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Paolo Massari ·
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Persona super attivaDIECI LIBRI DI POESIA DEL NOVECENTO ITALIANO FRANCAMENTE INDISPENSABILI, OPPURE NO
di Giulio Mozzi
1. Il Novecento poetico italiano comincia con Guido Gozzano: la cui forza respinge nell’Ottocento l’amato-odiato-parodiato D’Annunzio (benché Gozzano muoia nel 1916 e D’Annunzio ventidue anni più tardi, nel 1938). Gozzano, che peraltro non sbagliava un verso ed era parnassiano fino al midollo, per primo introduce in poesia la prosa-prosa (Montale dixit: «il primo che abbia dato scintille facendo cozzare l’aulico con il prosaico»); e se non avete voglia di leggervi per intero «I colloqui» (ma via, in fondo è un libretto), leggete almeno i due poemetti «La signorina Felicità ovvero la felicità» e «L’amica di nonna Speranza»; senza dimenticare, tuttavia, «Paolo e Virginia. I figli dell’infortunio» e «Totò Merùmeni». Consiglio comunque l’edizione di tutte le poesie, in due volumetti, curata per Einaudi da Edoardo Sanguineti.
2. Giovanni Pascoli è un problema: non si sa mai se novecentizzarlo o ottocentizzarlo. Io direi: che «Myricae» è una splendida cerniera tra i due secoli, anche se sarei tentato di consigliare piuttosto i «Primi poemetti» – sostanzialmente a causa di quel capolavoro che è «Italy». Se di Pascoli aveste in mente un’immagine di poeta tra il bucolico e lo stucchevole, mettetela da parte: perché e sbagliata; e provate a rendervi conto che il famoso «Ecco un cocco / ecco ecco un cocco un cocco per te!» di «Oh Valentino» è un attentato dinamitardo contro la lingua letteraria – rispetto al quale la rivoluzione futurista è tutto fumo e poco arrosto (e quel poco, manco buono). Come accompagnamento alla lettura consiglio il saggetto di Gianfranco Contini «Il linguaggio di Pascoli», in «Varianti e altra linguistica», Einaudi 1970 (una trentina di pagine); come edizioni, le «Myricae» della Bur (ma piuttosto quella vecchia, fuori commercio, con l’introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo; anche se quella nuova, a cura di Gianfranca Lavezzi, va più che benissimo) e i «Primi poemetti» nell’edizione einaudiana nella NUE a cura di Edoardo Sanguineti (che però riporta il titolo «Poemetti» e il testo della prima edizione, del 1900; l’edizione definitiva, col titolo «Nuovi poemetti» e qualche aggiunta e rimaneggiamento, è del 1904).
3. Pietro Jahier oggi non lo legge quasi più nessuno, ed è un vero peccato. Il libro «Poesie in versi e in prosa», pubblicato postumo da Einaudi nel 1981 a cura di Paolo Briganti (Jahier era morto nel 1966) già nell’azzeccatissimo titolo (editoriale, ovviamente, non autoriale) dice perché deve essere letto. Il verso di Jahier è sempre al limite della prosa (e viceversa), è un verso che sa di biblico e di whitmaniano (ma Walt Whitman era un biblicissimo poeta), con l’aggiunta di un pizzico di Paul Claudel (del quale Jahier tradusse nel 1913 l’«Arte poetica»): e se abbiamo detto che Gozzano faceva entrare la prosa nella poesia, al contrario Jahier faceva entrare la poesia nella prosa (anche «Ragazzo», il suo bel romanzo autobiografico del 1919, è di fatto un prosimetro). Jahier fu valdese, ferroviere, volontario nella Grande Guerra, antifascista inflessibile e perseguitato, poeta e traduttore. Era anche un bellissimo uomo, e per questo ho messa la sua foto in questo post.
