Il saggio di Leonardo Terzo (CRITICA.Ridare funzione politica alla poesia: leggere attentamente le istruzioni) è d’alto livello teorico e merita, com’egli chiede, un commento non superficiale. Qui sotto espongo il mio. L’intento: dichiarare lealmente e spero senza forzature i punti (pochi) sui quali concordo con lui e quelli sui quali sono perplesso o in disaccordo. Sarò stato forse troppo analitico, ma la fretta oggi di moda è nemica dell’intelligenza e, per quel che posso, la rifiuto. Chi non ha tempo da perdere e vorrebbe ridotti a spot questi argomenti, passi ad altro.
1. Concordo con Terzo in pieno su un punto: la forma è anche significato. Più semplicemente: non si può leggere una poesia badando solo al contenuto, a ciò che esso significa nella comunicazione corrente. Il modo in cui certe cose (o contenuti) vengono dette o scritte (quelle scelte lessicali, quella metrica dei versi, quelle rime esplicite e no, quei suoni, quegli accenti, quel ritmo dell’insieme) significano, aggiungono altro. Questo altro va colto, costituisce parte integrante della poesia e non lo si ritrova in un saggio in prosa o un articolo di giornale che riferissero le medesime cose. Concordo pure, in parte, quando afferma che:
«il lettore di poesia dovrebbe entrare nella dimensione poetica e sospendere la pretesa di una diretta referenzialità, per ricevere quella comunicazione speciale che lo compensa dello sforzo, gratificandolo con il piacere di una conoscenza fino allora impensata, espressa in una musica inaudita. Questa comunicazione cifrata e fino allora inedita e segreta potrebbe essere sia rivoluzionaria sia conservatrice in termini di ideologie referenziali vigenti, ma sempre sovversiva appunto perché è, per sua natura, “cultuale”, nel senso che è capace di rivelare uno spostamento di visione in un’altra prospettiva. Una prospettiva che, partendo dal linguaggio, dalle tecniche, dalla costruzione di nuove forme del contenuto, rivela, spiazza, sovverte, oppure anche conferma, ma produce comunque il proverbiale “shock del riconoscimento”, cioè fa capire ciò che magari sapevamo già, ma non eravamo così limpidamente coscienti di sapere».
Perché in parte? Perché, sì, la forma diventa (o è) significato, ma i modi in cui lo diventa (o è), i modi attraverso i quali il significato prende forma, sono tanti, variano di continuo per l’intervento di innumerevoli e complessi fattori, che riguardano il testo, l’extratesto, l’autore e i lettori. Essere capaci di attenzione verso la forma di una poesia è solo uno dei passi, necessari ma non sufficienti per intenderla davvero. Altri passi indispensabili riguardano anche il contenuto e il rapporto che in quel testo si stabilisce tra contenuto e forma. Voglio dire con questo, in contrasto con certe letture dominanti ancora oggi soprattutto negli ambienti universitari, che la squalifica o la diffidenza da parte degli “esperti” nei confronti di poesie, nelle quali il contenuto appare più in vista e la forma pare vicinissima al linguaggio comune o alla prosa (mettiamo per questo blog la mia Cronaca di performer che ha suscitato l’indignazione di Terzo o alcune di Eugenio Grandinetti) è al minimo sospetta. Altrettanto prevenute e discutibili sono molte critiche verso le letture del testo dichiarate “ingenue”, “rozze”, “contenutistiche” e di solito censurate per far diventare canoniche, obbligatorie, “migliori” quelle formalistiche (più o meno esclusivamente attente alla forma). Direi dunque che per me i primi passi per intendere una poesia debbano essere fatti sia in direzione della forma che in direzione del contenuto. Non si può avanzare con un piede soltanto. Fatto, dunque, il primo passo, che permette al lettore di distinguere una poesia da un articolo di giornale, accordata (senza esagerare come fanno i formalisti) la giusta attenzione alla forma, si fa anche l’altro per intendere bene il contenuto. Subito dopo ci si addentra in un terreno pieno di spinosi problemi e di possibili interpretazioni del testo e di come gli artisti o i poeti hanno trasformato o “trasfigurato” quei «materiali che appartengono a tutti gli altri campi della realtà umana» (Terzo). E il discorso porterà anche lontano, ma esso va condotto con pazienza e coraggio. Non ci sono ricette. Abbiamo spesso concordato anche sul fatto che oggi non ci sono – bene o male che sia – canoni. La discussione dovrebbe essere perciò senza paletti e senza “scomuniche”.
