Aroldo Bonzagni, Il tram di Monza, 1916
Prologo
(Il rientro in servizio)
Nel
sogno mi trovo su di un autobus ferno alla frontiera di un paese sconosciuto.
L'ufficiale che controlla i documenti punta gli occhi su di me e mi domanda,
con voce modulata dal sospetto: - Lei, dunque, è...?
-
Io? Nessuno -, gli rilancio assieme a un sorrisetto ironico, quasi ad
alleggerire la tensione.
Adesso
l'ufficiale mi fissa ancor più severamente. E innervosito ribatte: - Lei,
nessuno? Le ricordo che per essere nessun bisogna aver fatto delle scelte ben
precise. Non si diventa nessuno così, di punto in bianco. E lei, caro signore,
non è nessuno, semmai è una nullità.
La
devastante: guerra-di-devastazione
ha
annichilito coscienze, eretto
menzogne
come barriere, trasformato terre
in
stati canaglia, perché
le
ghiandaie volino via da stagni rugginosi
e
l’Impero estenda a raggiera il suo dominio.
Azzerati
i codici
etici,
altri saranno i protocolli
a
misura di scolopendre e centri
commerciali,
per intanto
batuffoli
di nuvole a schiera
striate
d’elegia fanno vela
su
tetti irrorati di magenta. L’autunno è mite
da
queste parti, dove le Erinni
sono
quiete Eumenidi e drappelli
d'idioti
in ghingheri
benpensanti
a branchi
sorrisi
seriali di sciacalli
danno
il benvenuto
fanno
la loro parte
al
pari di agavi e pini
ancorati
agli scogli.
Paesaggio
di rade e promontori
-
non ci sono, qui, le lamiere contorte
le
macerie annerite, i crepitii, i boati
ma
un meridiano ronzio di orti
assolati,
ma un breve ventare di scirocco
su
marezzi di turchese e coste fatte dolci
dai
declivi – prospettive di muretti a secco
mirti
corbezzoli lentischi cisti marini
per
la festa degli occhi, e il fumo
non
è greve di lutto, ha aroma di griglia.
Lo
strazio di corpi percepiti appena, pozzanghere di sangue
permettono
i traffici dell’acanto, propiziano i commerci
dei
vigneti alle colline, dove per scoscesi sentieri
vanno
bambocci in suv. Il ciocco di stippa arde, crepita nel camino
quando
l’inverno è alle porte e la galassia
sta
tutta nella tazzina del caffè.
Postille, en poète, alla natura
delle cose
- Vous êtes l'idiot
de la famille...
Chissà
quale impulso aveva spinto la bellissima ragazza nera dagli occhi inquieti di
gazzella ad apostrofarlo a quel modo. Era appena entrato in una libreria di
Boul' Saint Mich' e Sartre aveva appena pubblicato il suo monumentale studio su
Flaubert. Fu solo la sua stupidità a fargli rispondere (come se lei non lo
sapesse già): "Non, c'est pas moi, Mademoiselle, c'est Flaubert",
mentre il giovane accompagnatore nero la sospingeva affettuosamente verso
l'uscita dondolando sorridente la testa.
Del caso, la necessità, l’esprit de
géométrie
Final-mente
arriva l’eroe tutto d’un pezzo
con
la sua smorfia triste di manutengolo
e
lo scalpiccio frettoloso del ritardatario
che
i bastian contrari mette a posto
facendo
d’ogni erba un fascio
come
da contratto, dietro lauto compenso
e
promessa di reingaggio. Per suo volere
si
affastellano fascine per il rogo
perché
la tolleranza è una cicca spenta
quando
castagni e cerri si ribellano
alla
perfetta messinscena del paesaggio
e
un sorriso sulla linea dell’orizzonte
forse
di spinnaker scivola
di
lasco, in verticale, mentre
spostando
di pochi metri la visuale
ecco
gabbiani levarsi in volo, indispettiti
a
frotte per tresche d’alghe dagli scogli
e
canuti spruzzi di motoscafi.
Però
di questo darà miglior referto il tempo
che
galantuomo è oltre ogni dire, e il suo corso
provvederà
al repulisti, basta aspettare.
Questioni aperte
Dove
ha inizio
la
filiera del sospetto?
E
fino a quando la manfrina di minuzie avrà
ragione
della deriva del soggetto?
