sabato 13 marzo 2010

Mario Mastrangelo: Su DIARIO DEL DISERTORE ALLE TERMOPILI di Daniele Santoro (settembre 2008)

..non sono poi
così da noi diversi questi barbari,
come da noi in città filosofi del cazzo
hanno voluto farci credere,
ma li sentiamo spesso nella notte
mormorare un canto, anche la loro
preghiera è simile alla nostra
«proteggi, dio, i tuoi figli che i Padroni
mandano a morte da che mondo è mondo»
E’ racchiuso in questi pochi, ma significativi versi il pensiero del giovane poeta salernitano
su guerra e pace, eroismo e antieroismo, potere e libertà.
Daniele Santoro si è voluto cimentare, nella sua opera poetica di esordio (Diario del
disertore alle Termopili, Nuova Frontiera, Salerno 2006) con le forme di un breve
poemetto, articolato in tredici testi poetici più un epilogo.
Breve, ma denso e coraggioso nel voler rivisitare la storia della battaglia delle Termopili fra
persiani e spartani (più alleati), per una sua riflessione sulle vicende della Storia, viste con
l’occhio e coi valori di oggi.
Già all’inizio l’eroico esercito di Leonida viene così ironicamente (e amaramente) definito
(dalla voce poetante di un disertore, uno della truppa mandata allo sbaraglio) nella sua
impari contrapposizione alle più numerose schiere persiane:
eccoli i popoli del terzo mondo, i barbari,
quelli che ignorano le nostre leggi,
accampano di là del valico che siamo qui
venuti (anzi ci hanno mandati) a presidiare.
sono a migliaia quelli del re serse
noi appena quattro gatti che aspettiamo
in massa rinforzi di alleati.
E quel popoli del terzo mondo allude chiaramente alle battaglie del nostro mondo
contemporaneo contro i diversi e gli stranieri di oggi, che pure ci assediano, armati non
delle innumerevoli frecce dell’esercito persiano, capaci di oscurare il sole, ma della loro
disperazione.
Già, perché il racconto di Santoro è anche un tentativo di attualizzare l’antico episodio
della battaglia, studiato sui banchi di scuola.
Sono principalmente i versi della preghiera su riportata a testimoniarlo: proteggi, dio, i tuoi
figli … Con quell’evocazione dei Padroni, coi loro disegni di guerra e di sfruttamento, i soli
ad essere veramente nemici.
Un primo impatto con i persiani, respinto dal valoroso impegno degli spartani, è così
descritto dai versi di Santoro:
…qui / caro mio non c’entra l’eroismo / che non sia solo un Disperato istinto a / vivere.
Sono parole che ribaltano la cupa concezione, di sapore necrofilo, del soldato e dell’eroe.
E’ invece, per il poeta, il Disperato (notare la maiuscola) desiderio di vivere a far
combattere e a non far guadagnare al nemico un solo metro…
Il poemetto si sofferma poi un poco sulla figura di Leonida, sul suo desiderio di essere
ricordato dai posteri, sulla sua generosità nel mandare a casa chi non vuole combattere,
generosità che per Santoro è solo apparente, perché… d’altronde chi ritorna morirà lo
stesso / perché dei traditori il popolo non ha pietà.
Senza continuare ad analizzare i singoli punti del racconto poetico, si può dire che è assai
evidente dal procedere dei versi che il “disertore” e Santoro hanno un diverso sistema di
valori (vita, pace, pietà, umanità, giustizia…) rispetto alla tradizionale (e forse retorica)
educazione spartana
Sistema di valori che viene fuori da stringati accenni (…è una follia combatterli…,… ma in
guerra la pietà non si conosce…), negli ultimi testi poetici, ma soprattutto, e più
compiutamente, nei versi dell’epilogo che ha, come protagoniste, le madri spartane.
Esse irrompono sul campo di battaglia, e sulla scena della narrazione di Santoro, per
esaminare, con fierezza e con dolore, i cadaveri dei figli e per contare le ferite sui petti e
sulle schiene, segno (rispettivamente) di eroismo o di codardia: …fanno la conta / delle
ferite come a gara, sbirciano…
E’ una scena inquietante ed il poeta non esita a farlo dire, con parole risentite e vibranti, al
protagonista del poemetto:
…dico ci fosse stata una di loro
che avesse avuto a cuore quel fanciullo
solo perché magari una nemica
spada gli tagliò le spalle…
E’ davvero troppo per chi, come il protagonista, come il poeta, è guidato da un saldo
sentimento di pietas.
Ma ancora non è tutto, perché gli ultimi versi del libro ci costruiscono una scena
drammatica e grottesca:
…ma dovevate assistere alla madre
come lo malediva e gli
sputava addosso mentre che le
amiche
proprio non la smettevano sottecchi
di ridacchiare.
Una madre disumana, che maledice il figlio non-eroe e ne oltraggia il cadavere, mentre
altre madri, le “amiche” (!) ridacchiano come comari pettegole e maliziose, è una scena di
potenza notevole per trasmettere un messaggio di condanna per ogni guerra.
Scena creata come monito per chi – come ogni attento lettore di questo libretto – è
chiamato a riflettere sulla Storia e sulla sua sequela di battaglie e di sangue, sgorgato dalle
ferite (sui petti e sulle schiene) anche di quelli che hanno voluto e saputo gridare forte: è
una follia combatterli!

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