2. Contrasta il formalismo, cioè un’eccessiva o unilaterale o esclusiva sottolineatura dell’importanza della forma, come tendo a fare io, non significa che mi sfugge «la natura e la fecondità» della comunicazione non piattamente referenziale di poesia o arte. I rischi nella ricerca poetica o artistica sono per me due: l’eccessivo contenutismo e l’eccessivo formalismo. Non uno solo. Non posso accettare che la comunicazione artistica e poetica che si mostrasse più attenta alla forma sia necessariamente o automaticamente e sempre feconda. Essa è, come il linguaggio, strutturalmente ambigua e ciò rappresenta il suo momento di forza ma anche di rischio. Come ha ricordato in una mail recente Giorgio Mannacio: «Le parole svelano le cose? Certo. Ma anche le nascondono». Questo vale tanto più per la poesia o l’arte o la letteratura che, come ricorda Terzo, è «una comunicazione per così dire “cifrata”, cioè ambigua e polisemica». Perché allora dovrebbe essere automaticamente feconda? Potrebbe essere anche sterile. Terzo non si sofferma a sufficienza, secondo me, su questa ambiguità. Non l’interroga a fondo in tutte le sue implicazioni non solo estetiche, anche se allude a varie ambiguità «nella pratica» o ai condizionamenti del «contesto sociale e ideologico» o riconosce (a differenza dei formalisti puri o fanatici) che «arte e ideologia non sono sfere irrimediabilmente separate e antagonistiche» o che «la letteratura e la dimensione estetica possono prestarsi all’utilizzazione politica o resistervi» o che «l’autonomia estetica può essere mistificata come sfera trascendentale, indipendente dal suo contesto storico» o che una stessa opera possa essere letta «sia da posizioni conservatrici che da posizioni radicali»:
Nella pratica si verificano tuttavia tante occorrenze diverse. I giudizi estetici, necessariamente condizionati dal contesto sociale e ideologico, possono essere sottoposti a confutazione e revisione, ma i criteri estetici non sono completamente arbitrari, così come arte e ideologia non sono sfere irrimediabilmente separate e antagonistiche. Di solito sono miste e di volta in volta l’arte o l’ideologia possono essere dominanti a seconda delle scelte prioritarie dei gruppi sociali. Egualmente la letteratura e la dimensione estetica possono prestarsi all’utilizzazione politica o resistervi. Oppure l’autonomia estetica può essere mistificata come sfera trascendentale, indipendente dal suo contesto storico. D’altra parte, la complessità e la difficoltà interpretativa si prestano a de-familiarizzare la cornice ideologica entro cui operano, ma sia da posizioni conservatrici che da posizioni radicali.
3. Chi invece, a mio parere, ha riflettuto a fondo e in maniera più convincente sull’ambiguità della forma (in poesia, nell’arte) è stato Franco Fortini, nome del resto non a caso tanto spesso da me richiamato in questo blog. Ho riletto per l’occasione un suo scritto, Poesia e antagonismo (pag. 199 di Non solo oggi, Editori Riuniti 1991). Egli qui introduce immediatamente un sano (per me) elemento di sospetto rispetto alla forma e in contrasto con la dialettica negativa di Adorno sostiene:
«è insufficiente attribuire, come Adorno fa, alla “forma” della poesia (lirica) un’autenticità e una innovazione che sarebbero eversive nei confronti del linguaggio logorato e della vita in autentica».
Terzo mi pare riecheggiare proprio Adorno, quando scrive:
«Il compito specifico del discorso letterario è operare al livello inventivo e immaginativo dell’originalità: se non è formalmente innovativo non è politicamente efficace, e neanche politicamente corretto».
Oppure:
«Ecco quindi che la letteratura, proprio perché è fatta del linguaggio usato anche in tutte le altre funzioni, incide più chiaramente delle altre arti sulla nostra filosofia di vita, e dunque su tutti i nostri atteggiamenti, anche etici e politici. Ma lo fa attraverso la bellezza, perché senza la bellezza la poesia è una pistola caricata a salve.».
Oppure:
[Una poesia o un’opera d’arte] «è capace di rivelare uno spostamento di visione in un’altra prospettiva. Una prospettiva che, partendo dal linguaggio, dalle tecniche, dalla costruzione di nuove forme del contenuto, rivela, spiazza, sovverte, oppure anche conferma, ma produce comunque il proverbiale “shock del riconoscimento”».
4. Perché mi sento più vicino alla posizione di Fortini? Per varie ragioni: Fortini non si limita a un discorso puramente o esclusivamente estetico su quel complesso “oggetto” che è una poesia o un’opera d’arte; è più attento a indagare l’”impasto” ambiguo di storia, ideologia, immaginario, che forma una poesia; non sottrae al lettore comune (che non sempre è “fesso”, “ingenuo”, “profano”, ma a certe condizioni spontaneamente critico e indagatore curioso) l’interpretazione di un testo per consegnarla ai reali o supposti “specialisti della forma”, dai quali il lettore dovrebbe dipendere; non concede al poeta o all’artista un “lasciapassare”, una sorta non dico di impunità, ma di irresponsabilità etico-politica-conoscitiva. Mentre a me pare che Terzo, quando dice: «Il compito specifico del discorso letterario è operare al livello inventivo e immaginativo dell’originalità: se non è formalmente innovativo non è politicamente efficace, e neanche politicamente corretto», propone come unico o prevalente obiettivo della comunicazione poetica o letteraria o artistica l’«originalità» della forma. Esenta così il poeta, il letterato, l’artista dalla preoccupazione o dal compito – attenzione! – non dell’impegno (o dell’impegno politico, di cui dirò più avanti), ma da ogni verifica della politicità che è intrinseca all’uso sociale e politico dei linguaggi (di tutti i linguaggi) compresi quelli poetici, artistici e letterari. Raggiunta una forma innovativa, ne discenderebbe per Terzo che il discorso letterario (o una poesia o l’arte) avrebbe in teoria le “carte in regola” per diventare «politicamente efficace». Poi, se non lo diventa, questo dipende più dai lettori che dall’autore. Per me no: il nuovo, l’originale in poesia o in arte non è di per sé automaticamente positivo o politicamente efficace. È semplicemente nuovo. È semplicemente originale. Non è detto cioè che novità o originalità o bellezza o autenticità raggiunte in poesia o nell’arte costituiscano un valore quasi assoluto che sfugga di per sé all’ambiguità strutturale della poesia. La poesia o ’arte non riesce a fare tale “miracolo”. Resta solo «promessa di felicità» e, come si sa, le promesse possono aleggiare nel vuoto per secoli e indurre effetti narcotici.
