Elencherò qui con la schematicità propria di una breve nota, quattro ragioni che inducono oggi a riflettere su poeti e poesia alla luce del concetto (spinoziano) di moltitudine.
La prima riguarda l’evidenza sociologica del fenomeno degli «scriventi poesie» (Majorino): esso non è ricacciabile facilmente nell’epigonismo, normale “aureola” in passato dei pochi Grandi Poeti, perché sta dentro trasformazioni sociali di enorme rilievo a stento esplorate nei loro ambigui risvolti di servitù o d’emancipazione: un’acculturazione che, sia pur nelle pieghe, cerca di sottrarsi e reagire alla massificazione “globalizzante”, la disponibilità di strumenti conoscitivi e comunicativi “facili” (e-mail, Web); l’ intellettualizzarsi crescente (fino a forme “immateriali”) del Lavoro in generale. La vastità lutulenta di questo mare magnum degli scriventi poesie stizzisce molti addetti ai lavori, che preferiscono attingervi con l’abituale colino delle antologie poetiche - come fanno, ad es., coi pregi e i limiti di un approccio universitario (pregi di strumentazione, difetti di elitarismo), gli autori di Parola plurale (Sossella 2005) - piuttosto che affrontarlo di petto e ragionarci su senza piglio snobistico.La seconda si appoggia su un sapere psicanalitico critico. Il desiderio “infantile” dei molti di scrivere poesie va pensato con il coraggio che Freud ebbe quando scrisse della sessualità infantile svelandone il polimorfismo. Da esso può uscire di tutto: poesia libera, insolita, similpoesia, brutta poesia, ecc. Ma il fastidio per i risultati estetici sporcati d’inconscio dei “troppi che scrivono ma non leggono poesia” - quasi che innanzitutto da attitudine libresca essa dipendesse o a questo fosse da imputare la crisi che oggi l’angustia - sbarra la comprensione di un processo complicato (e poco indagato) e censura ogni possibile discorso sulla costruzione di condizioni favorevoli a un esercizio critico - cioè adulto e infantile a un tempo, e non unilateralmente paternalistico o permissivo e commercializzato - della poesia da parte dei molti. In costoro si finisce per vedere solo dei poeti-nani (“dilettanti”, “sottobosco”) come nei bambini si è visto a lungo soltanto degli adulti-nani.
La terza è di carattere estetico. Detto in fretta: si resiste, si teme il bello della moltitudine perché, malgrado le apologie compromissorie dell’avanguardia, della cultura di massa, della comunicazione globale, si è abituati tuttora ad onorare il feticcio di sempre: il bello dei pochi. Gli studi di estetica conservano stancamente i connotati della loro nascita elitaria o di quelle sono limitate estensioni “democratiche”. E i modelli di bellezza neutra, ossequiati e convalidati socialmente, una volta attraverso la scuola e oggi soprattutto i mass media, restano impraticabili ai più. La loro inerzia monumentale impedisce automaticamente di riproporre il problema di una qualità e di una bellezza comune, cioè di tutti e per tutti. Certo, le reali e accertabili differenze di qualità (fra i testi o fra le facoltà degli individui), le distinzioni e persino le gerarchie fra bello e brutto, riuscito e non riuscito, sono innegabili. Il guaio è però che ci si ferma ad esse, che da provvisorie diventano permanenti e indiscutibili, che si smarrisce persino la memoria di come la violenza (operante anche a livello simbolico) venga - anche in questi modi - ribadita a vantaggio dei pochi che parlano e scrivono in nome dei molti (azzittiti).
La quarta è di carattere politico. All’incirca dalla fine degli anni Settanta, il pregiudizio elitario è stato rimesso in circolazione anche nelle pratiche poetiche. In primo piano - quasi riflesso difensivo da parte di poeti e critici “di professione” - si è tornati ad insistere sul "bagaglio tecnico-culturale” di cui i poeti devono disporre. E in saggi su riviste o dibattiti pubblici la poesia è stata riproposta come proprietà o attributo naturale e individualistico (del Grande Autore, di una élite, di un cenacolo, di una pesudocorporazione). Se ne perde così la sua universalità reale (quella proclamata a parole lascia l’amaro in bocca). È sminuita la libertà di ricerca: sia quella degli addetti ai lavori che degli esclusi. Si dimentica che la genialità “individuale”, anche quando raggiunge le vette del capolavoro, risulta comunque deforme per lo stacco dai saperi (o dai non-saperi) dei molti che il “processo creativo” subisce come tutti gli specialismi. (Ricordare in proposito la grande lezione di Benjamin o di Brecht).
Concludendo, tengo a ricordare che, se a prima vista una moltitudine poetante può apparire come massa caotica di singoli che si respingono (al peggio: di atomi iper-individualizzati chiusi in un Sé eterodiretto), essa potrebbe essere pensata (o addirittura pensarsi) come cooperazione mutevole (e anche conflittuale, per carità!) di singoli; e che potrebbero prodursi fecondi scambi e confronti (non più a senso unico però) fra riuscito e non riuscito, fra livelli qualitativamente alti, medi, bassi. Eccellenza e mediocrità avrebbero così un senso includente e non escludente. Il concetto di moltitudine valorizza, dunque, dinamicamente tutte le possibili differenze e non le irrigidisce o occulta, come fa il pensiero elitario (liberale, razzista, classista o sessista). Né abolisce, credo, l’ipotesi di una possibile unità delle differenze o di una loro base comune.
29 aprile/ inizi maggio 2006
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