martedì 6 novembre 2012

Donato Salzarulo
La letteratura è una menzogna
che dice la verità.
Il Manzoni di Fortini (Prima parte)


E’ di notevole interesse la nota manoscritta di Fortini aggiunta, la sera del 22 maggio 1973, al testo della conferenza, tenuta all’Istituto Italiano di Cultura di Città del Messico, in occasione delle celebrazioni per il centenario della morte di Alessandro Manzoni.

Si può leggere in «Saggi ed epigrammi» (a cura di Luca Lenzini, Mondadori, 2003) da pag. 1796 a pag. 1799.

Comincia col riferimento al vissuto da ogni studente italiano: l’obbligo di leggere i «Promessi sposi». Per la stragrande maggioranza, «un vangelo di noia nazionale». Confermo. Ho letto con una certa soddisfazione e riga per riga questo libro a trentacinque anni suonati, stimolato da un’amica milanese, manzoniana fervente, e da un saggio di Vittorio Spinazzola che lo definiva «il libro per tutti». Almeno nelle intenzioni dell’autore. In realtà, libro che quasi tutti sono stati costretti a leggere. Al di fuori del canone scolastico, probabilmente, l’avrebbero fatto in pochi o pochissimi.

Annota Fortini: «Nella mente dell’italiano medio rimangono alcuni fantocci e l’onda di alcune pagine liriche». Confermo ancora. Oltre a Renzo e Lucia, che mi apparivano giovani manichini d’altri tempi, avevo in testa il fantoccio vigliacco di Don Abbondio e quello prepotente di Don Rodrigo, il fra Cristoforo che ripara in convento e la monaca di Monza…«La sventurata rispose». Poi c’erano gli attacchi lirici imparati a memoria per obbligo: «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi…» e «Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo…»

«Le pagine storiche – che sono fra le più belle del libro – pochi le leggono.» Infatti. Continua Fortini: «A diciotto anni si fanno leggere alcuni passi delle tragedie, qualche poesia, qualche pagina di teoria letteraria». Verissimo. Io ricordo il primo coro dell’Adelchi e quello dell’atto IV su Ermengarda: «Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti, / Dai boschi, dall’arse fucine stridenti, / Dai solchi bagnati di servo sudor, / Un volgo disperso repente si desta» e «Sparsa le trecce morbide / sull’affannoso petto / lenta le palme, e rorida / di morte il bianco aspetto» Questo coro mi seduceva di più col suo alternarsi di verso sdrucciolo e piano, sdrucciolo e piano.

Quanto alle poesie, eccezion fatta per «Il cinque maggio» e per «Marzo 1821» imparate a memoria con i due cori fin dalla terza media, non ricordo molto. Forse fui avvicinato a qualche inno sacro: «La Risurrezione» o «La Pentecoste». Ma non ci giurerei. Valga lo stesso per le pagine di teoria letteraria.

Il giovane che sono stato si ritrova quasi del tutto nelle parole della nota di Fortini: «I giovani non capiscono quei ritmi saltellanti [quelli, ad esempio, del coro sulla morte di Ermengarda], quella musica che sembra teatrale, quella saggezza repressiva; amano Leopardi materialista e fratello della morte, non Manzoni che parla loro con la voce del prete e dei buoni sentimenti. I giovani non possono sapere che la letteratura è una menzogna che dice la verità. Vogliono la verità subito. Manzoni non li interessa.» (pag. 1796). Verissimo. Parecchi anni fa Ugo Dotti intitolò un suo saggio: «Il savio e il ribelle. Manzoni e Leopardi» (Editori Riuniti, 1986). Evidentemente non è soltanto un topos giovanile. Tuttavia, dei pensieri di Fortini, al momento, non mi attrae questo. E’ l’aforisma che, a prima lettura, ho sottolineato a matita : «la letteratura è una menzogna che dice la verità.» In che senso? Inizialmente penso alla critica di Marx alla religione, «sospiro della creatura oppressa», «anima di un mondo senza cuore, di un mondo che è lo spirito di una condizione senza spirito». La religione rappresenta un’illusione, una menzogna che dice, però, la verità sulla condizione sociale “capovolta” degli esseri umani: «è l’uomo che fa la religione, e non la religione che fa l’uomo». La letteratura un po’ le somiglia. Ho in mente anche le pagine su “arte e proletariato” in «Non solo oggi» (a cura di Paolo Jachia, Editori Riuniti, 1991). Poi, ci ripenso e mi ricredo. Forse l’aforisma richiama la frase manzoniana sul «vero veduto con gli occhi della mente». M’incuriosisco. Voglio capire quale sia il luogo da cui Fortini trae l’espressione. Lo trovo. E’ nella prima parte del testo di Manzoni sul “romanzo storico”:

«L’arte è arte in quanto produce non un effetto qualunque, ma un effetto definitivo. E, intesa in questo senso, è non solo sensata, ma profonda quella sentenza, che il vero solo è bello; giacché il verosimile (materia dell’arte) manifestato e appreso come verosimile, è un vero, diverso bensì, anzi diversissimo dal reale, ma un vero veduto dalla mente per sempre o, per parlar con più precisione, irrevocabilmente: è un oggetto che può bensì esserle trafugato dalla dimenticanza, ma che non può esser distrutto dal disinganno.» (http://www.classicitaliani.it/manzoni/prosa/manzoni_romanzo_storico_01.htm, pag.10) Riaffiora, a questo punto, il ricordo dei due concetti relativi alla poetica manzoniana più spesso ripetuti nelle aule scolastiche: il vero del reale e il verosimile dell’arte. Quando non tratta volutamente di favole e/o corbellerie varie, la letteratura è una menzogna perché, comunque, si occupa di verosimili. Ma questi non sono oggetti mentali secondari, disdicevoli o indegni. Producono “effetti definitivi”, dei veri irrevocabili. Il saperli frutto d’invenzione, di finzione, illusione o inganno non li annienta. Manzoni, continuando, fa un esempio: «Nulla può fare che una bella figura umana, ideata da uno scultore, cessi d’essere un bel verosimile: e quando la statua materiale, in cui era attuata, venga a perire, perirà bensì con essa la cognizione accidentale di quel verosimile, non certamente la sua incorruttibile entità.» Detto in altre parole: l’entità di un bel verosimile, una volta concepito, rimane tale per sempre, al di là degli oggetti artistici in cui occasionalmente e casualmente si attua. «Una volta per sempre» titola manzoniamente Fortini la sua raccolta di poesie. Mi vengono anche  in mente certi passaggi di prosa di Baudelaire dedicati a scrittori e pittori. Ma preferisco tornare alla nota. I giovani, quindi, non amano Manzoni. Vogliono la verità subito.

Prosegue il poeta: «Questi giovani hanno torto. La “verità subito” è l’illusione eternamente romantica di chi rifiuta la pazienza dell’incarnazione, la categoria della mediazione. Certo, si può non leggere Manzoni. Si può non leggere nulla. Ma se si pensa che l’uso letterario del linguaggio possa condurre chi legge e chi scrive ad una conoscenza dei rapporti fra gli uomini diversa da quella cui ci conduce l’uso pratico o scientifico del linguaggio, allora l’esperienza della scrittura manzoniana potrà apparire come salutare contro le mitologie dell’immediatezza e la perpetua, la da un secolo ricorrente illusione della avanguardia come rivolta dell’impotenza.» (pag. 1796)