5. Ecco perché c’è da insistere di più sull’ambiguità della forma. Non basta raggiungerla. Bisogna interrogarsi su che tipo di forma è stata raggiunta e che funzione ha e che uso essa stessa già induce o suggerisce. Perché non è neutra o univoca. Proprio perché ambigua e perché invia ai lettori un messaggio polisemico e – aggiungo con Fortini – contraddittorio. Proprio perché è un “assaggio” (promessa) di felicità ma non è felicità. E poi va considerata l’ambiguità degli stessi lettori, che comunque la percepiscono (quando effettivamente ci riescono) attraverso altri filtri distorcenti: quelli della loro ideologia di riferimento o dell’immaginario che hanno ereditato. Ideologia e immaginario dei lettori interferiscono parecchio con il processo conoscitivo “normale” previsto dagli specialisti. Normale non lo è quasi mai. In quanti casi avviene? Cosa vede in Guernica un professore di storia dell’arte e un turista di una comitiva di massa o un turista europeo o un turista giapponese o africano? Davvero, come sostiene Terzo, una poesia o un’opera d’arte è sempre capace di «rivelare uno spostamento di visione in un’altra prospettiva»?
6. La fiducia nella potenza della forma mette, secondo me, sullo sfondo o oscura troppe cose che finiscono per addolcirne o occultarne l’ambiguità. Basti pensare al fatto stesso che i giudizi (solo) estetici, pur non essendo completamente arbitrari, sono «necessariamente condizionati dal contesto sociale e ideologico» e «possono essere sottoposti a confutazione e revisione» (Terzo). Oppure agli effetti derivanti dal fatto che «arte e ideologia non sono sfere irrimediabilmente separate e antagonistiche» (Terzo). O che «la letteratura e la dimensione estetica possono prestarsi all’utilizzazione politica o resistervi» (Terzo). O ancora al fatto che «la complessità e la difficoltà interpretativa si prestano a de-familiarizzare la cornice ideologica entro cui operano, ma sia da posizioni conservatrici che da posizioni radicali» (Terzo). In quest’ultimo caso è come dire che la cornice ideologica di un testo non viene mai del tutto meno e che l’opera può essere tirata sempre da una parte o dall’altra da critici e lettori comunque sotterraneamente spintonati anch’essi dalle loro ideologie e dai loro immaginari: essere, dunque, valorizzata ora per i suoi elementi “conservatori” ora per quelli “innovatori”.
7. E allora preferisco chi, come Fortini, mi mette la pulce nell’orecchio. In maniera decisa egli insisteva sul fatto che la forma – anche quando è o proprio perché è forma (e quindi efficace, coerente con il contenuto, magari anche “bella”) - non smette mai di avere a che fare con un universo ideologico e storico pervaso dal conflitto; è comunque essa stessa impregnata di tale conflitto; e, proprio perché vi può alludere comunque solo in modo ambiguo, suscita reazioni diverse e prevede letture diverse, tutte da considerare e valutare. Per questo diffido soprattutto dei “formalisti puri” (Terzo non mi pare che lo sia davvero) così propensi ad autonomizzare in assoluto la forma (la poesia o addirittura la Poesia) dal resto, da ciò che forma non è, da ciò che non raggiunge la forma, da ciò che va messo da parte o cancellato o rimosso o dimenticato perché ci sia forma. Fortini diceva con chiarezza estrema sia che la forma è ambigua sia che, di conseguenza (e non solo per processi soggettivi del lettore) essa suscita due modi di riceverla, di leggerla che egli giudicava entrambi «fondamentali e antagonisti» e che, mutuando i termini da Hegel, chiamava signorile e servile. Il primo, diceva Fortini, legittima l’esistenza formale (fa della forma l’elemento centrale). Il secondo, quando non la nega del tutto (nei casi più “ingenui” o “rozzi”, quando si fa confusione tra arte e vita, politica e poesia), chiede soprattutto «messaggi e non forme». Perciò i lettori della poesia, quelli “ingenui” e quelli “raffinati”, hanno per lui – ripeto - due atteggiamenti entrambi significativi («fondamentali») e non facilmente conciliabili («antagonisti»): c’è chi bada al contenuto (o di più al contenuto) e chi «contempla il gioco della superficie verbale» (o soprattutto questo). E questo dissidio fondamentale e antagonista lo vivono, credo, gli stessi poeti.
8. A differenza di Terzo (ma anche di Adorno) che sembrano voler quasi espungere la «referenzialità» dal testo poetico o la considerano secondaria, per cui più l’artista è innovatore quanto più da quella referenzialità (storica, sociale, politica, ecc.) si distacca, Fortini riconosceva (meno dogmaticamente, meno partigianamente, meno corporativisticamente, pur essendo stato un critico letterario di valore riconosciuto) il valore e il limite di questa ambivalenza intrinseca della poesia (e dell’arte) e la legittimità e problematicità delle due letture (signorile e servile) che la storia della società in un certo senso continua ad imporre e dalle quali non è facile liberarsi. Egli manteneva aperto e approfondiva il discorso là dove Terzo lo interrompe per predilezione dell’estetica e del formalismo. E non a caso mentre Terzo chiede il rispetto del “privilegio” della comunicazione artistica, Fortini vedeva uno dei segni di grandezza di un’opera di poesia e d’arte nella capacità di scartare gli “amici della poesia” (gli esteti) e di puntare ai suoi “nemici” apparenti, cioè a quelli che s’aspettano «messaggi e non forme». Non accettava per questo il loro “rozzo pregiudizio”, ma come poeta e come critico si assumeva in pieno il compito di misurarsi con la dimensione non-letteraria e non-poetica, con la pressione”barbarica” che mette in discussione i propri otia:
«Chi ha valutato positivamente quella pressione “barbarica” (Goethe tutti i classicismi) ne ha tratto che esistono “soggetti” buoni o cattivi, temi e forme di “destra” o di “sinistra” e che l’esito formale, l’intima coerenza eccetera non sono il criterio dell’eccellenza ma solo una sua frazione» (Poesia e antagonismo, in Non solo oggi, p. 204) [sottolineatura mia].
