Foto di Christoph Kopp @500PX
Pubblico, e altre ne
seguiranno, senza un ordine preciso le
lettere/recensioni che negli anni ho inviato a
vari amici e conoscenti che mi hanno mandato in lettura i loro testi. Le
faccio precedere da alcuni dei testi a cui fanno riferimento. [E.A.]
BANANE LUMINOSE
È denso
vorticare questa notte
Notte cruda
scannata sul rumore
Lucida e
tagliente di parole
Sguainate
come lame dagli abissi
Del livore.
Voragine e crepaccio
Dove
s’increspa l’ombra del dolore
Precipita
la ghiaia dei giudizi
È notte sul
frullato di banane
Dolce
plasma rugiada di potassio
Medicinale
candido e soave
Che spegne
la mia sete artificiale
Ambrosia
della palma e della luna
Sorriso
della polpa e della buccia
Che ogni
pegno ed ogni scaramuccia
M’aiuta a
sopportare. E pietraie
Dove Odio
raduna le sue mandrie
E serate
dissolte ad aspettare
Che la cura
agisse sul mio male
Notte
oscura sovrana dei miei lupi
Squillo
d’acqua filtrata dai dirupi
Risucchio
spadaccino della vena
Artiglio
voluttuoso della Belva
Che il
gioco e la candela mi nasconde
Dentro i
gorghi vermigli dell’amore
Cui
m’avvito Derviscio danzatore
Lacci neri
sul braccio della notte
Vibrisse
prolungate sulla morte
Morte
dell’aria morte del mio karma
Descritto
tra le righe del pigiama
Pellegrino
che irrompe nel mio dramma
Quando
spillo di stella sullo schermo
Di tenebra
m’accascio e stingo via
(Ma
insolente nel ciclo circadiano
Rimango
rifugiato come tigre
Di peluche
nel parco inanimato)
Narici
della notte come grotte
Sul volto
scheletrito della morte
Morte del
soffio morte dell’occaso
Travaso
pettorale del monsone
Che
vischioso s’espande nel mio fato
Quando nera
pupilla di ciclone
Venticello
mi sfiato e sbuffo via
(Ma
imboscato nel nido del malato
Rimango
accovonato come l’ago
Del
pagliaio perduto e mai trovato)
Spiga su
spiga sangue verso sangue
La triste
mietitura della carne
Che lotta
senza posa per restare
Reclama le
sue rughe centenarie
Sorrisi
sganasciati nel bicchiere
Artrosi
cataratte e asciutte vene
E se
proprio deve andare pretende
Per se
stessa l’intero capezzale
Allora non
è morte che ho sfiorato
A quest’ora
sfocata della notte
Ma nevose
montagne dello Sherpa
Che passo
dopo passo ho superato
Fedele
scalatore del mio inganno
ATTI COATTI PARASTATALI
Svolazzano
i protocolli di muffa cartogena e aliena
Negli
archivi di logica statale. Le bocche ciarlano
Deducono
in formule fonetiche l’ego troppo materiale
Dei
plichi tracimanti, gli atti accumulati e scadenzati
Esposti
a recite lobbiste di rango popolare
Incaute
intemperanze che per contratto picchiano
Coi
bip di rame e argento sui timpani del vento.
Incompresi
ragionieri trasformano formule algebriche
In
recluse lotte di classe. Imprimono col dito spartiacque
Celeri
passioni all'ordine monotono dei numeri. Sprigionano
Dalla
radice del quadrato complesse verità sferiche. Svelano
Ai
posteri un modo clamoroso tutto nuovo di sbarcar lunari
Austeri
funzionari Rosasole brandiscono scintillanti
Excalibur-penna
d’oro sui valvassori proni
Stillano
nelle menti oppresse la pace verticale
Credendosi
della piramide il vertice e la base
Spolpati
dalla forza devastante della noia anime
In
panne respirano la propria morte condizionata
Sfrecciano
sfuggenti come cavilli nei tetri corridoi
Male
illuminati. Seguono le orme tracciate dalle scarpe
La
cui ombra antica rimane come sangue raggrumato
Sui
pavimenti-sauri. Eccoli infine gli impiegati stanchi
Che
trepidanti innanzi le porte degli ascensori guasti
O
dietro le montagne dei caffè scolati si concentrano
Come
stormi rumorosi di fenicotteri malati che nel grigio
Lineare
si curano le ali sperando un giorno di volare.