In
questi termini (macchie di ginepro sulla costa)
è
posta la questione al perdigiorno
flâneur
distratto dal moto della risacca
che
sballotta sulla battigia argentee squame
e
incunaboli carnosi, le escrescenze tra le spume
dell’actinia
equina, il cosiddetto pomodoro marino
strappato
allo scoglio da ondivaghi capricci
(sovrasta
la torre di guardia euforbie e mirti)
mentre
grappoli di trebbiano e vermentino
dorati
al sole d’agosto brillano alle colline
prigionieri
delle lusinghe del giorno.
Resoconto
il
Fato si è fin troppo divertito
alle
mie spalle, ma finquando
le
garze pattuglieranno il lago, candide
custodi
di dettagli, con il vento che sferza
la
sua breva a folate costanti pari a venti
nodi
almeno o ai cinque gradi della vecchia
scala
di Beaufort sull'incomposto
e
cangiante corso delle cose
il
querulo saluto d’una poiana
sarà
opportuno algoritmo al fermento mercuriale dei sospetti
come
il messaggio che affido a piumate epifanie
ma è davvero strano che sia un
poeta, perché questo in fondo
io sono, a perorare la ragione d’un
centro sociale occupato
di fronte a incontrovertibili
portaborse dell’esistente
* Roberto Bugliani è nato a La Spezia dove risiede.
Per le edizioni Manni di Lecce ha pubblicato Il
decennio perduto. Romanzo da verificare (1994); la raccolta
di racconti Zucchero e altri veleni (1995); il
reportage Dove comincia il giorno. Viaggi in Chiapas e
Guerrero (1999) e con Roberto Bertoni l’antologia
poetica Voci di Liguria (2007). Ha tradotto racconti
e romanzi di scrittori latinoamericani, tra cui gli
ecuadoriani Alicia Yánez Cossío, Joaquín
Gallegos Lara, Pedro Jorge Vera, il messicano
Carlos Montemayor, i due tomi del Sub co man -
dan te Marcos, Dal Chiapas al mondo (Erre Emme,
1996) e il saggio di René Báez Messico zapatista
(Editori Riuniti, 1997). Ha raccolto parte della sua
produzione saggistica in Le parole di Mefisto (Edi zio -
ni di Contraddizione, 1990) e ha pubblicato due
libri di poesie, Cronache con paesaggio (Manni, 2001)
e Di quand’ero poeta (e non lo sapevo) (Puntoacapo
Editrice, 2009).
* Roberto Bugliani, Versi scortesi, Genesi Editrice 2012
Il titolo è rammemorazione polemica della poesia
cortese che solitamente viene collegata a poemi e
romanzi del ciclo carolingio, per indicare una
nozione di racconto in fabula, distinta dalla storia
reale dei fatti accaduti, nonché diversificata dalla
rielaborazione artistica di vicende giammai accadute,
ma sostanzialmente verisimiglianti. La poetica
cortese, per sua natura letteraria, scatena la fantasia
in un viaggio impossibile, con amori illeciti, che
vivono nel sogno, ma che ambiscono vanamente di
rendersi leciti e di ottenere la nazionalità del
mondo reale. La poetica s-cortese, invece, presumibilmente
sviluppa un gioco ironico di antinomie,
ma è anche una sineciosi, e cioè descrive un’improbabile
cittadinanza di coabitazione del reale e
del surreale riuniti insieme, come si può arguire dal
Prologo del bellissimo libro di Bugliani, ove si accenna
kafkianamente a un protagonista mancato del
viaggio poetico, cioè a una mezza figura di Ulisse
in anonimato – che può anche essere un senhal dietro
cui è adombrato lo scrittore – ovvero a una
sorta di argonauta moderno che anziché viaggiare
sulla mitica Argo, che secondo Dante farebbe da
ombra a Nettuno, viaggia su di un bus, senza essere
in regola con il biglietto e con l’identità della persona,
gioiosa condizione pirandelliana di commistione
del reale e del surreale. Ma, successivamente,
il discorso poetico di Roberto Bugliani, dopo
questa seducente e perfetta ouverture, si complica
e si arricchisce di citazioni e di invenzioni sempre
più intelligenti e anche di dubitazioni sul valore di
denominazione del reale che la poesia è in grado di
sviluppare.
s.g.p. (Sandro Gros-Pietro)
7 commenti:
vorrei mettere in evidenza questi versi:
per intanto
batuffoli di nuvole a schiera
striate d’elegia fanno vela
su tetti irrorati di magenta. L’autunno è mite
da queste parti, dove le Erinni
sono quiete Eumenidi ...
sensibilizzerei Bugliani a proseguire sulla falsariga del pezzo riportato lasciando andare a fondo la poesia di rivendicazione ideologica o di critica razionalistica del sociale in quanto già detto e troppo detta, e quindi inefficace sul piano estetico.