Terzo in modi professorali tende a chiudersi proprio almeno a un certo tipo di pressione “barbarica”, a ridimensionarla se non a demonizzarla. Fortini, invece, richiamandosi ad Hegel e ricordando che per il filosofo tedesco «la vita può mantenersi solo in prossimità della morte», sosteneva non una semplicistica separazione tra arte e vita, ma una tensione continua tra poetico ed extrapoetico ( tra arte e vita, tra arte e politica):
«Il discorso poetico può mantenersi solo se accetta la propria continua contestazione compiuta dal discorso extrapoetico ossia da una lettura comunicativa-pratica» (Poesia e antagonismo, in Non solo oggi, p. 205)
9. Mi chiedo a questo punto: la consapevolezza di un problema (non si tratta di un dovere o di un compito che dall’esterno viene imposto o proposto ai poeti, il riconoscimento dell’ambiguità radicale dell’arte e della poesia, è un vantaggio per chi la possiede (per esperienza e non per via libresca) o un’inezia trascurabile? È la stessa cosa per un poeta o un critico maneggiare un qualcosa (la poesia), che egli sa ambigua (perché permette di dar corpo a fantasmi, che però possono imprigionarci; perché ci fa sognare ma ci distacca dal mondo reale) o per chi la considera solo uno strumento per condurre un gioco che si presume solo piacevole, liberatorio o perfino “sovversivo”? La de-realizzazione della società dello spettacolo oggi pienamente affermatasi anche da noi Terzo pare sottovalutarla. I “nemici della poesia” per lui pare vadano cercati esclusivamente tra quelli che vorrebbero «ridurre la letteratura a diretta espressione degli interessi e delle ideologie» (che - bisognerebbe invece dire – vorrebbero spingerla verso la “realtà”, collegarla o tenerla in contatto con la realtà, la vita sociale o politica). Li vede soprattutto in quelli che “s’attaccano” ai contenuti e mai in quelli che privilegiano eccessivamente la forma fino a interrompere o minimizzare i rapporti tra poesia e “realtà”. Un atteggiamento che a me fa pensarer a don Chisciotte quando scambiava i mulini a vento per giganti. Anche perché non siamo più negli anni del neorealismo o della militanza sessantottesca, quando ci furono eccessi contenutistici che in parte potevano giustificare le sue attuali preoccupazioni.
10. Ed, infatti, il discorso dell’”impegno in poesia” o del «ridare funzione politica alla poesia» è oggi appena un balbettio. Affannarsi come fa lui a somministrare «istruzioni» in merito appare davvero sospetto, quasi un fuoco di sbarramento preventivo contro una possibile prospettiva di ricerca che potrebbe sfuggire alle secche del formalismo. Pongo allora un problema: fosse in gestazione una tale prospettiva, essa dovrebbe prendere a modello o riallacciarsi ai vecchi discorsi dell’”impegno” (in poesia, o nell’arte) o alla tradizione della “poesia civile” o “politica” del passato? Rispondo subito di no. Non è più “l’impegno” a favore di un partito o di una ideologia che oggi possa essere rispolverato e riproposto. Semmai c’è bisogno di tener conto della rigorosa critica dei limiti e degli equivoci affiorati sia nelle esperienze sviluppatesi dopo il 1945 (neorealismo) sia di quelle attorno al ’68-’69 e, al contempo, di capire quale esigenza positiva fu allora affossata e se sia possibile e in che modo individuarla nel presente e farla maturare. Ma il balbettio prevale, purtroppo.
11. Consideriamo quello che a me pare un rigurgito improvvisato e arruffone della “poesia dell’impegno”, e cioè la recente iniziativa dei poeti di «Calpestare l’oblio. Cento poeti italiani contro la minaccia incostituzionale,per la resistenza della memoria repubblicana» (i testi sono leggibili da questo link). Qui vedo il limite fondamentale che sembra perpetuarsi dalle esperienze di allora a quelle di oggi. Un certo numero di poeti, dopo lunghi anni di “sonno della ragione” anche poetica (orfismo, “parola innamorata”, minimalismo), si sono d’un tratto risvegliati dai loro giardinetti poetici corporativo-intimistici-formalistici e, ammucchiatisi attorno a un generico antiberlusconismo - già dimostratosi da qualche decennio del tutto succube a Berlusconi e al ben più complesso sistema di potere che a lui fa capo o che di lui si serve, anche quando sembra fargli opposizione - hanno scritto ciascuno per l’occasione, creata dai promotori “di sinistra” dell’iniziativa, una o due poesie (o ne hanno scelto tra quelle già scritte) e le hanno poi assemblate in un libretto. Non m’interessano qua i nomi, la qualità dei singoli testi, il genere più o meno “civile”. Mi colpisce l’assemblaggio muto dei testi. Nessuno si è interrogato o ha discusso sul senso politico dell’iniziativa o l’ha delineato, che so, in un documento o una prefazione. La spruzzata di "militanza" è ridotta al titolo. Tutto qua. C’è poco da esultare. Se in passato la “poesia dell’impegno” pretendeva una sorta di “mandato sociale” della classe o del popolo, che risultò poi al massimo un mandato di partito (o della Commissione Cultura di un partito), oggi l’adesione è più “libera”, individualistica e generica. Si aderisce a uno slogan e il pensiero politico dei partecipanti resta in ombra o abborracciato o comunque inverificato. Non si costruisce così nessun io/noi capace di pensare politicamente in modo autonomo e ragionato e d’indicare al contempo la politicità di un nuovo linguaggio della poesia.
