martedì 6 novembre 2012
Donato Salzarulo
La letteratura è una menzogna
che dice la verità.
Il Manzoni di Fortini (Prima parte)
Si può leggere in «Saggi ed
epigrammi» (a cura di Luca Lenzini, Mondadori, 2003) da pag.
Comincia col riferimento al vissuto
da ogni studente italiano: l’obbligo di leggere i «Promessi sposi». Per la
stragrande maggioranza, «un vangelo di noia nazionale». Confermo. Ho letto con
una certa soddisfazione e riga per riga questo libro a trentacinque anni
suonati, stimolato da un’amica milanese, manzoniana fervente, e da un saggio di
Vittorio Spinazzola che lo definiva «il libro per tutti». Almeno nelle
intenzioni dell’autore. In realtà, libro che quasi tutti sono stati costretti a
leggere. Al di fuori del canone scolastico, probabilmente, l’avrebbero fatto in
pochi o pochissimi.
Annota Fortini: «Nella mente
dell’italiano medio rimangono alcuni fantocci e l’onda di alcune pagine
liriche». Confermo ancora. Oltre a Renzo e Lucia, che mi apparivano giovani
manichini d’altri tempi, avevo in testa il fantoccio vigliacco di Don Abbondio
e quello prepotente di Don Rodrigo, il fra Cristoforo che ripara in convento e
la monaca di Monza…«La sventurata rispose». Poi c’erano gli attacchi lirici
imparati a memoria per obbligo: «Quel ramo del lago di Como, che volge a
mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi…» e
«Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo…»
«Le pagine storiche – che sono
fra le più belle del libro – pochi le leggono.» Infatti. Continua Fortini: «A
diciotto anni si fanno leggere alcuni passi delle tragedie, qualche poesia,
qualche pagina di teoria letteraria». Verissimo. Io ricordo il primo coro dell’Adelchi
e quello dell’atto IV su Ermengarda: «Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti, / Dai
boschi, dall’arse fucine stridenti, / Dai solchi bagnati di servo sudor, / Un
volgo disperso repente si desta» e «Sparsa le trecce morbide / sull’affannoso
petto / lenta le palme, e rorida / di morte il bianco aspetto» Questo coro mi
seduceva di più col suo alternarsi di verso sdrucciolo e piano, sdrucciolo e
piano.
Quanto alle poesie, eccezion
fatta per «Il cinque maggio» e per «Marzo 1821» imparate a memoria con i due
cori fin dalla terza media, non ricordo molto. Forse fui avvicinato a qualche
inno sacro: «
Il giovane che sono stato si
ritrova quasi del tutto nelle parole della nota di Fortini: «I giovani non
capiscono quei ritmi saltellanti [quelli, ad esempio, del coro sulla morte di
Ermengarda], quella musica che sembra teatrale, quella saggezza repressiva;
amano Leopardi materialista e fratello della morte, non Manzoni che parla loro
con la voce del prete e dei buoni sentimenti. I giovani non possono sapere che
la letteratura è una menzogna che dice la verità. Vogliono la verità subito.
Manzoni non li interessa.» (pag. 1796). Verissimo. Parecchi anni fa Ugo Dotti
intitolò un suo saggio: «Il savio e il ribelle. Manzoni e Leopardi» (Editori Riuniti,
1986). Evidentemente non è soltanto un topos giovanile. Tuttavia, dei pensieri
di Fortini, al momento, non mi attrae questo. E’ l’aforisma che, a prima
lettura, ho sottolineato a matita : «la letteratura è una menzogna che dice la
verità.» In che senso? Inizialmente penso alla critica di Marx alla religione,
«sospiro della creatura oppressa», «anima di un mondo senza cuore, di un mondo
che è lo spirito di una condizione senza spirito». La religione rappresenta
un’illusione, una menzogna che dice, però, la verità sulla condizione sociale
“capovolta” degli esseri umani: «è l’uomo che fa la religione, e non la
religione che fa l’uomo». La letteratura un po’ le somiglia. Ho in mente anche
le pagine su “arte e proletariato” in «Non solo oggi» (a cura di Paolo Jachia,
Editori Riuniti, 1991). Poi, ci ripenso e mi ricredo. Forse l’aforisma richiama
la frase manzoniana sul «vero veduto con gli occhi della mente».