Mi raccomando: sono solo umili consigli.
Penso anch'io che siano questi i versi migliori, ma più in esteso:
"Azzerati i codici
etici, altri saranno i protocolli
a misura di scolopendre e centri
commerciali, per intanto
batuffoli di nuvole a schiera
striate d’elegia fanno vela
su tetti irrorati di magenta. L’autunno è mite
da queste parti, dove le Erinni
sono quiete Eumenidi"
e mi piacciono i luoghi, gli elementi della natura per come s'accompagnano alla narrazione. Personalmente ritengo che, per l'intento d'estroversione che comporta, di critica e denuncia, il linguaggio sociale dovrebbe uscire più allo scoperto rendendosi più fattivo che descrittivo.
mayoor
Caro Liguaglossa, la ringrazo del consiglio, credo che tutti i poeti ne abbiano bisogno (a parte quelli che sono convinti che il proprio ombelico sia il centro del mondo, e ce n'è), e io in particolare. Il brano da lei riportato fa parte di quella mimesi della tradizione poetica novecentesca disseminata qui e là nei miei testi, giocata in modo critico-ironico (ma senza chiamare in causa lo schiacciasassi del postmoderno), che viene fatta cozzare, come in questo caso, con la serie di versi successivi, producendo (mi auguro) effetti di straniamento (perdoni il brechtismo). Il ricorso alle figure mitologiche delle Erinni e delle Eumenidi, topoi letterari frusti, va in tal senso. Del resto, in altri punti di questo stesso testo ho volutamehte messo in campo sintagmi di sapore montaliano, o comunque aulico, come il "meridiano ronzio di orti / assolati", o il "breve ventare di scirocco", appunto per denunciarne l'insufficienza poetica, oggi, e la loro mancanza di tenuta (ossia la loro falsità) rispetto alla tragicità di lontane guerre in corso, non percepibili in territori arcadici (in questo caso la costa ligure)dove l'idillio permea la falsa visione poetica. E a proposito di "idillio", se un antecedente, parziale certo, dovessi indicare, sarebbe "Agli dèi della mattinata" di Fortini. Mi scusi se l'ho fatta troppo lunga, ma non ho resistito al piacere di questo scambio dialogico di punti di vista.
Caro Mayoor,
quando ho risposto a Linguaglossa, non avevo ancora letto il suo commento, che mi è comparso appena fatto l'invio (magia sciamanica dell'informatica). Se mi permette un'aggiunta rispetto anche a ciò che ho scritto sopra, è proprio nella citazione più estesa da lei fatta che si situa la problematicità "politica", mi si passi il termine, di questo testo. I primi quattro versi del brano da lei citato denunciano appunto, per come la vedo io, la contraddizione tra l'odierno referto della situazione sociale e ella vita quotidiana e la "visione" idilliaca del paesaggio e del mondo, che è contraddizione stilistica e poetica, in primo luogo, e politica in secondo.
Ennio Abate:
APPUNTI SU «VERSI SCORTESI» DI BUGLIANI
Ho dato una prima lettura al libro di Bugliani, del quale sul blog Moltinpoesia erano già uscite alcune poesie sempre dalla medesima raccolta, allora inedita (si leggono al link: http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/08/roberto-bugliani-da-versi-scortesi.html).
Qui vorrei brevemente far sapere che sento vicinissimi questi suoi «versi scortesi». Non perché sono suo amico e entrambi siamo stati segnati dalle esperienze degli anni Settanta, entusiasmanti e roventi e poi condannate, per la sconfitta subita dalla parte in cui militammo, al ripensamento solitario, da clandestini.
Li sento vicinissimi per almeno tre ragioni:
- perché condivido alcune sue scelte formali. Soprattutto il contrappunto stabilito tra le parti in prosa, in cui trapelano senza infingimenti e senza esibizionismi rozzi le sue scelte politiche, i suoi riferimenti culturali e una sua vena profonda di narratore, e le parti in versi, dove emerge la sua soggettività e persino umoralità;
- per il saldo controllo intellettuale ed emotivo sulle esperienze riportate: si sente dovunque il possesso di un sapere letterario di tono alto, filtrato criticamente da una coscienza permeata dalle inquietudini e speranze del Novecento. Bugliani realizza in questo modo un doppio ascolto sia della realtà sia della storia; e si serve di due strumenti di conoscenza (prosa e poesia), non svilendo il primo per innalzare il secondo e mai confondendoli;
- per l’etica risentita, da sconfitto certo, ma rimasto con la schiena dritta e capace di non perdonare i «bastardi» con «le facce da sfinge / di ieri, di sempre» (p. 17).