Anche
io volo qui! Dente rotto di un meccanismo vago
Uomo
disossato a barre nere sul plettro cartellino
Codice
cifrato sul binario morto in fondo la Nazione
GUERNICA DOPO GUERNICA…
Guernica
appesa Guernica esplosa offesa arresa sotto le bombe accesa
Guernica
mutilata stroncata Guernica scorticata dalle sciabolate scure
Inferte
nere sulla tela della carne cotta nell’occhio decomposto di murata
Pece cupa.
Bruciante luminaria pigmento deflagrante di tenebra scuoiata
Pennello
lugubre che ulula dolore aguzzo urla vibranti laceranti di rasoio
Guernica
Minotauro labirinto buio di uno sguardo ignaro crocifisso sull’orrore
Guernica
morso digrignato nella notte maciullata nitrito afflato dirompente
Cavallo
piegato sbudellato con le zampe contorte sui cadaveri smembrati
Armonia
sfranta flagellata stramazzata sotto il peso insopportabile dell’odio
Guernica
tragica di bocca mitragliata storie schiantate brandelli di seni acuti
Delle madri
dilaniate. Innocenza sgozzata violentata volto del cielo fuso
Frammenti
ombrosi d’ordigni acuminati gocciolante rombo della morte
Guernica
ustionata in un sangue marcio di motore e grasso bullicante
Sui densi
riflessi tetri diamante scuro del dolore nudo delle facce sfracellate
Guernica
fiaccola freddata ulcera di luce raggelata nell’orbita svuotata
Lampada
sospesa e perplessa di un Dio cigliato muto e dolente nel supplizio
Guernica
che dopo Guernica cerca un grido di pace librato sull’arena scura
Guernica
che cammina sotto l’orma di Caino e si fa verme nel teschio della terra
*Gabriele
Pepe nasce a Roma, dove pure risiede, nel 1957. Ha pubblicato due raccolte di
poesie: Parking Luna (ArpaNet, 2002) e Di corpi franti e
scampoli d'amore (LietoColle, 2004). Suoi testi e recensioni sono apparsi
su varie riviste.
Lettera/recensione di Ennio Abate a
Gabriele Pepe
giugno 2005
Caro
Gabriele,
gli anni
Settanta sono sprofondati anche nelle coscienze più vigili. E
tra noi, che siamo - per usare le parole di Primo Levi - un po’ i
«salvati» (i «sommersi» quasi nessuno li ricorda più) o i
«resistenti» - per usare le tue - c’è di tutto purtroppo e il peggio non sono
solo quelli «di buona famiglia» passati con i vincitori.
Questi ultimi, soddisfatti per la pulizia compiuta e per aver
cooptato i “migliori”, riescono a tenere sotto scacco anche molti resistenti.
Lo dimostra lo sbando culturale si mille questioni: dal problema dei precari a
quello delle scienze (vedi il risultato del referendum).
Io in
particolare ho meno fiducia di te nella resistenza che in tanti
dicono di fare «a partire da se stessi». Non ce l’ho con te, che hai usato
questa espressione. Però ho visto quanto ambigui sono i «se stessi», sai! Se
non si ristabilisce un «se stessi comune», un sentire soggettivo diffuso e
un linguaggio comune che permetta di cooperare politicamente al di
fuori degli schemi superati di quegli e di questi anni, si rischia di partire o
di stare sempre in partenza. E questo credo che valga anche in poesia.
Oggi siamo
tutti più disponibili ad ammettere, come anche tu dici, che la propria è «una
strada tra le tante». Ed è vero. Le strade sono tante specie in poesia (io ho
parlato addirittura di moltitudine poetante). Ma dove ci
portano queste che percorriamo oggi, magari in solitudine (almeno fino ad anni
recenti per me) o in compagnie fin troppo leggere di poeti e
letterati? Io ho molti dubbi e scetticismi. Se te ne stai
troppo solo rischi di metterti addosso maschere romantiche da poeta maledetto
o eccentrico o incompreso. A me fanno ridere. Quando cerchi contatti e
confronti, ti ritrovi in una bolgia di poetanti che al massimo riescono a fare
qualcosa di serio e onesto in circoli asfittici, spesso di amici più
concorrenti che cooperanti.
Sembra che
i modi leali e più diretti di confrontarsi fra quanti scrivono, che in passato
hanno avuto grande importanza (vedi il duello Fortini-Pasolini, per
fare un esempio, che alla mia generazione ha insegnato molto, o
Pasolini-Sanguineti) oggi siano tabù. Si deve essere diplomatici, disincantati,
al massimo spettegolare in segreto? Non credo.