12. Non voglio dire però che la “poesia dell’impegno”, già a suo tempo corretta in «poesia critica»
(Fortini, Majorino), sia stata una cosuccia del tutto insignificante. Ebbe sicuramente limiti interni di poetica: eccesso di contenutismo; ingenuità (o malafede) nel pensare che un’emozione forte, un evento eccezionale, mettiamo pure l’orrore storico, producano di per sé, in automatico, poesia e cioè trovino la forma giusta, innovativa,attraente, impensata per fare arrivare a un pubblico politicamente motivato un contenuto “importante” o scuotere/rinnovare l’istituto della poesia. Ci hanno poi spiegato “giustamente”, ma da pulpiti universitari sempre troppo pronti a bersagliare con un surplus di dottrine d’avanguardia ogni tentazione plebea dei “poeti sociali” (alla Scotellaro per intenderci) che la “poesia dell’impegno”, per quel suo eccesso contenutistico, trascurava “la forma”, il lavorio creativo sul/del linguaggio, che permetterebbe invece (sempre? e con quali svantaggi?) il raggiungimento della mitica (per i letterati e i critici) «qualità estetica» e lo rende veicolo di un di più di emozione, di pensiero, di piacere estetico. E posso concordare sul fatto che, anche per tali carenze, essa non fu in grado di ottenere quell’effetto politico (comunicativo, persuasivo, pedagogico, di agitazione, di esortazione, di edificazione) cui miravano i suoi fautori. Eppure un merito glielo riconosco: coglieva nel segno nel porre un’urgenza, nel dire: occupiamoci della realtà, non abbandoniamoci soltanto al sogno (e al sogno per pochi). In effetti, la “poesia dell’impegno” tentava di aprirsi a qualcosa (la realtà, i comportamenti sociali, la natura, la storia) che spesso era rimasto esterno all’habitat mentale dei poeti-letterati. Ma se si giudicassero quei poeti anche sul piano ideologico, politico, filosofico, verrebbe fuori che furono deboli nello scavare quella “realtà” che pur pretendevano, in competizione coi poeti ermetici o intimisti, i quali opportunisticamente la rimuovevano, di conoscere o far conoscere al pubblico (alla “classe”, al “popolo”). In troppa poesia “impegnata” di allora l’impegno restò un’infarinatura della solita anguilla cucinata dell’ermetismo. I poeti “impegnati” non s’industriavano in tutti i modi possibili, in proprio, direttamente e con sforzo e vivendolo nel loro pensiero e nella loro pratica anche poetica, per pensare in poesia l’orrore, il conflitto, la lotta di classe, la guerra, lo scontro tra ricchi e poveri, la politica, le teorie sociali. I loro avversari (politici e formalisti) preferirono attaccarli soltanto su uno dei loro punti deboli. Gli gridarono: voi “impegnati” fate propaganda, scivolate nella retorica, non raggiungete la forma, la poesia. Ma sorvolavano sul fatto che gli “impegnati” alla retorica si abbandonarono (o si abbandonano oggi), perché si erano accontentati e si accontentano di farsi passare spiccioli di pensiero politico avariato da altri, dai “professionisti della politica”.
13. È giustificata allora l’insistenza di Terzo su quanto sia «complicato» il rapporto dell’arte con la politica? (Ma perché solo con la politica? E coi sentimenti? E con la “realtà” in generale?). O il suo allarme contro la «facilità di commistione e confusione» tra arte e politica? O la sua richiesta che la poesia venga, sì, «inserita nella pratica comunicativa», ma - ohibò! - «mantenendo però i suoi privilegi» (e senza chiedersi da dove essi nascano o quanto siano legittimi)? A me pare che, sì, il rapporto sia davvero difficile, Ma la possibile uscita dalle difficoltà non la vedo nella direzione che egli sembra indicare. Non un filtraggio tutto estetico della realtà (del sociale, della politica) mi sentirei di proporre, ma un’assunzione critica sia di contenuti politici non generici sia di forme con quelli coerenti.
14. «Una riduzione agli effetti politici immediati priverebbe la letteratura del suo distinto modo di significazione» (Terzo). Giusto. Sgombriamo il campo da quest’equivoco. Diciamo chiaramente che non vogliamo, anzi non possiamo, ridurre affatto l’arte a «effetti politici immediati». Se fosse possibile, vedremmo tutto il ceto politico agitarsi per rubarci il mestiere e scrivere poesie invece che sbrodolare o farfugliare menzogne. Resta il problema vero e non affrontato della politicità della poesia, che - uso qui parole di Terzo - «l’arte potrebbe aggiungere all’interpretazione della vita e al pensiero politico stesso». Invece di discutere questo problema, oggi ci si adagia su rassicuranti luoghi comuni. Mi si dimostri, per favore, che letterati o poeti, che dichiarano di lavorare sul «metalinguaggio» o di riflettere «criticamente sui mezzi espressivi», lo abbiano fatto o lo facciano davvero e con buoni risultati o che abbiano reso «problematico il significato referenziale, invece di limitarsi a trasmetterlo». E se, invece, si fossero limitati a coltivare il «privilegio» di una comunicazione “cifrata”? Non abbiamo esempi in giro di poeti e scrittori “scansafatiche”? Dobbiamo credere sulla parole a tutte le loro buone intenzioni? Si faccia l’elenco di tutti i poeti «formalmente» innovativi e «politicamente» efficaci. E controlliamo la consistenza della loro innovazione e la loro efficacia politica. Terzo nella sua furiosa battaglia contro i “contenutisti” (il nemico pubblico numero uno per lui) sembra dimenticare che la «iperfunzionalità comunicativa» della poesia o dell’arte viene sterilizzata non solo attraverso una sua «riduzione agli effetti politici immediati», ma in tanti modi, spesso più sottili e indiretti da un sistema massmediale che le ha strappato il terreno sotto i piedi e attira come il pifferaio magico il pubblico verso “ipocomunicazioni” ( gossip, porno, etc.) ben più riduttive.
