sabato 17 novembre 2012

Giorgio Linguaglossa
L’intensita’ innica di Chiara Moimas


In questi ultimi trenta anni il cinema è riuscito ad imporsi come modello di tecnica narrativa non solo nel romanzo ma anche in poesia. Il modo di raccontare le «storie» del cinema detta, implicitamente, la sintassi e i tempi dei modi di raccontare le «storie» sia nel romanzo che, in minore misura, anche nella poesia.
Il modo di raccontare di Chiara Moimas non è affatto semplice, né prevedibile, non è neppure troppo definibile; si ha la sensazione che non sia neanche collocabile temporalmente. Non lascia dietro di sé alcun filo di Arianna mediante il quale ripercorrere a ritroso la strada percorsa. È una poesia che si è dimenticata della modernità, forse perché la poesia non ha alcun bisogno di essere, o di apparire moderna, non ha alcun bisogno di facilitare al lettore il compito della lettura. È una poesia che parte dall’oblio del Moderno. E di qui si dirige, a vele spiegate, verso l’ignoto. Con la maschera della propria impenetrabilità. È il suo modo di offrirsi al lettore.
Il libro, stilisticamente omogeneo, ci consegna la fisionomia di una poetessa impegnata in una operazione che oserei definire di «restaurazione metafisica». S’intende che qui il termine «restaurazione» va inteso nel senso di una operazione di conservazione stilistica e di accrescimento stilistico, come il termine «metafisico» non indica qui un aggettivo ma una sostanza. La poetessa di Ronchi dei Legionari parte dal retaggio di ciò che in poesia è avvenuto durante gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, dalla presa di distanza dalla poesia al femminile impegnata in un tracciato di ricerca tutto «intimo», «privato», «effabile», «sublime» con il mobilio della propria privata dimora, con tutta la reflessologia degli affetti dell’«io». Col senno di poi, si può dire che la storia della lirica del Novecento è stata una cosa molto frastagliata e politropa, e anche contraddittoria, convulsa, contaminata da influenze extraliriche ed extraestetiche. Tutto si può dire della lirica italiana del Novecento, su di essa grava la pesante eredità di un secolo drammatico e convulso, grava infatti una pesantissima ipoteca: quella di essersi lasciata cullare dalla idea che fosse possibile fare una lirica pura (e un’antilirica spuria), quando Amelia Rosselli ed Helle Busacca chiariscono che non è ormai più percorribile la strada verso la pianura della lirica pura. Così, per quei sopravvenuti equivoci legati soprattutto alla  asfittica antitesi di lirica e antilirica, la cultura poetica italiana è rimasta legata a un’idea fallace e fuorviante di poesia, così che, com’è noto, nella poesia italiana del secondo Novecento hanno avuto il sopravvento quelle posizioni che teorizzavano e praticavano una «antilirica», ovvero, una lirica «contro», e quelle posizioni che praticavano una lirica rimodernata e ristrutturata tramite l’affoltamento del «mobilio dell’io».
Chiara Moimas è una poetessa di indubbia integrità. Forse è dato qui rinvenire una consonanza con le poetesse del tardo Novecento: Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna, Maria Marchesi, Laura Canciani che hanno optato per una strada tutta in salita, impervia forse, non facilmente comunicabile, non immediatamente spendibile. Che il «desiderio» sia stato un pessimo veicolo del pensiero forse è vero, come afferma Adorno, da Senofane ad oggi, ma è anche vero che esso ha costituito il corrimano ideale della migliore poesia femminile del Novecento a partire da La libellula (1965) di Amelia Rosselli e I quanti del suicidio (1972) della Busacca. Se «il mondo è migliore e peggiore dell’inferno», come scrive il filosofo tedesco, è quello che ci è dato, consegnato per la verifica dell’esistenza, con l’immanenza entro il proprio sortilegio che la converte in trascendente. Quel che altra poesia tende a demitologizzare, qui la Moimas tende a riconfigurare entro il tegumento inaccessibile del sortilegio.
L’elevazione poetica della poesia della Moimas (con la sua parentela con lo stadio genitale della sessualità), ripresa dall’ambito teologico, converte laicamente il teologico in linguaggio metaforico simbolico. Con ciò svuota il teologico nell’immanente.
La figuralità, il tono innodico e salmodiante, quasi liturgico, le atmosfere di queste composizioni risultano fuse in un universo monotonale e monodico, visionario e irreale; il lessico, che oscilla tra il prezioso e l’infimo, è stato sottoposto ad un intenso lavoro di disboscamento e di intensificazione; e così la gamma lessicale e tonale risulta fitta e circoscritta, rileva un «mondo» come sotto l’influsso di un sortilegio o di una lontana maledizione.
Il «male» non è chiamato mai con il suo nome, il «dolore» non è chiamato mai con il suo nome, perché non hanno nomi, o meglio, hanno una molteplicità di nomi e di referenze; la «disperazione» (l’ultima ideologia ancora vendibile sul mercato delle pari opportunità) non ha un nome proprio visti i desiderata innumerevoli di una poesia che soggiorna stabilmente nel regno della illibertà.
Ciò che recede diventa sempre più piccolo, e la metafisica si rifugia nei dettagli, nelle fessure tra gli oggetti e l’io, diventa la costellazione indecifrabile dell’esistentivo. L’«orrore» è chiamato, convocato tramite una astutissima regia mediante un rito magico numinoso, apotropaico, il suo nome è un senza-nome, è «il regno animale dello spirito» direbbe Hegel. Ma l’aspetto determinante direi che sono le pianure post-liriche che si distendono e si accavallano in locuzioni «astratte»: «Curricoli persi nei grandi / immondezzai del pianeta / languiranno torcendosi / in lenta combustione / liberando scorie nocive / tossiche esalazioni effluvi pestilenziali»; dove le immagini vengono accostate con una regia sapiente in guisa di chiasmo, ad incrocio e a strati sovrapposti; così, certe locuzioni espressionistiche («nella rete dei ragni / stoltamente planeranno / flotte di pipistrelli / sprezzanti / e scarafaggi potenti / adagiati sul guscio / offriranno la resa»; «foglie carnose / di candide ninfee / lascivamente distese / sopra specchi lacustri / al gracidare / notturno dei rospi») convivono con incisi marmorei («un guerriero dagli omeri forti»); ma l’aspetto determinante è l’intensità innica che si distende in locuzioni parenetiche, ottative, desideranti; dove le immagini vengono accostate con una regia sapiente in guisa di chiasmo, ad incrocio; così, certe locuzioni espressionistico surreali («Perduto il paradiso / nel fango delle guerriglie / tra crateri di atroci esplosioni / nell’inarrestabile liquame / che inghiotte le valli»; «Coinquilini graditi / ed invadenti / banchettano gli dei / su comodi triclini adagiati. Ai loro simposi / la tua presenza reclamano / camuffato da eracle o apollo»), convivono con incisi plastici («Scioglie le trecce Berenice / nel cupo del mare le immerge / sino a farne gomene servili / e Venere arrossa / e piangono lo Scorpione / e l’Ariete»).
Quel che salva il contenuto di verità di questa poesia è, forse, il suo essere privo di alcunché che somigli ad un contenuto di verità dell’esistentivo e della correlativa forma poetica. Non c’è davvero nulla da cui veritariamente accomiatarci e da cui prendere congedo, non c’è forse neanche un interrogativo al quale rispondere. È questa forse l’ultima parola che ci rimane.


