@ erm
[scusandomi di rimanere fuori tema rispetto al post di Linguaglossa]
Queste visioni del mondo (o ideologie) - questi abiti (culturali) che indossiamo - mutano anche perché vengono criticate; e vengono criticate, quando tali credenze (distinte dalle scienze, che comunque hanno anch’esse ormai una natura probabilistica e non più di certezza assoluta) non corrispondono più al “mondo”.
E perché mai?
E, se si dicesse di una poesia soltanto « mi piace e la condivido, o non mi piace e non mi dice nulla» non sarebbe forse già un dare «un giudizio di valore» , cioè stabilire una gerarchia tra ciò che piace (valore) e ciò che non piace (disvalore) e, dunque, fare un atto di critica (elementare, grezzo magari)?
E perché mai «un critico non può arrivare a battersi con un altro critico», se il critico A è convinto che - tanto per fare un esempio scolastico - il romanticismo è una visione del mondo (o ideologia) più valida del classicismo o viceversa? Perché “battersi” (argomentare le proprie convinzioni in modi più meno leali e approfonditi) sarebbe poi “aggressione”, quasi una sorta di tentativo d’omicidio (culturale), e non un modo ragionevole di cercare nel confronto aperto, leale e persino duro una verità più alta, una visione del mondo, una poetica più adeguata al mondo, che non è mai fisso e immutabile e pertanto va continuamente ridefinito, rappresentato, verificato (visto che le parole non sempre corrispondono alle cose)?
Erm giustamente potrebbe obiettare che la poesia si raggiunge anche per vie traverse o partendo da ideologie considerate sbagliate o superate o reazionarie. Per cui è sbagliato prescrivere a un poeta di essere vitalista o crepuscolare o assurdista o minimalista o espressivista o impressionista o romantico. D’accordo contro le prescrizioni o i comandamenti. Ma non si può prescrivere o comandare di non criticare, di non valutare.
Se tutte le strade portassero a Roma (alla poesia), ogni pretesa di suggerirne o di cercarne una migliore sarebbe stupida.
Ma è proprio così?
Non credo. Se è vero che in singoli casi si può arrivare a fare buona poesia anche aderendo ad ideologie negative o discutibili o addirittura folli, non è vano criticare le ideologie negative o discutibili o folli ( se tali ci sembrano). E c’è da notare che il risultato poetico raggiunto in certi casi lo è malgrado quell’ideologia o quella follia e non grazie ad esse. E’raggiunto, cioè, in poesia perché lì quel poeta smentisce la sua ideologia e noi possiamo riconoscere il valore della poesia, separandola dall’ideologia che non condividiamo e critichiamo.
Non credo poi la convivenza babelica o pluralista delle visioni del mondo (o delle poetiche che sono in fondo visioni del mondo applicate al campo poetico) sia il migliore dei mondi possibili per i poeti d’oggi e, in generale, per tutti noi. Innanzitutto non credo che sia effettiva né questa Babele né questa pluralità. Ma, anche se lo fosse, essa è percorsa da differenze conflittuali e non permette affatto che uno/a sia «com’è», cioè non permetta affatto lo sviluppo libero della propria “essenza” o “autenticità”. La convivenza è apparente (tant’è vero che siamo alle guerre “democratiche”!). E poi da secoli la nostra “essenza” o “autenticità” di uomini e donne ( o poeti e poetesse) è un miraggio o una nostalgia. Non siamo mica rimasti alberi di pere o mele o nespole o albicocche che nascono,crescono e producono rispettivamente il loro frutto “naturale”(questo non è più vero neppure per le piante…). Né siamo rimasti ad abbaiare, nitrire, cinguettare come gli animali. E perciò le nostre visioni del mondo e i linguaggi che le esprimono non solo sono più complessi, ma ancora tendono ad unire o a dividere, a mentire o a dire verità occultate. E c’è da scegliere. E la critica dovrebbe aiutare a farlo.
Sul blog di MILANOCOSA è in corso una discussione che, partendo da uno scritto di Giorgio Linguaglossa e in parte allontanandosene, ripropone la solita questione del rapporto tra critica e poesia. Questo mio commento replica a un intervento di "erm" che trovate QUI [E.A.]