15. Io non accetto più come indiscutibile neppure quella «sorta di patto fruitivo», per cui lettori e spettatori «”sospendono l’incredulità”». Cosa succede davvero oggi in quest’operazione, quando la fa un pubblico sempre più culturalmente allo sbando, quasi “barbaro” e addestrato in mille modi e in mille occasioni da un apparato mediatico menzognero a “sospendere l’incredulità”? Non ci siamo fin troppo abituati a quest’operazione a senso unico e non sempre dimostratasi catartica, come si pensava in tempi antichissimi ormai? Non è che, accettato il «patto fruitivo», i lettori o gli spettatori incappino in un’esperienza in superficie o inconsciamente piacevole («il piacere di una conoscenza fino allora impensata, espressa in una musica inaudita») ma de-realizzante e oggi, nella società dello spettacolo addirittura nociva? E davvero in questa situazione, come Terzo sostiene, la poesia o la letteratura, purché “bella”, «incide più chiaramente delle altre arti sulla nostra filosofia di vita, e dunque su tutti i nostri atteggiamenti, anche etici e politici»?
Ritengo più scetticamente e non minor pathos che nella dimensione della poesia (questo «ragionamento fatto in presenza di un sogno» secondo Fortini) si debba, sì, saper entrare, ma anche saper uscire. (Benjamin diceva che bisognava imparare anche a lasciare i sogni…). «Sospendere la pretesa di una diretta referenzialità» può diventare anche una cattiva abitudine, un vizio, una propensione a rimuovere altri bisogni non trascurabili. Perché tali bisogni sono tenuti o dovrebbero essere tenuti fuori dal «culto» della poesia e non dovrebbero anzi metterlo in discussione, magari trasformarlo, evitando che la poesia resti o diventi, come diceva Fortini, «vino dei servi»? E sempre con Fortini nego che la poesia o l’arte o la letteratura sia «sempre sovversiva», come Terzo sostiene. E proprio perché è, per sua natura, “cultuale”, e cioè «è capace di rivelare uno spostamento di visione in un’altra prospettiva», ma anche di ingabbiare – come la religione – in una illusione. (Tanto più che le penose o mediocri condizioni delle nostre vite sollecitano di continuo le nostre illusioni, non sempre quelle vitali e produttive di Leopardi, per intenderci). No, una poesia fomentatrice di illusioni non va.
16. Terzo, dopo aver dichiarato che «la contemplazione estetica implica […] non solo un piacere sensibile e una comprensione intellettuale, ma anche un’aura di ammirazione estatica e di trasporto emotivo assimilabile appunto al culto», fa finta di non capire «l’accusa di fare dell’arte una religione». Ma se la poesia ha avuto le sue radici nella magia e nella religione! E già ricordare, come lui fa, il legame tra contemplazione estetica e «aura di ammirazione estatica e di trasporto emotivo assimilabile appunto al culto» è alludere al sotterraneo e ancora oggi attivo legame tra arte e religione. Lo rimando ancora a un passo dell’intervista di Fortini, Cos’è la poesia, che ho commentato su questo blog:
Chiunque legga una poesia, indipendentemente dal suo grado di coscienza o di conoscenza culturale rapporta le parole a una sfera di competenza e di risonanza che non è soltanto linguistica ma che è di tutta la sua mente, di tutta la sua coscienza, di tutto il suo inconscio. Anzi questo avviene in un modo diverso, e possiamo dire, per certi aspetti, più profondo o più coinvolgente di quanto non sia per altre forme di comunicazione linguistica proprio perché è ambigua, proprio perché ha un’apparenza informativa, comunicativa e persuasiva che viene modulata, per dir così, in una forma. Questa forma diventa deformatrice del messaggio e lo rende risonante come avviene nel sogno, in cui certe figure, certi personaggi sono dotati di doppie identità. Questo potere è stato attribuito alla poesia da tutte le più remote e diverse tradizioni della poesia e tradizioni culturali, e questo spiega anche tra l’altro l’equivoco continuo che c’è tra la sacralità di tipo religioso e la funzione del poeta. L’idea che il poeta sia ispirato dalle muse o dall’inconscio o da qualche demone segreto o dalla divinità è qualcosa che effettivamente accompagna direi tutte le tradizioni perché vi è stata un’epoca nella quale la funzione della poesia era quella di comunicare con una zona oscura, esterna alla cerchia illuminata dal fuoco della tribù, nella quale e dalla quale lo sciamano, il sacerdote e il poeta, il cantore facevano pervenire, dicevano che pervenivano i loro messaggi.
