Provo a mandare avanti l’esperimento iniziato con la pubblicazione della poesia di Salvatore e ad annodare i fili dei problemi che colgo nelle varie mail.
Rileggo innanzitutto l’oggetto primo del contendere, la poesia (per me rientra nella categoria!) di Salvatore:
Nei pressi del Giardino degli Aranci
Tra intonaci sbiaditi in via di Sant’Alessio
nordafricani e slavi persone dei balcani
sbiadite anch’esse scolorate
giacche troppo sottili per febbraio
o senza giacca avendola scambiata
non per abbecedari ma speranze
di un lavoro avvilente duro
pelli grinzose già sfinite vuote
senza doni da offrire
ai putridi politici italiani
mi sporgo sopra Roma
tento lo sguardo a sud
cerco scirocco
se giunge, dico, la sabbia dei deserti
e piove sull’asfalto
potrò vedere le nuvole d’iprite
inondare la cinta di Bengasi
imparzialmente accendere i polmoni
o le fiamme dei pozzi tanto desiderati
i corpi accartocciarsi come carte al fuoco
vedere e non sentire
sapere e non capire
Mi soffermo qui solo su un elemento, che mi fa giudicare interessante questa poesia: la messa a fuoco onesta e pacata della difficoltà in cui ci troviamo nel rapporto con l’altro da noi. In questi versi dai toni bassi (e quindi inconfondibile con certi toni gridati di “poesia civile” o “impegnata”) vedo in azione uno sguardo esterno (quello a cui siamo costretti, direi) sui migranti. Esso va da italiani generici ad altrettanto generici «nordafricani e slavi persone dei balcani».
È uno sguardo da cui trapela un accenno di premura, di preoccupazione e di compassione umana, quando si sofferma su un dettaglio: le giacche dei migranti «scolorate» e «troppo sottili» per (il freddo di) febbraio.
La visione dell’altro da sé resta però invischiata nel proprio mondo (magari memore di povertà passate, quelle degli «intonaci sbiaditi in via di Sant’Alessio» o presenti nella storia di Pinocchio: «o senza giacca avendola scambiata/ non per abbecedari»). Non introduce in quello altrui, dei migranti. Non si esce dunque dal limite dello sguardo (o di una poesia dello sguardo), potrei dire. Non c’è, non ci può essere forse, dialogo. Anche quando si aggiungono - intuiti - altri particolari sulla realtà che gli altri vivono: quei migranti fanno « un lavoro avvilente duro» (due aggettivi comunque generici); hanno «pelli grinzose già sfinite vuote».