Maria Benedetta Cerro La congiura degli opposti
LietoColle, Faloppio, 2012
Ha scritto di recente Nicola La Gioia: «Il più
squillante e splendido what if che sorge dalle pagine migliori di Aldo Busi è
infatti: cosa sarebbe accaduto alla lingua italiana (cioè a tutti noi) se a un
certo punto avesse imboccato la via di Boccaccio anziché quella del Petrarca,
se avesse conservato la sua forza materica e la sua viva complessità, libera
dalla padronalità curiale, poi leguleia, poi accademica, poi ministeriale,
infine televisiva e dunque non più la biografia del popolo che avrebbe potuto
essere ma il guaito delle plebi di ogni censo e condominio sociale? Non è un
caso che Busi consideri una grande occasione mancata la messa al bando della
Bibbia di Diodati nel Seicento. Se Lutero, con la sua traduzione, fondava la
lingua tedesca, agli italiani toccherà per molto ancora il latino amministrato
dalla Chiesa (la Controriforma senza Riforma), cioè una lingua padrona.
L’italiano giungerà irrimediabilmente borbonico o savoiardo, fascista o
democristiano, poco gramsciano e molto togliattiano di stanza all’hotel Lux.
Sempre servo di qualcuno».
Credo che il punto sia questo: la costruzione di un
linguaggio poetico all’altezza dei nostri tempi. La poesia contemporanea è da
tempo impegnata nella individuazione di un linguaggio che si sia liberato dalla
costrizione dei linguaggi della comunicazione relazionale e mediatica; c’è
riuscita? È riuscita a individuare l’obiettivo? È riuscita a costruirsi un
linguaggio poetico all’altezza? Quando leggo un libro di poesia ho sempre
questo interrogativo che mi ronza per il capo, e cerco nel libro una risposta.
Questo volume di Maria Benedetta Cerro, prefato da un gran pezzo di Donato Di
Stasi, in un certo senso la domanda se la pone, e dà anche una risposta:
occorre costruire un linguaggio poetico che sia «la congiura degli opposti»,
allargare il pentagramma lessicale e tonale fino al limite del possibile per
poi lasciare oscillare, entro questa vasta gabbia di oscillazione, la banda
larga del veicolo poesia. Scrive Di Stasi: «si è di fronte a un prosimetro
(aforismi e partiture libere di versi), organizzato in modo architettonico
mediante composizioni tematicamente ordinate (Astuzia delle fonti, Le dimore
sonore, Poema delle sette spade, Poema della mandorla, Ballata du lapin
blanc)».
Il problema che si trova ad affrontare la Cerro è come
costruire un linguaggio poetico «degli opposti» sulla base di un discorso
post-lirico che della lirica mantiene il retaggio e il calco mnemonico e
stilistico; l’autrice mostra di concentrare tutti i propri sforzi nella
direzione di una prosaicizzazione di una parte del libro (che infatti è scritta
in prosa) mantenendo nella restante parte un discorso poetico rigorosamente
incentrato sull’endecasillabo eccedente e sul settenario, su metri dispari
insomma, che lasciano come una zoppicatura tonica, una dismetria fonica, una
dissimmetria ritmica e lessicale in diagonale che attraversa un po’ tutta la
raccolta.
Annunciò tre volte il gallo
l’alba delle banderuole.
E vennero dai pioli sconnessi dell’io
i camminanti
tre
volte battendo sull’uscio…
Anche l’opzione stilistica tende a privilegiare la
collisione fonica e metaforica e lessicale tra il piano «alto» dei linguaggi
del sublime e quello «basso» dei linguaggi del quotidiano. Ma è che la Cerro si
rende conto di come un tale proposito vada inevitabilmente in rotta di
collisione con la questione della perdita di peso specifico che hanno le parole
dei linguaggi relazionali e mediatici così come dei linguaggi che si
apparentano alla tradizione. «È una lingua alleggerita dal senso / - corriva e
proterva -», scrive la Cerro quella che ci viene consegnata dalla tradizione e
dal contemporaneo, una neolingua barbarica ostile alla resa in forma poetica.