17. Quando poi Terzo si avvia sulla strada di Kemeny, sia pur senza usare le maiuscole per Bellezza («senza la bellezza la poesia è una pistola caricata a salve», il mio timore è che la bellezza diventi un dogma e che non si cerchino altre vie, a prima vista “brutte” (considerate tali da chi ha una visione rigida della bellezza come valore appunto assoluto). La «produzione della bellezza» sarà anche, come sostiene Terzo, il fine specifico dell’estetica ma perché tout court del’arte o della poesia? Insisto. Ho un’idea troppo alta dei possibili compiti conoscitivi e profondamente politici della poesia (in minuscolo) per vederla ridotta o a «produzione della bellezza» o a propaganda politica immediata. Riduttivo mi pare obbligare la poesia a convivere stabilmente e quasi monogamicamente con la bellezza (o la Bellezza secondo Kemeny che ne fa un feticcio più di Terzo) o con la propaganda politica. No, non sono un rozzo o perverso innamorato del Brutto o della Bruttezza, ma neppure un infatuato della bellezza o della Bellezza (Cfr. Quarto dialogo sulla bellezza). Porre l’obbligo di convivenza stretta tra poesia e bellezza («senza la bellezza la poesia è una pistola caricata a salve») significa trascurare proprio che la poesia è una pistola caricata a salve e «regressione e autocompiacimento ideologico» possono nascere non solo da una brutta poesia ma anche da un bellissimo capolavoro.
18. Non riesco, infine, io a capire come si possa dire a Novecento concluso che «l’arte, e in particolar modo la letteratura, non appare davvero autonoma, come per esempio le scienze naturali quali la fisica, la chimica, ecc.». C’è forse da chiarire cosa intendiamo io e Terzo per ‘autonomia’. Non siamo certo più ai tempi della Controriforma. E poeti e artisti d’oggi, specie nei paesi “democratici” non devono sottoporsi ad esami preventivi di Tribunali dell’inquisizione o di Minculpop o di commissari del popolo. Ma i condizionamenti , le esclusioni, le autocensure avvengono in mille modi molto più sottili che in passato. E, senza stare qui a esemplificare, direi che potremmo concordare al massimo su una relativa autonomia della ricerca in generale. Anzi a me pare di poter dire che oggi l’arte e la poesia, proprio perché non assolvono più una funzione una volta importante (se non determinante) nella gestione del potere in una società, sono relativamente più autonome rispetto a scienze, quali la fisica, la chimica ecc., fortemente invece condizionate da finanziamenti statali o “privati”. A meno di non pensare che esistano ancora oggi puri e disinteressati scienziati in grado di condurre ricerche significative senza finanziamenti statali o di multinazionali o senza essere integrati (e perciò condizionati anche da privilegi concessi alle élites) nelle aziende scientifiche. Una visita anche da profani al CERN toglierebbe residue illusioni. Quindi la «commistione e confusione» con altri saperi e interessi politici e sociali vale sia per l’arte che per le scienze (un po’ meno per la poesia per quanto detto prima). Semmai questi saperi hanno statuti e linguaggi e obiettivi diversi. E concordo sul fatto che ambiguità e polisemia del linguaggio caratterizzino più arte e poesia e letteratura, mentre l’univocità del linguaggio è (tendenzialmente) preoccupazione dominante e caratteristica del linguaggio dei cultori delle scienze. (Cose del resto acquisite da una buona parte di quanti discussero di tali questioni nell’ultimo quarto del Novecento).
19. Concludendo. Tra i critici, secondo Fortini, almeno fino agli anni Settanta del Novecento, potevamo incontrare due tipi: quello che educava ad avere «vergogna della lettura rozzamente contenutistica ossia a privilegiare la lettura “poetica” o “formale” dei testi letterari e a insomma domare i selvaggi, che vogliono sapere… a che cosa e chi servono la poesia e l’arte e chi dei contendenti abbia ragione» ; e quello che, come il primo Fortini, seguiva le tracce di uno «speranzoso umanesimo, che della educazione alLa forma poetica faceva solo un caso della, e un itinerario alla, tendenziale formalizzazione dell’intera esistenza». Oggi il revisionismo anche in letteratura e poesia ha cancellato quasi questa seconda posizione e a me pare che il formalismo abbia preso tutta la scena (almeno a livello universitario). Bisogna contrastarlo. E contrastare il suo sogno di autonomia a tutti i costi della poesia e dell’arte.
3 commenti:
Ho letto con molto interesse il saggio di Leonardo Terzo e l’intervento di Ennio Abate. Entrambi in verità per vari aspetti molto interessanti e stimolanti.
Ecco come molto semplicemente vedo il problema del rapporto forma/contenuto.
Forma e contenuto sono - secondo il mio modestissimo parere - due aspetti dialettici di un unico fenomeno che chiamiamo ‘comunicazione in generale’, ma ancor più della particolarissima comunicazione che è quella poetica. Proprio perché questi due elementi - forma e contenuto - sono aspetti dialettici che realizzano la ‘comunicazione’, sono inscindibili: uno rinvia all’altro, uno è l’interfaccia dell’altro, uno implica l’altro. Ecco perché possiamo dire che la forma è comunicazione e il contenuto è forma.
Ma chiediamoci: questi due aspetti dialettici dove si realizzano, in quale superiore ‘realtà’ realizzano se stessi? Cioè dove e come avviene la loro sintesi? La risposta è facile e difficile allo stesso tempo. Immediatamente essi si realizzano nella ‘comunicazione’ , comunicazione che si invera infine nello spirito dell’uomo, cioè in una coscienza. Da qui in poi il problema dall’essere un problema puramente di ordine letterario evade e dilegua in altri campi (psicologia, ontologia, mistica etc.).