C’è di che meditare: la pazienza dell’incarnazione. Conosciamo la parola. L’abbiamo udita da bambini. Dio assunse il corpo del figlio Gesù per redimere l’umanità dal peccato originale. Magari, abbiamo anche sentito ripetere le parole iniziali e più filosofiche del Vangelo di Giovanni: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (1, 14). Non è necessario essere cristiani per capire quale sia il problema che si vorrebbe risolvere con questa parola-azione: l’essere perfetto, l’infinito, l’eterno, l’incorruttibile, il concetto non sottoposto al divenire, l’astratto (bellezza, giustizia, verità, uguaglianza, ecc.) non se ne stanno immobili e per i fatti loro nel platonico regno delle idee o dell’iperuranio. Si fanno carne, persona, figura, rappresentazione concreta, finita, particolare. Il qui e ora è incarnazione continua dell’eterno. L’infinito e il finito che le nostre menti colgono come astrazioni, distinguendole e separandole, in realtà sono mediate. La verità è sotto gli occhi, ma se quegli occhi non avvertono l’infinito trascendere delle cose, delle persone e degli eventi sono ciechi. Chi rifiuta di mediare l’essere e il divenire si condanna all’impotenza.

Se incarnazione è parola-azione proveniente dal mondo cristiano e artistico, mediazione a cui Fortini l’accosta è, come correttamente la definisce, una categoria; gli arriva dalla filosofia hegeliana. Procedura discorsiva e razionale, essa si oppone all’evidenza intuitiva del qui ed ora, alla sensibilità del sentimento e all’opacità della fede. Nel sistema dialettico ha una sua pregnanza ontologica. La Natura, ad esempio, è termine medio tra l’Idea e lo Spirito. La mediazione è un processo sempre all’opera nell’antitesi che collega  e rende immanente l’uno all’altro gli opposti iniziali: l’infinito e il finito, l’ordine e il disordine, il razionale e il reale, ecc.

A scuola abbiamo imparato la massima di Hegel: “Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale”. Capirla, comprenderla, viverla è un’altra storia. Diciamo che ognuno di noi è lacerato tra l’essere e il dover essere, tra il bene-male che quotidianamente vive e il bene che vorrebbe o desidererebbe. Se poi il bene diventa una “tentazione” peggiore del male, direi che siamo messi malissimo.

Comunque, questo è Fortini che legge Manzoni. Da un lato è convinto che la letteratura, in quanto menzogna che dice la verità, possa consentirci «una conoscenza dei rapporti fra gli uomini diversa da quella cui ci conduce l’uso pratico o scientifico del linguaggio»; dall’altro insiste sulla necessità di scegliere, tra le esperienze di scrittura, quelle che ci mettono in guardia dalle mitologie dell’immediatezza, dalle illusioni e fantasticherie romantiche dell’intuizione, della percezione sentimentale. Leopardi piace ai giovani? E’ scontato. Proprio per questo hanno torto. Devono non farselo piacere.

 

 

12 commenti:

Anonimo ha detto...

Si potrebbe anche porre una distinzione tra l'uomo razionale e l'uomo ragionevole. Una persona ragionevole non è mai solo razionale perché sa per esperienza che la vita contiene entrambe le cose, il razionale e l'irrazionale; un uomo ragionevole è ragionevole. Un uomo razionale non è mai ragionevole perché impone la sua perfetta logica alla vita.

A proposito di professori e Manzoni: quel "siccome immobile" non è fastidiosamente pleonastico?
mayoor

Anonimo ha detto...

Mi piace questo stile. Narrare argomenti difficili pur rimanendo nella semplicità. Cosa difficile da conquistare.Donato lo piò fare perchè è un pedagogista.
Grazie e attendo altri scritti
Angela

Anonimo ha detto...

oh Donato , molto bene ti ritrovo è bello poterti leggere...E scoprire che sei come una buona Malvasia. Non ho mai letto nulla di Manzoni, nemmeno i Promessi Sposi. Negli anni 70 era stato bandito. E' una buon'occasione per imparare. Qualcosa. Grazie e grazie ad Ennio per questo suo sito ricco di perle
Giulia

Anonimo ha detto...

