendenze e le guerricciole che si combattono a livello di accademie, antologie, editorie; così come si presentano all’ennesima potenza fenomeni di narcisismo e autoreferenzialità. C’è sentore di analogismo forzato se si vuol vedere già fatto quello che forse potrà farsi solo dopo un lungo percor-so; se alla moltitudine viene fornito già bello e confezionato un salvacondotto che la certifica come possibile laboratorio del nuovo, come incubatrice di un poeta-massa che possa rivoluzionare l’asfittico panorama delle patrie lettere. Io mi distinguo ancor più accesamente quando Ennio brandisce la parola “elitario” come un semplice diminutivo-dispregiativo. Con-trariamente a quel che molti pensano io credo che una buona dose di elitarismo sia indispensabile al pensiero critico e ancor più a quello utopico. O, detto in altri termini, alla poesia. Per me la “bellezza comune” resta un formidabile ossimoro, capace di illuminarsi di sovversiva poesia solo grazie, appunto, alla sua potenza ossimorica. Con questo però non credo di meritare il ritiro delle patenti democratiche, sia perché tra letteratura e democrazia rimane comunque uno iato finora incolmato, sia perché non è la diversità dei pochi che dobbiamo combattere ma la distribuzione di tale diversità in base al privilegio, alla classe, alla cultura, al potere, ad ogni altro criterio che non sia la libertà di ciascuno e di tutti di essere quello che si sceglie liberamente di essere. L’elitarismo "positivo" non è certo quello che crea una sfera di eletti (tra elitarismo ed elettoralismo c’è una qualche sillaba e una qualche traslitterazione di differenza) ma quello che ricerca una cifra che sia il portato di una esperienza personale e singolare. Tra l’altro mi era parso di capire che l’utilizzo della categoria della moltitudine ci consentisse di uscire da un secolo di dittatura del popolo e del popolare e di entrare (o di rientrare) in quello della singolarità non rappresentabile e non riducibile. E’ solo in nome di un nuovo individualismo, ossia di una nuova concezione dell’individuo, che ci è possibile pensare oggi anche il collettivo, la comuni-tà, la condivisione. È possibile condividere solo ciò che, inizialmente, non è comune. Se tutto è già comune infatti non c’è il falanste-rio ma il quartier generale. Se vogliamo quindi utilizzare il termine moltitudine in azioni poetiche e culturali dovremo cominciare a chiarire molto bene che esso non ha nulla a che vedere con la cosiddetta cultura di massa e con la massificazione, che esso vuol esse-re altra e antitetica cosa rispetto all’utilizzo che del bene comune, del senso comune, del luogo comune ha fatto e fa l’industria cultu-rale oggi divenuta potenza planetaria. Ancor di più dell’industria culturale occorre diffidare quando pretende di vendere con il pro-dotto anche l’aura e l’etichetta di esclusività. L’ultimo punto che voglio toccare è quello del rapporto tra scrittura e lettura di poesia. Giustamente Ennio ammonisce che il ricor-rente lamento sui “troppi che scrivono ma non leggono poesia” ha spesso il sapore di una tirata d’orecchi libresca, di predica scolasti-ca, di una soglia e di un soglio letterario su cui possono sedere solo pochi eletti, a prezzo di studi, fatiche, titoli. Ma questa non è solo l’unica angolazione da cui osservare il fenomeno della asimmetria tra scriventi e lettori (di poesia), che rimane un fenomeno negativo anzitutto perché testimonia di un piacere a metà, di un canto interrotto. Occorre capire bene la differenza che c’è tra scrittura e lettura (dopo che per secoli abbiamo subito l’egemonia della prima) per riconoscere che anche in poesia l’ora di lettura è l’ora d’aria, l’ora della lettura è l’ora di una liberazione. Quando essa scoccherà vorrà dire che avremo deposto la componente prometeica che affila la scrittura, e a volte la rode dal di dentro, a favore del presente continuo del godimento. Avremo smesso di condannarci al futuro, alla posterità, rinunciando a lasciare il segno di una presunta immortalità sulla carta. Avremo accettato la più transeunte delle arti, la lettu-ra, appunto, che si accontenta di brillare e di spegnersi, come un fuoco d’artificio, come un fuoco fatuo, e di farci così compagnia nella notte dell’esistenza additandoci l’indomani. Se è vero che non c’è lettura senza scrittura, è ancor più vero che non ci può essere scrittura senza lettura, e questo vale ancor di più per la poesia perché il fiume della scrittura poetica, talvolta carsico, lutulento, ribol-lente, ha bisogno di perdersi e di ritrovarsi nel mare e nella pace della lettura. La lettura di poesia tra l’altro è forse quella che con più attinenza ricerca solo in se stessa le sue ragioni e le sue gratificazioni, fuori da ogni utilitarismo e da ogni strumentalità. Non si legge poesia di propria iniziativa se non perché la poesia ci allarga i polmoni, ci fa trattenere il fiato, ci consente l’immersione e la emer-sione nel quotidiano. Per questo la mia chiusa è una specie di poesia sulla lettura come danza d’amore sul corpo del libro. Sarebbe un po’ da ascoltare un po’ da vedere, perché ha la forma di una freccia, di un pungolo, di una chiglia, di una gradinata. Di tutte queste forme è fatta la forma della lettura.
Se tu mi leggerai
Se tu mi leggerai
se tu mi leggerai tra le righe
se mi guarderai fissa nelle parole
se china su un aggettivo mi sentirai
ridere e piangere senza comprendere
se scrollerai le pagine per mettermi a fuoco
se avrai la sensazione di conoscermi nelle virgole,
lèggimi ancóra. E pensami senza carta, senza veli,
solo vestito di polpastrelli inchiostrati e timidi.
A palpebre chiuse risali la filigrana dei segni
fin che riveli la trama capillare del sangue
le pagliuzze degli occhi la piega
amara delle labbra. Ora,
chiudi il libro.
se tu mi leggerai tra le righe
se mi guarderai fissa nelle parole
se china su un aggettivo mi sentirai
ridere e piangere senza comprendere
se scrollerai le pagine per mettermi a fuoco
se avrai la sensazione di conoscermi nelle virgole,
lèggimi ancóra. E pensami senza carta, senza veli,
solo vestito di polpastrelli inchiostrati e timidi.
A palpebre chiuse risali la filigrana dei segni
fin che riveli la trama capillare del sangue
le pagliuzze degli occhi la piega
amara delle labbra. Ora,
chiudi il libro.
giugno 2006
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