Se le cose stanno così, ecco che tutte le diatribe sorte attorno a questi due termini divengono diatribe non di primissimo ‘ordine’ ma diatribe di ‘contorno’ o di analisi che necessariamente - cioè per come è stato qui impostato il problema - non portano da nessuna parte nel senso che non può esserci un ‘riscontro’ definitivo del loro rapporto, così come per i numeri interi non ci può essere un numero che sia il più grande di tutti. Qualcuno, in un particolare periodo, può pencolare verso il versante formale adducendo validissime argomentazioni ma che presuppongono un punto di partenza privilegiato ma ‘esterno’ alla poesia, e qualche altro, nello stesso periodo o in altro periodo, può pencolare verso il versante contenutistico partendo da un altro punto di vista scelto a priori, cioè anch’esso privilegiato ed ‘esterno’ esso pure alla poesia. Ma non se ne esce, così come non si può capire dove va a finire la spirale di Archimede.
Resta bellissima e validissima l’affermazione di Leonardo Terzo secondo cui: “il lettore di poesia dovrebbe entrare nella dimensione poetica e sospendere la pretesa di una diretta referenzialità, per ricevere quella comunicazione speciale che lo compensa dello sforzo, gratificandolo con il piacere di una conoscenza fino allora impensata, espressa in una musica inaudita”.
Del resto nei 7/8 secoli di poesia italiana, riusciamo a trovare più di 7/8 poeti che restano perennemente vivi e ardenti? Non credo. Cosa voglio dire con questo. Voglio dire che il vero poeta non è mai mosso da circostanze esterne ed occasionali anche se queste ineluttabilmente sono presenti alla sua coscienza, ma è mosso da una superiore visione di cui è naturalmente dotato. Così come un grande albero plurisecolare cresce senza un’ “idea” che lo sospinga (ideologia) ma seguendo semplicemente la sua natura, il grande poeta ha dentro di sé, nel suo DNA, la potente visione della sua creazione e senza ‘basarsi’ sulle “idee” (ideologia) trova nel suo dire ‘forma’ e ‘contenuto’, Forma e contenuto che sono di quella particolarissima personalità, dunque inimitabili e irripetibili.
Perciò sarebbe bene, per comprendere quanto gran parte della poesia del Secondo Novecento sia basata sul nulla (idee), seguire il consiglio che dà Giorgio Linguaglossa (anche in omaggio alla bellissima affermazione riportata un po’ più sopra di Leonardo Terzo): “per uscire dalla vexata quaestio che non ci porta da nessuna parte: perché non proviamo a scendere dall'empireo delle teorizzazioni (e sono io che lo dico!) e atterrare sulla terra ferma delle opere e le sottoponiamo ad una analisi?”.
Matteo Bonsante
Ennio Abate:
Per chiarire il contesto del commento di Matteo Bonsante aggiungo la mail a me indirizzata di Giorgio Linguaglossa e la mia risposta.
Il 04/02/2011 08:53, Giorgio Linguaglossa ha scritto:
Caro Ennio,
tu sai che io sono un critico-teorico, ma di tipo speciale, perché diffido delle teorizzazioni in quanto il loro rischio è quello di situarsi sull'empireo e di restarci, diffido della critica del sesso degli angeli. Sì, il livello teorico di Leonardo terzo è di alto livello, ma anche le tue precisazioni colgono nel segno in più punti... ma io mi chiedo, per uscire dalla vexata quaestio che non ci porta da nessuna parte: perché non proviamo a scendere dall'empireo delle teorizzazioni (e sono io che lo dico!) e atterrare sulla terra ferma delle opere e le sottoponiamo ad una analisi? Come insegnava Marx è nel "concreto" che ci si divide, è il "concreto" che dobbiamo analizzare e criticare, è la critica del "concreto", e solo quella, che ci può condurre fuori dal cerchio magico del Bello e del Brutto, fuori dal "sortilegio" come diceva Adorno, è lì che si fanno i conti in tasca all'oste. I cibi per giudicarli per la loro bontà e bellezza o bruttezza (di gusto) dobbiamo prima mangiarli... altrimenti si ricade nelle dispute teologiche di chi teorizzando sull'arte culinaria si dimentica dei cibi che ha appena mangiato e dei vini che ha appena deglutito. Insomma, per farla breve, a me piace parlare dei cibi che ho mangiato e non del precotto e del decotto che ci propina il palazzo delle istituzioni del gusto. Ne vogliamo parlare?
Giorgio Linguaglossa
Risposta di Abate:
Caro Giorgio,
anche a me piace " parlare dei cibi che ho mangiato" e in questo caso ho parlato del cibo passatomi da Terzo (tra l'altro da lui cucinato anche per rispondere alla polemica "concreta" che ci aveva visto contrapposti a proposito di quel mio testo sulla rivolta in Tunisia)!
Se ci rifletti bene, nell'empireo delle sue teorizzazioni ci sono entrato per smontarle e appunto scendere al "concreto", "masticando" il suo saggio-"cibo" per giudicarlo. Ma, senza menare il can per l'aia o difendermi, e solo perché hai citato Marx, per quel poco che ho appreso sul suo metodo, vedi che lui al "concreto" ci arrivava attraverso il massimo di astrazione. Quelli che più di me l'hanno studiato, parlano per Marx di "astrazione determinata", sostenendo che Marx (questo credo di aver capito) proprio perché fu capace di porsi al più alto livello di astrazione studiando il capitale, senza farsi distrarre dalle forme empiriche con cui si manifestava nella sua epoca, riuscì a cogliere il suo "concreto" funzionamento (estrazione del plusvalore dal lavoro) che altri non vedevano. Io perciò non mi ritrovo così diffidente verso la teoria, come tu qui ti dichiari.
Ma per ora mi fermo qui. Spero di riparlarne in altra occasione.
Un caro saluto
Ennio
Loovely post
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