4. Montale non è evitabile e «La bufera e altro» è, dei suoi libri, il più libro di tutti: il più strutturato, il più finito, il più coerente (il più «libro», insomma, come ho detto). In un testo raccolto in «Quaderno di quattro anni», e intitolato sic et simpliciter «La poesia», Montale scrisse: «Dagli albori del secolo si discute /se la poesia si dentro o fuori. / Dapprima vinse il dentro, poi contrattaccò duramente / il fuori e dopo anni si addivenne a un forfait / che non potrà durare perché il fuori / è armato fino ai denti». Ecco: se nei primi libri («Ossi di seppia», «Le occasioni») si sente che il «dentro» (e la lingua letteraria con lui) ancora prevale, e se negli ultimi («Satura», il «Diario del ’71 e del ’72», lo stesso «Quaderno di quattro anni») è evidente che il «fuori» ha fatto irruzione (e così pure la lingua del quotidiano) e ha travolto tutto, «La bufera e altro» sta in mezzo, nel momento del perfetto equilibrio. Potete prendervi l’edizione supercommentata negli Oscar Mondadori, a cura di Ida Campeggiani e Niccolò Scaffai (con scritti di Guido Mazzoni, Gianfranco Contini, Franco Fortini), una sberla da 556 pagine complessive; o provare a leggervi il testo nudo e crudo (la prima edizione, del 1956 presso Neri Pozza, costa giustamente un botto; ma potete procurarvi per meno di dieci euro una qualsiasi ristampa – anni Settanta – dell’edizione nella collana mondadoriana Lo Specchio, che è pure graficamente bella). Consiglio personale: prima il testo nudo e crudo, poi quello ipertroficamente commentato.
5. Di Amelia Rosselli almeno le «Variazioni belliche», oggi pubblicate nei Grandi Libri Garzanti per la cura di Emmanuela Tandello (ma, già che ci siete, per qualche soldo in più potete prendervi, nella stessa collana, le poesie complete). Le «Variazioni belliche» sono… Ecco, questo è uno dei casi in cui non so che cosa dire. Un libro bellissimo, affascinante, misterioso, scritto in una lingua che è solo sua. Allora mi limito a citare: «Se per il caso che mi guidava io facevo capriole: se per / la perdita che continuava la sua girandola io sapevo: se / per l’agonia che mi prendeva io perdevo: se per l’incanto / che non seguivo io non cadevo: se nelle stelle dell’universo / io cascavo a terra con un tonfo come nell’acqua: se per / l’improvvisa pena io salvavo i miei ma rimanevo a terra / ad aspettare il battello se per la pena tu sentivi per / me (forse) ed io per te non cadevamo sempre incerti nell’avvenire / se tutto questo non era che fandonia allora dove rimaneva / la terra? Allora chi chiamava – e chi rinnegava?». Ecco, difronte a questo io soccombo.
6. «Postkarten» è forse il libro più cordiale di Edoardo Sanguineti (i cui primi testi sono, almeno per un umano come me, davvero difficili, forse impossibili). Poesie come «cartoline» spedite da un poeta-accademico-intellettuale perennemente in viaggio. Ancora, qui, la prosa che entra nella poesia (ma quanti endecasillabi perfetti sono nascosti nei versi extralunghi di chi dichiarava «oggi il mio stile è non avere stile» – con un endecasillabo perfetto, appunto): ma non (solo) la prosa della quotidianità e della vita materiale: bensì (anche) la prosa del lavoro intellettuale, della politica, dell’attualità sociale. E, insieme, una fortissima vocazione alla narratività. Come dice la cartolina numero 49: «Per preparare una poesia, si prende “un piccolo fatto vero” (possibilmente / fresco di giornata): […] conviene curare / spazio e tempo: una data precisa, un luogo scrupolosamente definito, sono gli ingredienti / più desiderabili, nel caso: /idem per i personaggi, da designarsi rispettando l’anagrafe: / obiettivamente riconoscibili […] e / concludo che la poesia consiste, insomma, in questa specie di lavoro: mettere parole come / in corsivo, e tra virgolette: e sforzarsi di farle memorabili, come tante battute argute / e brevi: (che si stampano in testa, così, con qualche contorno di adeguati segnali / socializzati): (come sono gli a capo, le allitterazioni, e, poniamo, le solite metafore): / (che vengono a significare, poi, nell’insieme: / attento, o tu che leggi, e manda a mente):». «Postkarten», del 1978, è incluso nel volume «Segnalibro», oggi nei tascabili Feltrinelli.
