RIORDINADIARIO
2011/ MOLTINPOESIA
di Ennio Abate
Se
sto su una spiaggia affollata da molti bagnanti e vedo una persona
che sta per affogare, mi rivolgo ai pochi a me vicini, che mi possono
sentire e darmi una mano. Non alla folla lontana e distratta, alla
quale le mie grida non arrivano o giungeranno incomprensibili. Per
questa scelta qualcuno mi potrebbe mai accusare di aver voluto
rivolgermi a pochi con l’intento di «creare nuove élites»?
L’immagine
che ho della poesia oggi è proprio questa: una persona che sta per
affogare. Tutti noi vorremmo salvarla. Io però vedo attorno molta
agitazione, troppa confusione. E non m’illudo che alla (difficile)
operazione di salvataggio possano partecipare i *molti*,
ai quali pur si richiama nel nome il nostro Laboratorio. Non è
possibile. Non subito almeno.
Le
cause di questo scarto sono tante e complicate: il tipo di vita
convulso che facciamo; il “rumore di fondo” dei mass media che
comunque ci sommerge; gli orientamenti mutevoli dei singoli, ora più
propensi all’autopromozione individualistica ora affascinati
dall’obiettivo di una libera espressività ora diffidenti verso
certi problemi (critica dei testi, rapporto tra tradizione e
innovazione, ecc.) considerati troppo spesso oziosi o fisime per
“intellettuali”.
Se
questo mio punto di vista non è del tutto campato in aria, non mi
sento affatto in contraddizione per aver scritto:
«la
poesia deve rinunciare in
partenza a
raggiungere quanti non possono neppure "sentirla", essendo
assordati da "questo mondo così distratto e frammentato";
e
deve invece rivolgersi - perché
vi è costretta, ma anche per scelta consapevole
-ai pochi/molti.
Fortini
diceva: non parlo a tutti. Io userei questa termine "ambiguo"
per indicare un potenziale io/noi capace di costruirsi tenendosi
lontano sia dall’elitarismo dei “pochi ma buoni”e sia dal
populismo dei rintronati dalla grancassa massmediale».
Certo,
uno strumento potente per arrivare ai*molti*
ci sarebbe:
la comunicazione attraverso i media. Non la ritengo opera del demonio
da cui stare alla larga. Però è a tutti evidente che, per quanto
qualcuno tra noi possa aver imparato a parlare «universalmente in
modo appropriato e comprensibile», l’accesso all’uso di questi
mezzi gli è in genere impedita.«Chi ha il potere di selezionare i
messaggi da veicolare attraverso i mass media usa – ho scritto -
criteri non diversi da quelli con cui Berlusconi sceglie le sue
*escort*e
i partiti i loro candidati alle elezioni». Provatemi il contrario.
Conclusioni.
La critica – almeno quella che ancora sta addosso a «questa realtà
oggettiva» e non occulta l’esistenza dei rapporti di forza
diseguali (per cui alcuni accedono attivamente ai mass media e altri
possono essere solo pubblico passivo o semipassivo dei mass media) -
è oggi l’unico salvagente che possiamo buttare alla poesia. Ed i
poeti dovrebbero essere i primi ad esercitarla, anche nei propri
confronti. Solo avendo presente questo stato di cose, sfavorevole
alla ricerca in generale e alla stessa ricerca poetica, si potrà
«tornare a chiamare le cose col loro nome». E (forse)a farsi
intendere anche dai molti, oggi irraggiungibili. Non esiste più (e
non solo in poesia) nessun «codice condiviso», nessuna «comunità
che fa uso di quel codice condiviso». La frammentazione è tale che,
anche quando si cerca di “comunicare” con le più oneste
intenzioni, non ci si intende. E, allora, credo che il discorso di
Fortini, solo in apparenza aristocratico, avesse chiara proprio
questa realtà; e chiedesse giustamente di tenerne conto; e di far
pulizia delle false idee che circolano anche in poesia.
24 gennaio 2011