Insomma, bisognerebbe prendere in considerazione ciò che non piace immediatamente, che non interessa il nostro istinto , i nostri desideri. Guardare dentro la menzogna della letteratura per scoprire una verità, quella dello scrittore o quella che intende il lettore? per quanto riguarda il piacere della lettura,mi sembra,che tu ti stia un po' contraddicendo rispetto a un post apparso proprio su questo Blog tempo fa.Io penso che bisognerebbe fare in modo che tutta la letteratura venga spiegata con quel tanto di irrazionale che rende la ragione un importante veicolo che servirà per spostare la mente in tutte le direzioni, soprattutto per costruire su di esse il nuovo. Grazie per questo posto che come tutti gli altri lasciano il desiderio di riflettere. Emy

Anonimo ha detto...

Posto sta per post. Emy

Anonimo ha detto...

Ma insomma queste donnicciole che tendono ad intervenire solo per parlare del loro scrittore preferito. Fanno fare una meschian figura a tutto il sesso debole ...apprezzo Salzarulo ma le su efans sdolcinate no...
Giusi

Anonimo ha detto...

Grazie per gli interventi e apprezzamenti.
1) A Mayoor: si può sicuramente fare una distinzione fra l’uomo “razionale” e quello “ragionevole”. Ma io ho interpretato la massima di Hegel imparata a scuola “Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale” come tensione tra essere e dover essere. Dobbiamo sforzarci di far diventare realtà il razionale e di rendere razionale il reale (soprattutto se carico d’irrazionalità…). L’ho fatto ricordandomi un testo di Marcuse (“Ragione rivoluzione”) letto negli anni giovanili.
2) Ad Emy: non parlavo io “di piacere della lettura”, che volevo sostituirlo col desiderio, ma alcuni miei amici. Comunque, il piacere della lettura esiste (anche il vizio!). Sono proprio i giovani a dimostrarlo: preferendo, come di solito fanno, Leopardi a Manzoni. Fortini, che preferisce il secondo al primo (per varie ragioni che racconterò nel prosieguo del saggio), sostiene che bisogna sapersi negare certi piaceri. Se volete è, come quella di Manzoni, una “saggezza repressiva”. Anche volendolo, non è detto che si riesca. Tant’è che i giovani, nove volte su dieci, preferiscono “A Silvia” al “5 Maggio”.
Ancora grazie a tutti
Donato

giorgio linguaglossa ha detto...

«L'arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità»
T.W. Adorno "Minima moralia" (1951)

Anonimo ha detto...

Ottimo aforisma. Grazie, Giorgio! Però, confrontato con quello di Fortini dove ci porta?...Mi piacerebbe comprenderlo meglio. Ciao
Donato

giorgio linguaglossa ha detto...

Caro Donato,

a me sembra che il concetto marxiano di «verità» come lo usava Fortini sia inquinato dalla spinta tutta fortiniana di aderire ad un baluardo forte per poter puntellare la propria progettualità critica e poetica dentro un recinto di paradigmi concettuali forti. Ma così come Fortini lo mette il concetto di «verità» resta inquinato dal sedimento teologico che quella parolina portava (e porta) con sé.
L'impiego del termine «verità» che ne fa Adorno oltre ad essere dialetticamente molto più evoluto e disinibito, ha il merito di liquidare lo stesso concetto che la letteratura (o la poesia) debba cibarsi del concetto di «verità». Adorno è ben cosciente (al contrario di Fortini) che al riparo della «verità» si sono commesse le peggiori scelleratezze (da parte di tutti), e inoltre preme ad Adorno liberare l'estetica da ogni concetto adulterato da influenza teologica come quello di «verità». In specie in Letteratura chi parla di «verità» o è un ingenuo (e quindi lo scusiamo) o è uno sciocco (dal quale però dobbiamo prendere le distanze).

Anonimo ha detto...

Caro Giorgio,
per Fortini il vero non è del fatto e neppure delle interpretazioni. E' del futuro. E, comunque, Fortini conosceva benissimo l'opera di Adorno. In letteratura e, soprattutto in poesia, non è possibile rinunciare al "vero veduto con la mente" una volta per sempre.
Il bello, il vero, e il buono si condensano o, se preferisci, precipitano in unico suono...
Fraternamente
Donato

Anonimo ha detto...

La menzogna è una verità mai esistita. Emy