7. Chi dice «Postkarten» deve dire anche «Il Galateo in Bosco» di Andrea Zanzotto (e viceversa): apparso nello stesso anno, il 1978, che vide così contrapporsi (secondo alcuni) o affiancarsi (secondo me) due opere che facevano la stessa cosa in modi tanto diversi. Di Zanzotto (non a proposito del «Galateo», ma del precedente «La Beltà»; ma il discorso vale pari pari) scrisse Montale: «La sua [di Zanzotto] sfiducia nella parola è tale che si risolve in una felice commistione lessicale. A lui tutto serve: le parole rare e quelle dell’uso e del disuso, l’intarsio della citazione erudita e il perpetuo ribollimento del calderone delle streghe. Sullo sfondo, poi, può esserci tanto il fatto del giorno quanto il sottile richiamo mitologico. È una poesia coltissima, la sua, un vero tuffo in quella pre-espressione che precede la parola articolata e che poi si accontenta di sinonimi in filastrocca, di parole che si raggruppano per sole affinità foniche, di balbettamenti, interiezioni e soprattutto iterazioni». Stupisce, a distanza di tanto tempo, come quasi le stesse parole si potrebbero usare per descrivere tanta poesia di Sanguineti: e per questo – oltre che per il nesso «piccolo fatto vero»-«fatto del giorno» – dico che questi due libri, all’epoca percepiti come se si avversassero fieramente, in realtà ora vanno, e già allora andavano, felicemente a braccetto. Negli Oscar Mondadori c’è un «tutto Zanzotto» senza commenti, ma con bella e ricca introduzione di Stefano Dal Bianco; nei Meridiani c’è un «Poesie e prose» di qualche anno precedente, quindi mancante degli ultimi libri (ma il «Galateo» c’è), in cui le poesie sono accuratissimamente commentate dal medesimo Dal Bianco.
8. «Salutz» uscì nel 1986, ed è un libro nel quale Giovanni Giudici, che con la lingua del quotidiano ci aveva fatti i conti in molti suoi libri precedenti (dall’iniziale «La vita in versi», seguito da «Autobiologia» – due titoli assai espliciti, fino a «Lume dei tuoi misteri»), si butta a corpo morto in una lingua che più letteraria non si può: la lingua dei trovatori, dei minnesänger, dei poeti cortesi. «Mai fu stella al suo spegnersi più pura / Né più carnale al suo sfarsi morgana / Come l’ambiguo raggio / Del volto vostro perla fissa e dura / Che pur mi dà coraggio / E che mi fa paura / Però troppo castiga e meno ama – / Dunque a voi lascio il premio dei miei stenti / Se Minne [l’Amore] altrove chiama / A voi confido stemma ed armatura / Viola e durlindana / Voi che foste mio bene e mia sventura / Se Minne pur non siete / Aprite il chiuso dove mi chiudete». Il risultato è un libro molto calcolato (dieci sezioni composte ciascuna da dieci componimenti di quattordici versi ciascuno – ma che non sono esattamente dei sonetti –, più un evoi finale): che mostra come la lingua letteraria, scacciata dalla porta, può felicissimamente rientrare dalla finestra. Il libro fu pubblicato da Einaudi, l’edizione ora disponibile (con una introduzione di Giovanni Raboni) è presso Il Saggiatore.