M’incuriosisco. Voglio capire quale sia il luogo da cui Fortini trae
l’espressione. Lo trovo. E’ nella prima parte del testo di Manzoni sul “romanzo
storico”:
«L’arte è arte in quanto produce
non un effetto qualunque, ma un effetto definitivo. E, intesa in questo senso,
è non solo sensata, ma profonda quella sentenza, che il vero solo è bello;
giacché il verosimile (materia dell’arte) manifestato e appreso come
verosimile, è un vero, diverso bensì, anzi diversissimo dal reale, ma un vero
veduto dalla mente per sempre o, per parlar con più precisione,
irrevocabilmente: è un oggetto che può bensì esserle trafugato dalla
dimenticanza, ma che non può esser distrutto dal disinganno.» (http://www.classicitaliani.it/manzoni/prosa/manzoni_romanzo_storico_01.htm,
pag.10) Riaffiora, a questo punto, il ricordo dei due concetti relativi alla
poetica manzoniana più spesso ripetuti nelle aule scolastiche: il vero del
reale e il verosimile dell’arte. Quando non tratta volutamente di favole e/o
corbellerie varie, la letteratura è una menzogna perché, comunque, si occupa di
verosimili. Ma questi non sono oggetti mentali secondari, disdicevoli o
indegni. Producono “effetti definitivi”, dei veri irrevocabili. Il saperli
frutto d’invenzione, di finzione, illusione o inganno non li annienta. Manzoni,
continuando, fa un esempio: «Nulla può fare che una bella figura umana, ideata
da uno scultore, cessi d’essere un bel verosimile: e quando la statua
materiale, in cui era attuata, venga a perire, perirà bensì con essa la
cognizione accidentale di quel verosimile, non certamente la sua incorruttibile
entità.» Detto in altre parole: l’entità di un bel verosimile, una volta
concepito, rimane tale per sempre, al di là degli oggetti artistici in cui
occasionalmente e casualmente si attua. «Una volta per sempre» titola
manzoniamente Fortini la sua raccolta di poesie. Mi vengono anche in mente certi passaggi di prosa di
Baudelaire dedicati a scrittori e pittori. Ma preferisco tornare alla nota. I
giovani, quindi, non amano Manzoni. Vogliono la verità subito.
Prosegue il poeta: «Questi
giovani hanno torto. La “verità subito” è l’illusione eternamente romantica di
chi rifiuta la pazienza dell’incarnazione, la categoria della mediazione.
Certo, si può non leggere Manzoni. Si può non leggere nulla. Ma se si pensa che
l’uso letterario del linguaggio possa condurre chi legge e chi scrive ad una
conoscenza dei rapporti fra gli uomini diversa da quella cui ci conduce l’uso
pratico o scientifico del linguaggio, allora l’esperienza della scrittura
manzoniana potrà apparire come salutare contro le mitologie dell’immediatezza e
la perpetua, la da un secolo ricorrente illusione della avanguardia come
rivolta dell’impotenza.» (pag. 1796)
C’è di che meditare: la pazienza
dell’incarnazione. Conosciamo la parola. L’abbiamo udita da bambini. Dio
assunse il corpo del figlio Gesù per redimere l’umanità dal peccato originale.
Magari, abbiamo anche sentito ripetere le parole iniziali e più filosofiche del
Vangelo di Giovanni: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a
noi» (1, 14). Non è necessario essere cristiani per capire quale sia il
problema che si vorrebbe risolvere con questa parola-azione: l’essere perfetto,
l’infinito, l’eterno, l’incorruttibile, il concetto non sottoposto al divenire,
l’astratto (bellezza, giustizia, verità, uguaglianza, ecc.) non se ne stanno
immobili e per i fatti loro nel platonico regno delle idee o dell’iperuranio.
Si fanno carne, persona, figura, rappresentazione concreta, finita,
particolare. Il qui e ora è incarnazione continua dell’eterno. L’infinito e il
finito che le nostre menti colgono come astrazioni, distinguendole e
separandole, in realtà sono mediate. La verità è sotto gli occhi, ma se quegli
occhi non avvertono l’infinito trascendere delle cose, delle persone e degli eventi
sono ciechi. Chi rifiuta di mediare l’essere e il divenire si condanna
all’impotenza.
Se incarnazione è parola-azione
proveniente dal mondo cristiano e artistico, mediazione a cui Fortini l’accosta
è, come correttamente la definisce, una categoria; gli arriva dalla filosofia
hegeliana. Procedura discorsiva e razionale, essa si oppone all’evidenza
intuitiva del qui ed ora, alla sensibilità del sentimento e all’opacità della
fede. Nel sistema dialettico ha una sua pregnanza ontologica.
A scuola abbiamo imparato la
massima di Hegel: “Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale”.
Capirla, comprenderla, viverla è un’altra storia. Diciamo che ognuno di noi è
lacerato tra l’essere e il dover essere, tra il bene-male che quotidianamente
vive e il bene che vorrebbe o desidererebbe. Se poi il bene diventa una
“tentazione” peggiore del male, direi che siamo messi malissimo.
Comunque, questo è Fortini che
legge Manzoni. Da un lato è convinto che la letteratura, in quanto menzogna che
dice la verità, possa consentirci «una conoscenza dei rapporti fra gli uomini
diversa da quella cui ci conduce l’uso pratico o scientifico del linguaggio»;
dall’altro insiste sulla necessità di scegliere, tra le esperienze di scrittura,
quelle che ci mettono in guardia dalle mitologie dell’immediatezza, dalle
illusioni e fantasticherie romantiche dell’intuizione, della percezione
sentimentale. Leopardi piace ai giovani? E’ scontato. Proprio per questo hanno
torto. Devono non farselo piacere.