Il
conflitto, sale di qualsiasi democrazia (perché c’è stata anche un po’ di
democrazia nelle «patrie lettere»…), è subito neutralizzato dai vari
Cofferati del mondo letterario. Per non parlare di quel che resta del mondo
politico, il quale poi non è tanto separato né dalla poesia né dalla cosiddetta
«società civile».
Io non so
se questo problema ti stia veramente a cuore e quanto sia possibile
confrontarci anche fra noi due al di là di generici apprezzamenti. Comunque io
ci spero. Ti ho fatto una proposta che va in questa direzione e
proseguo ora dicendoti alcune cose di Parking luna.
Non
trovo questa raccolta molto diversa da "Corpi franti..."
nella sostanza. La tua poesia per me si conferma fortemente intellettuale,
anche se tu neghi di esserlo. Ha la freddezza del laboratorio scientifico
e le accensioni “oscure”, “ermetiche” di chi si è accostato o ha
fatte sue certe simbologie magiche o forme di religiosità indù. (Ma qui devo
essere cauto per mia ignoranza e solo tu mi potrai dire se e quanto
intenso sia stato il tuo accostamento a culture non occidentali).
Ci trovo
anche una tonalità claustrofobica (La mia casa è chiusa; Bagliore di risacca io
tento di scurire/Scavando gallerie nel fondo del mio pozzo), una certa
primordialità visionaria (BESTIARIO, ma anche: Io ne ho viste
di cose che voi umani/ Non potreste neanche immaginare), una centralità
dell’io che dice ma in modi impersonali mai confidenziali o
colloquiali, una forte letterarietà. (La tua – non è un’offesa - è una poesia
da leggere col dizionario a portata di mano e con qualche delusione
perché alcuni termini sono inconsueti e ci vorrebbero dizionari
specialistici).
Due cose mi
colpiscono di più. Una te l’ho già fatta notare e ti ha forse irritato, perché
l’hai intesa come un’accusa, ma ti ho spiegato che non lo è. Si
tratta del tuo gusto barocco per la parola (dotta, letteraria,
scientifica in particolare), che forse ti fa preferire la descrizione e
l’enumerazione delle immagini invece che la narrazione e ti porta ad usare in
abbondanza nomi e aggettivi (e pochi verbi e per lo più al
participio passato, se non sbaglio). Tutte scelte sintomatiche. Da capire
approfonditamente. Io non le respingo. Avranno la loro “ragione”. Ma non
l’afferro ancora.
La seconda
la faccio in base ai pochi accenni alle tue esperienza di vita che mi hai
riferito. Per me esiste un contrasto tra le esperienze di giovane che ha
vissuto in quartieri di periferia romana o di militante cane sciolto nei
furenti anni Settanta e la sua resa fortemente letteraria, ma -
contraddittoriamente - “non-realistica”.
Per
fare un esempio, anche se la cosa può dipendere proprio da me che magari ho
troppo in mente la vita di periferia alla Pasolini o da inchiesta
sociologica, «Bestiario», dove essa mi pare affiorare sulla base di ricordi
d’infanzia, è quasi irriconoscibile tanto la trovo sovraccaricata di
termini letterari che la spostano in un’atmosfera da mitologie primordiali,
fuori dalla storia.
Anche
qui, questa forte letterarietà per me è un problema: è un scelta per difenderti
e distanziarti da una realtà bruciante e dolorosa, come mi
accennavi? È adesione, dopo il fallimento della comunità politica ad altre
comunità (letterarie o d’altro tipo), dove essa è accettata senza tutti i problemi
che ti faccio io?
Per non
rimanere a delle impressioni ma esemplificare sui testi, eccoti alcuni appunti
veloci su tre testi per me interessanti:
1. «Banane
luminose». La notte (questa notte) è «denso vorticare» [più astratto di vortice
denso: ecco un esempio di scelta lessicale intellettuale]. Poi
subito tanti aggettivi: cruda, scannata, lucida, tagliente. Poi la metafora
parole-lame. Le parole sorgono «dagli abissi/Del livore». Il livore è «voragine
e crepaccio» [due parole sinonimi invece di un solo
termine]. Qui dentro «l’ombra del dolore» [ombra: segno di distanziamento per
rimozione più che per chiarimento?] e «ghiaia dei giudizi» [si tratta di
detriti; c’è svalutazione dell’atto del giudicare]. La notte sta o è calata
«sul frullato di banane», immagine un tantino indecifrabile ma positiva in
contrasto con la notte. Col tuo tipico stile nominale c’è l’enumerazione dei
suoi molteplici attributi terapeutici (plasma, medicinale, ambrosia, sorriso).