Ci sono altri caratteri di questa raccolta che mi attirano; e che sono propri di Bugliani, originali e espressi con ironia:
- l’interrogazione sorniona e da intellettuale che ha navigato a sufficienza tra sperimentalismi e teorizzazioni anni Sessanta sul poeta e sul fare poesia: gli fa produrre componimenti che paiono piccoli trattati sull’ ars poetica, ironici, dissacranti, contrari ad ogni seriosità o reinvestimento in una poesia vaticinante.
Cito ad esempio l’inizio di «Strategia d’approccio» (p. 39):
Alla poesia bisogna
Accostarsi piano, mentre in sonno
Sogna. Non in punta
Di piedi, sciocca accortezza, ne menchemai
mettendo a soqquadro l’esistente
ma con passo un po’ felpato e cotidiano, attenti
quel tanto che serve
a sorprenderne il respiro lieve
e l’abbandonata postura. […].
Oppure «Ex-cursus» (p. 49), dove dopo la premessa in prosa, che dice: «Non da oggi in poesia l’io lirico la fa da padrone. Rimirandosi in permanenza il proprio ombelico, al pari della rana vanesia dinanzi al bue della propria appagatezza narcissica, l’io si è gonfiato in modo spropositato di idealismo, falsa coscienza, solipsismo. E con atto arbitrario ha conferito al proprio simbolismo poetico valore universale», scrive:
Allora, ricominciamo?
dal lilium auratum o dal sorriso dell’isola lontana?
dalle pinete qui assolate o dai carrugi là in ombra
dove il salino incrosta pure l’animo?
Ricominciamo, sì, ma a tutto tondo, e dunque:
La poesia è una gran ruffiana
finge, regge il sacco, fa la gnorri, trasfonde
orrori in idilli, gattamorta adorna
d medaglie il mentecatto, patemi elargisce
a piene mani dell’animo tarlato, amate
e ombelichi alla pari in dirittura d’arrivo:
al miglior supplizio di parole andrà il premio
di miglior fabbro (perditempo e bastian contrario astenersi).
[…];
[continua]
Ennio Abate (continua):
- gli squarci, anche nostalgici e stupiti ma sempre vigili, di altri mondi, in particolare coi colori e le immagini dell’America latina, che Bugliani ha conosciuto da vicino e della cui cultura s’è imbevuto. Un solo stralcio da «Realizzi quel viaggio che tanto desidera» (p. 65):
[…]
Ma se non fossero soggette a un disegno infame, allora certo
sarebbe tutt’altra cosa il paesaggio
le terrazze andine pettinate a mais, le piantagioni
di canna da zucchero piacevoli alla vista, i pozzi
petroliferi ottimamente inseriti nell’ambiente, perfino gli eucalipti
avrebbero postura da manuale, e il mare sotto
una favola di turchese e di smeraldo.
[…];
- certe accensioni erotiche e sadico-malinconiche, ad es. queste in «Rimanenze» (p. 50) che si confronta con l’eco di Cesare Pavese:
Il mestiere di amare
Il mestiere di amare, gli anni quasi trenta
la vita fatta a stenti, le cadute
sempre sorridendo: sissignore
e gettare dal palmo della mano
i pochi palpiti del cuore, a Milano
fu dolce un tempo, ma il vento sperde
anche l’ultimo sapore trattenuto
con rabbia e con disprezzo d’una vita.
Al locale quanti
hanno scavato su quel corpo solchi.
E le bocche, quante
a ventosa sui seni, quanti
artigli ai glutei, quanti baci
scivolati sulle cosce come sperma.
Quanto sudore
è traghettato dalla pelle al nylon
quanti palpiti colati a picco
d’una vita alla rinfusa.
Bugliani mi pare abbastanza immune dalle lamentazioni sulla crisi della poesia, perché la pratica appunto con aria sorniona e ironica (e sa come prenderla, quasi come una donna riottosa…), gettandosi alle spalle gli intellettualismi di certe teorizzazioni e direi anche i discorsi più petulantemente politici o le tentazioni epiche («per quanto attiene all’epos, ti confesso che / c’ho provato, ma / proprio no nriesco a prenderlo sul serio, mi pare / qui fuori-luogo come un don Chisciotte / nella sua mancha nativa» (p. 75). Godendosela in disparte, un attimo dopo aver fatto il bilancio politico di una generazione sconfitta. Evitando però anche in questo ogni rigidità moralistica e mai rinunciando a uno sguardo politicamente vigile sul mondo.
[Fine]
Vorrei sussurrarvi una cosa: queste poesie mi hanno commossa. Emy
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