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12 commenti:
Si potrebbe anche porre una distinzione tra l'uomo razionale e l'uomo ragionevole. Una persona ragionevole non è mai solo razionale perché sa per esperienza che la vita contiene entrambe le cose, il razionale e l'irrazionale; un uomo ragionevole è ragionevole. Un uomo razionale non è mai ragionevole perché impone la sua perfetta logica alla vita.
A proposito di professori e Manzoni: quel "siccome immobile" non è fastidiosamente pleonastico?
mayoor
Mi piace questo stile. Narrare argomenti difficili pur rimanendo nella semplicità. Cosa difficile da conquistare.Donato lo piò fare perchè è un pedagogista.
Grazie e attendo altri scritti
Angela
oh Donato , molto bene ti ritrovo è bello poterti leggere...E scoprire che sei come una buona Malvasia. Non ho mai letto nulla di Manzoni, nemmeno i Promessi Sposi. Negli anni 70 era stato bandito. E' una buon'occasione per imparare. Qualcosa. Grazie e grazie ad Ennio per questo suo sito ricco di perle
Giulia
Insomma, bisognerebbe prendere in considerazione ciò che non piace immediatamente, che non interessa il nostro istinto , i nostri desideri. Guardare dentro la menzogna della letteratura per scoprire una verità, quella dello scrittore o quella che intende il lettore? per quanto riguarda il piacere della lettura,mi sembra,che tu ti stia un po' contraddicendo rispetto a un post apparso proprio su questo Blog tempo fa.Io penso che bisognerebbe fare in modo che tutta la letteratura venga spiegata con quel tanto di irrazionale che rende la ragione un importante veicolo che servirà per spostare la mente in tutte le direzioni, soprattutto per costruire su di esse il nuovo. Grazie per questo posto che come tutti gli altri lasciano il desiderio di riflettere. Emy
Posto sta per post. Emy
Ma insomma queste donnicciole che tendono ad intervenire solo per parlare del loro scrittore preferito. Fanno fare una meschian figura a tutto il sesso debole ...apprezzo Salzarulo ma le su efans sdolcinate no...
Giusi
Grazie per gli interventi e apprezzamenti.
1) A Mayoor: si può sicuramente fare una distinzione fra l’uomo “razionale” e quello “ragionevole”. Ma io ho interpretato la massima di Hegel imparata a scuola “Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale” come tensione tra essere e dover essere. Dobbiamo sforzarci di far diventare realtà il razionale e di rendere razionale il reale (soprattutto se carico d’irrazionalità…). L’ho fatto ricordandomi un testo di Marcuse (“Ragione rivoluzione”) letto negli anni giovanili.
2) Ad Emy: non parlavo io “di piacere della lettura”, che volevo sostituirlo col desiderio, ma alcuni miei amici. Comunque, il piacere della lettura esiste (anche il vizio!). Sono proprio i giovani a dimostrarlo: preferendo, come di solito fanno, Leopardi a Manzoni. Fortini, che preferisce il secondo al primo (per varie ragioni che racconterò nel prosieguo del saggio), sostiene che bisogna sapersi negare certi piaceri. Se volete è, come quella di Manzoni, una “saggezza repressiva”. Anche volendolo, non è detto che si riesca. Tant’è che i giovani, nove volte su dieci, preferiscono “A Silvia” al “5 Maggio”.
Ancora grazie a tutti
Donato
«L'arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità»
T.W. Adorno "Minima moralia" (1951)
Ottimo aforisma. Grazie, Giorgio! Però, confrontato con quello di Fortini dove ci porta?...Mi piacerebbe comprenderlo meglio. Ciao
Donato
Caro Donato,
a me sembra che il concetto marxiano di «verità» come lo usava Fortini sia inquinato dalla spinta tutta fortiniana di aderire ad un baluardo forte per poter puntellare la propria progettualità critica e poetica dentro un recinto di paradigmi concettuali forti. Ma così come Fortini lo mette il concetto di «verità» resta inquinato dal sedimento teologico che quella parolina portava (e porta) con sé.
L'impiego del termine «verità» che ne fa Adorno oltre ad essere dialetticamente molto più evoluto e disinibito, ha il merito di liquidare lo stesso concetto che la letteratura (o la poesia) debba cibarsi del concetto di «verità». Adorno è ben cosciente (al contrario di Fortini) che al riparo della «verità» si sono commesse le peggiori scelleratezze (da parte di tutti), e inoltre preme ad Adorno liberare l'estetica da ogni concetto adulterato da influenza teologica come quello di «verità». In specie in Letteratura chi parla di «verità» o è un ingenuo (e quindi lo scusiamo) o è uno sciocco (dal quale però dobbiamo prendere le distanze).
Caro Giorgio,
per Fortini il vero non è del fatto e neppure delle interpretazioni. E' del futuro. E, comunque, Fortini conosceva benissimo l'opera di Adorno. In letteratura e, soprattutto in poesia, non è possibile rinunciare al "vero veduto con la mente" una volta per sempre.
Il bello, il vero, e il buono si condensano o, se preferisci, precipitano in unico suono...
Fraternamente
Donato
La menzogna è una verità mai esistita. Emy
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