Ogni verso è quasi sempre un’unità a sé, che aggiunge e moltiplica immagini
[non azioni] o specifica qualcosa del soggetto (Notte: oscura sovrana dei miei
lupi/ Squillo…/Risucchio/Artiglio…).
2 «ATTI
COATTI PARASTATALI». Qui il tema sembra socialmente precisato: un ufficio, un
ambiente impiegatizio. Si parla di archivi, di formule, di plichi,
di atti, di ragionieri, di «austeri funzionari», di noia, di impiegati stanchi
in attesa davanti agli ascensori guasti. Ma la spinta metaforica è
potentissima. Il dato realistico non ha svolgimento, non si fa narrazione ed è
sopraffatto dalla pulsione immaginifica (dito spartiacque, complesse verità
sferiche, scintillanti Excalibur-penna d’oro, pace verticale, sfuggenti come
cavilli nei tetri corridoi, pavimenti-sauri, fenicotteri malati) con tonalità
magico-misteriche, mi pare.
3 «GUERNICA
DOPO GUERNICA». Qui la cellula del verso si presenta quasi seriale
con la sua schiera di aggettivi, participi e nomi [inutile esemplificare tanto
è intensa l’enumerazione in tutto il componimento]. L’iterazione si
ritrova anche nelle rime interne al primo verso (appesa…esplosa… offesa …
arresa…accesa). Gli unici verbi al presente stanno nel penultimo verso («cerca
un grido di pace») e nell’ultimo. Questo è il barocco [nel bene e nel male] di
cui ti dicevo. Qui portato all’esasperazione espressionistica. Che sicuramente,
dato il tema, appare “giustificata”. A prima vista però. Perché, secondo me, il fascino che un poeta può subire dall’immaginario
di un altro artista (in questo caso di un pittore grandissimo anche
per me come Picasso) va sempre commisurato alla realtà che viviamo oggi, che
potrebbe non essere più afferrata da quella espressività di un’altra
epoca, di un altro mondo sociale, ecc.
Ti ho detto
la mia. Spero di non averti irritato anche stavolta.
Io vado in
vacanza per una ventina di giorni, ma cercherò di seguire la posta
elettronica. Perciò scrivimi pure.
Un caro
saluto
Ennio
P.s.
Sempre per
allargare il discorso sulla poesia contemporanea e per conoscerci di più, ti
mando un’altra delle mie riflessioni a circolazione quasi nulla ( è uscita
sulla rivista Inoltre quasi introvabile. In essa tra l’altro
ritroverai un colloquio con il per te “famigerato” Majorino!).
3 commenti:
Quando la poesia diventa "Importante" e la critica severa la rende "maestra". Complimenti Emilia
se la filosofia è sfuggita al suo fondamento attraverso tematizzazione disperse e frastagliate, così anche la forma-poesia è sfuggita al suo fondamento attraverso tematizzazioni disperse e frastagliate. Se non c'è fondamento ecco che tutto il costruito periclita nel terremoto del Moderno. Ecco, direi, ma con decisione (e delusione), che la poesia oggi non può ridursi alla raccolta differenziata dei rifiuti tossici, perché non cambia il risultato di questa «sottrazione». Ma neanche l'addizione cambierebbe qualcosa in questo ordine di discorso. La scrittura poetica che adotta un de-moltiplicatore in realtà ha dei vantaggi, ma anche qui si tratta di vedere che razza di de-moltiplicatore è. Insomma, dalla discarica dei relitti e dei deiettati non se ne esce con una raccolta differenziata e/o indifferenziata. Se diciamo, con Heiddegger, che «l'essere è ciò che non si dice», non è che nominando una miriade di nominazioni si sfugga a questo assioma: tutto il dicibile rifluisce nel non-detto, per il semplice fatto che il nominabile andava non-detto. Lo so, è un paradosso, ma serve ad indicare in quale razza di paradosso s'è cacciato l'autore (e con lui tutta una nutrita schiera di autori più giovani di me)... insomma, da questo imbuto non credo che se ne esca facilmente.
Tra l'altro, condivido in pieno le puntualizzazioni di Ennio Abate il quale anche quando non fa centro coglie un problema importante.
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