                        Giorgio Linguaglossa


da “CURRICULUM VITAE”  di Chiara Moimas  Joker, Novi Ligure, 2012 

1)
CURRICOLI

Da gotici portali emergono
goffamente issati su zampe
di pteranodonte
incidono
passo dopo passo 
di orme stellate
l'argilloso terreno.
Conche
dove il piscio
di umanoidi ignari
si distende invitando
ad idilliaci sogni lacustri
dove foglie ripudiate
da venti vagabondi
galleggiano maldestre
otturandosi il naso.
Satolli di adiposi saperi
ancheggiano insicuri
nelle sale d'aspetto
nei deliranti corridoi
dove cigolano grida
sui cardini oliati
dove ammassa l'attesa
muschio sulle giunture
e la ruggine corrode
ingranaggi di complessi
pensieri. Spettri
di pianeti lontani
orge declamano
di inconfessabili teorie
imperscrutabili a chi
batte e ribatte
con ticchettio di pioggia
il tasto
del segno negativo.

Tremano con labbra riarse
da domande inevase
ed ali già vantano
di soprannaturale esistenza
code bifide a legarli
nei gironi infernali.
Morituri con glandi
turgidi pronti a fecondare
di sperma prelibato
preziosi calici di femmine
procreatrici. Stirpi elette
affogate nei pubblici
vespasiani e cordami
sbiaditi di DNA
legati a mediocri progenie
saldamente radicati
nelle incubatrici di alieni.
Impregnato l'etere
e l'aurora ne tracima
e lo zenit si offusca
di tanta plateale cognizione.

Sacri mostri preposti
a delineare con romanzate
verità la sudditanza
della  cavità cerebrale
arroganti scudisciano
le spalle ricurve.
Abiura. Rinneghino
questi miseri postulanti
l'ultimo volo libero
dello scontroso gabbiano
e corvo diventino dall'ala
spezzata.
Rinneghino felicità
nel desolante
quotidiano errare
e segni premonitori
attendano
forieri di desiderabili
supplizi.
Invertiranno l'orbita
i mondi ruotanti
e lapislazzuli in sciami
colpiranno l'autostima
agonizzante la fede
perirà nelle spire di serpenti
dai gangli tridimensionali.