9. Nello stesso anno 1986 apparve «Il conte di Kevenhüller» di Giorgio Caproni: non esattamente un romanzo in versi, forse più una sorta di libretto d’opera con arie, recitativi e cori. Il conte organizza una caccia a un essere mostruoso: «La Bestia assassina // La Bestia che nessuno mai vide. // La Bestia che sotterraneamente / – falsamente mastina – / ogni giorno ti elide. // La Bestia che ti vivifica e uccide… // ….. /»/ Io solo, con un nodo in gola, / sapevo. È dietro la Parola». Anche quest’opera segna, come si vede, il ritorno di una lingua letteraria, di un poetare allegorico – da parte di un poeta che con la lingua del quotidiano a sua volta aveva fatto i suoi conti, per esempio in certi sonetti che si davano tanto l’aria di non essere sonetti, ma lo erano eccome: «Amore mio, nei vapori d’un bar / all’alba, amore mio che inverno / lungo e che brivido attenderti! Qua / dove il marmo nel sangue è gelo, e sa / di rifresco anche l'occhio, ora nell’ermo / rumore oltre la brina io quale tram / odo, che apre e richiude in eterno / le deserte sue porte?…». Per leggere Caproni vi ci vuole il Meridiano (che sconsiglio, perché gli apparati sono sostanzialmente filologici) oppure l’edizione delle poesie complete presso Garzanti, nei Grandi Libri. [En passant: proprio a Giorgio Caproni è dedicata la parte monografica del corso «Scrivere in versi 2», ideato e condotto per la Bottega di narrazione da Giovanna Frene. Link nel primo commento].
10. E poi? E poi: lo so che siete tutti lì, con le fauci spalancate, ad aspettare che finalmente io mi inoltri nella contemporaneità. Ma siamo arrivati al numero dieci, termine prefissato, e così dirò solo che di quella generazione che fu chiamata dal felice titolo di un’antologia, «La parola innamorata» (a cura di Giancarlo Pontiggia e Enzo di Mauro, Feltrinelli 1978), la generazione dei Milo De Angelis, dei Cesare Viviani, eccetera, sceglierò solo un libro di un autore appartatissimo, apparso nel 1977: «Sonetti d’amore per King-Kong», di Gino Scartaghiande (ora disponibile presso le edizioni Graphe). Se la generazione dei Sanguineti, dei Zanzotto, e anche dei Giudici e dei Caproni, tenta la poesia nonostante una grande «sfiducia nella parola» (riprendo la citazione da Montale a proposito di Zanzotto), quella che si ritrova in questo piccolo libro è una fiducia assoluta, invece, nella parola. «L’intimità da raccontare in versi coincide con il culto della poesia, e in primis della poesia d’amore, liberata dai cascami dell’ideologismo o dagli imperativi categorici dell’impegno politico a tutti i costi, e che quasi pretende di ripartire da Arnaut Daniel, da Guido Guinizzelli», ha scritto Sebastiano Triulzi nella prefazione a un’edizione digitale dei «Sonetti» che potete trovare facilmente con un motore di ricerca.
E dopo questo, ci sarebbero le antologie: la «Poesia degli anni Settanta» di Antonio Porta (Feltrinelli 1979, si trova di seconda mano), la più recente «Parola plurale» (Sossella 2005, non si trova neanche di seconda mano). Poco utile «Poeti italiani del secondo Novecento» (Meridiani e poi Oscar Mondadori) a cura di Giovanardi e Cucchi. Ma poi, via, per esplorare il presente ci sono gli scaffali delle librerie. Se le librerie tenessero a scaffale i libri di poesia.
Lettore: «Mozzi, lei qui ci ha propinato una scelta molto opinabile, e comunque tutta centrata sulla questione “lingua della poesia” versus “lingua della prosa”.
Mozzi: «Sì».
Lettore: «Si potrebbero facilmente fare altre liste, seguendo altri crieri».
Mozzi: «Sì».
Lettore: «E dunque?».
Mozzi: «Faccia la sua lista, la leggerò con piacere; e probabilmente imparerò qualcosa».
Qui sotto: un ritratto fotografico di Pietro Jahier.
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