Il punto, credo, è proprio questo. Strofe brevi, affondi aforistici,
riflessioni, tagli lirici, incisi metaforici, tutto viene conglobato a
convergere in un calderone linguistico e stilistico che intende spuntare le
punte agli «opposti», renderle meno
affilate, meno taglienti e graffianti. È il problema stilistico dei nostri
tempi quello che tenta di risolvere Maria Benedetta Cerro: quello di
riconvertire e omogeneizzare gli irriducibili «opposti» dei linguaggi poetici
contemporanei che stanno in posizione di galleggiamento «leggero» con i
sommergibili «pesanti» che sono andati a picco costituiti dai linguaggi
«cifrati» della tradizione che nel frattempo è scomparsa, affondata sotto i
colpi di una infausta e proditoria cannoniera che per intanto procede, vento in
poppa, verso l’ignoto.
Giorgio Linguaglossa
I
Gli anelli spergiuri pagano le cicatrici del profondo.
Emergenza è vivere per gli uomini che hanno scritto e affisso con uncini da
beccaio frasi elementari che sanguinano.
II
Ospiti mai stanchi delle insonni attese
- prodighi di segreti tradimenti -
non mi portaste fra le braccia
oltre le soglie dei conviti.
Non diceste parole
che avrei
gradito udire
né tratteneste a lungo la mano nel saluto.
Con tale indifferenza mi lasciaste andare.
Eppure vi aspetto
- non vi stupite
-
Ancora.
III
Il nulla è.
Ma tu puoi colmarlo
e l’incompiuto si fa spinoso dono.
Orli di braci le tue labbra
e
mani rapaci del mio domani.
E tuttavia sul ponte
- troppo avanti
per tornare indietro
alta la fronte
dalla parola in cui ho creduto
spero di essere accolto.
IV
Non dormire.
E’ il giorno che passa.
Una volta
per l’ultima volta.
Ascoltalo.
Arrestalo.
Guardalo negli
occhi.
Riconoscilo. E’ il tuo tempo.
Non lasciarlo andare senza una parola.
Io sono colei che ama tutte le tue fibre
che le ascolta cantare come un pianoforte.
Ecco
la
faretra in spalla
esco per
incontrarti.
Non passare senza sfiorarmi.
Sono colei che se l’ignori
sguaina lo strale.
V
E’ una lingua alleggerita dal senso
- corriva e proterva
-
Una cintura di suoni
adorna la sua vocalità.
Promette naufragi di grazie
poi cala sugli occhi
la sciabola del suo ventaglio
e nell’andare
le spalle ti volta.
VI
Impastò le ore: attese che lievitassero. Intanto
ospitò nel grembo le mani. Pensava alle sfere, alle rotazioni lente da
betoniera. Così nasce il tempo –si diceva- così si erigono le torri. In cima vi
abita il pensiero, più in alto ancora l’enigma. Riprese le sue ore: odoravano
di nido e di muschio. Ne fece attimi lunghi e altri brevi. Le mise al sole in
fila. Finché divennero alfabeti.
VII
Conosce questo vuoto
chi veglia al centro della pietra.
Pupille senza meraviglia guardano all’indietro.
Ogni momento fioriscono parole
che chiamano il nome delle cose
che tornano alla lingua senza appello.
Loro sanno.
Conoscono alberi e fiumi che non esistono.
Conoscono il vuoto che hanno edificato
e dove credono di
cantare.
Nella pietra
preservate tutte le tenerezze
scolpita la perfezione della terra.
Dalla prigionia
del nulla
al tempo
inaccessibile.
Così.
3 commenti:
Lo so sarò banale, il resto lo ha già detto lei, Sig. Linguaglossa, ma me lo lasci dire:
queste poesie sono meravigliose ,fra le più belle che ho letto negli ultimi anni. Senz'altro acquisterò il libro. Grazie . Emy
Ci deve essere un errore: la poesia VII è o non è di Wisława Szymborska? Boh, sarà l'ora tarda...
mayoor
Devi esserci stato un contocircuito molto tipico del web. La poesia è edita in La congiura degli opposti di Maria Benedetta Cerro a p. 102. Essa è associata alla Szymborska in due siti, che copiando e incollando hanno ingenerato l'equivoco. Li riporto qui:
http://ciaomondoyeswecan.myblog.it/archive/2012/11/09/giorgio-linguaglossa-basta-cosi-raccolta-postuma-di-w-szymbo.html#comments
https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=493099004058328&id=420784107983815
Doukas
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