Curricoli persi nei grandi
immondezzai del pianeta
languiranno torcendosi 
in lenta combustione
liberando scorie nocive
tossiche esalazioni
effluvi pestilenziali.
Ed ancora
ne incontreremo
avvinghiati dentro
tubi catodici
contorti
in spasimi agonizzanti
da strati di pece
ribollente sommersi.
Bolo malsano
nelle arterie delle nostre
telematiche vicende
nutrimento
di estatiche illusioni
rigurgito pronto
all'espulsione dentro
il rifiuto di sotterranee
odissee.
Chi ne fa scempio
chi da rupi sinistre
ne scaglia la voce implorante
chi con sadico ghigno
ne atrofizza il pulsare
avrà sterpi nel letto
e le palpebre accese nel sonno.

L'oscura Signora coperta
da pesante mantello
ritta sul ciglio
dell'unica strada
attende
reclamando il suo pegno.
Rintronerà la sua gola
di uno stridere acuto
uno arrider sguaiato
striscerà sulle volte
affrescate
del precario castello.
Nella rete dei ragni
stoltamente planeranno
flotte di pipistrelli
sprezzanti
e scarafaggi potenti
adagiati sul guscio
offriranno la resa.
Si farà umile
prostrato e servile
chi il comando teneva
come lenta lumaca
che strisciando
dissipa la bava.




2)
Alaba – Oluna - Hassan
ed il piccolo Amir
della piccola madre
nel ventre
accartocciati
dentro gusci di noce
smarriti
nelle nebbie salmastre
alle stelle si affidano
come naufraghi antichi.

Scioglie le trecce Berenice
nel cupo del mare le immerge
sino a farne gomene servili
e Venere arrossa
e piangono lo Scorpione
e l'Ariete.
Nomi smarriti
nei fondali scoscesi
senza una stirpe
che l'urna ne reclami.
Dimora troveranno
nelle spelonche delle murene
e nel giardino di casa
l'ancora di fantasiosi
velieri da crociera
calerà
come rostro nemico.



3)
Oh Mary Mary
minuta e fragile arrancavi
trascinando una piccola trolley
lungo l'impervia salita.
Limpido
imperversava il mattino
stridente
con la tua risoluzione
sordo al pigolio
dei passeri ammassati
sul ciglio della via.
Spalle spigolose
a trattenere
uno scialle trascurato
immobile
sotto la pensilina
della piccola stazione.
Chi  ha visto
l'ombra del tuo andare
emergere dalla solitudine
dell'orizzonte
ti ha pensata straniera
o disperata o meravigliosamente
impazzita.
Con te pochi oggetti
cianfrusaglie racimolate
nella breve esistenza.
Libri straripanti di parole
tazze vuote
e sciarpe da annodare
con i colori del baleno.
O Mary
non hai voluto
apprendere l'arte
dell'ingurgitare
le inutili cose
ti sei smarrita
passo dopo passo
tra  demoni
e tra castighi
di presunzione ricolmi
e di inservibile cultura.
Ingenua
nello sciorinare il sapere
hai blaterato
incomprensibili versi
di un qualsiasi baudelaire
nei momenti meno opportuni.
Mary
guardati attorno.
Sei immersa fino al collo
nel miraggio
del mondo perfetto.
Non lasciare
che ti sfugga dalle mani
la vacuità del tempo
la rarefazione
del sofferto pensiero.
Afferra la disdicevole
noncuranza come fosse
di Pegaso la criniera
e cavalca la schiena viscida
dell'ignoranza che docile
ti conduce al prato
delle meraviglie.
Da troppo tempo cammini
trascinando una valigia
malconcia ed obsoleta
avvizziscono i tuoi piedi
dentro scarpe consunte.
Mary
lungo un morto binario
procedi. Qui
non fermano i treni.




4)        
O  forse l'aurora  ribelle
slacciò la sua veste
e discinta mostrò
la tensione del ventre maturo.
Inarcò le sue reni
e trattenne
mordendo le labbra
il respiro.
Le candide cosce
arrossate dal sangue
divelto l' imene
nelle membra il vibrar
dell'atroce dolore
lo sconcerto nel ventre
del desolato abbandono.
Spinse con la forza
di zefiro amico
espirando il potere
del chiarore avanzante
brutalmente gridò
riportando
il mattino assonnato
a vegliare l'oriente.
Vagabonde e spensierate
accorsero le nubi
per offrire un giaciglio
tardive Perseidi
frenando la corsa
portarono brace.
Ti strinse
con mani inesperte
esangue l' aurora
ed impavida recise
con lama di luce
il cruento legame.
Con amorevole gesto
in un lembo dell'indaco
cielo ti avvolse
intonando la  nenia
che ancora
le allodole incanta
quando vinto
lucifero sbianca
e si spegne.





1 commento:

Anonimo ha detto...

Sembra scrittura a mosaico, dove i frammenti si riuniscono arrivando a comporre il continuum narrativo. Sono frammenti facilmente riscontrabili tra punto punto, e spiegano anche la ragione della brevità (forse ex-minimalista) dei versi. A mio avviso il linguaggio metaforico talvolta pone rimedio alla mancanza di inventiva. Mi piace quel Mary, al posto di Maria perché, a dispetto dei significati, è pop quanto una canzonetta. E per come la vedo io è divertente e benefico come solo i voluti errori sanno fare.
mayoor