lunedì 12 novembre 2012

Ennio Abate
Sulle «Cinque difficoltà
per chi scrive la verità»
di B. Brecht



«Chi ai nostri giorni voglia combattere la menzogna e l'ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà. Deve avere il coraggio di scrivere la verità, benché essa venga ovunque soffocata; l'accortezza di riconoscerla, benché venga ovunque travisata; l'arte di renderla maneggevole come un'arma; l'avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace; l'astuzia di divulgarla fra questi ultimi. Tali difficoltà sono grandi per coloro che scrivono sotto il fascismo, ma esistono anche per coloro che sono stati cacciati o sono fuggiti, anzi addirittura per coloro che scrivono nei paesi della libertà borghese».


Così Brecht sintetizza  all’inizio   di questo scritto i 5 punti  che  tratterà subito dopo, uno per uno, analiticamente. Mentre, alla fine in un Riepilogo conclude:

« La grande verità della nostra epoca (che non è sufficiente limitarsi a riconoscere, ma senza la quale non è possibile scoprire nessun'altra verità importante) è questa: il nostro continente sta sprofondando nella barbarie perché i rapporti di proprietà dei mezzi di produzione vengono mantenuti con la violenza. A che cosa servirebbe uno scritto coraggioso dal quale risulti la barbarie delle condizioni nelle quali stiamo per cadere (il che in sé è verissimo), se poi non risultasse chiara la ragione per cui veniamo a trovarci in queste condizioni? Dobbiamo dire che degli uomini vengono torturati perché i rapporti di proprietà rimangano immutati. Certo, se lo diciamo, perderemo molti amici che sono contrari alla tortura perché credono che i rapporti di proprietà si possano mantenere anche senza di essa (il che non è vero).
Dobbiamo dire la verità in merito alle barbare condizioni del nostro paese, dobbiamo dire che è possibile fare ciò che è sufficiente a farle sparire, e cioè qualcosa che modifichi i rapporti di proprietà.
Dobbiamo dirla inoltre a coloro che di questi rapporti di proprietà soffrono più di tutti, che hanno il maggiore interesse a cambiarli, ai lavoratori e a coloro che possiamo trasformare in loro alleati perché in realtà non partecipano nemmeno loro alla proprietà dei mezzi di produzione, anche se partecipano ai guadagni.
E per quinta cosa dobbiamo procedere con astuzia.
E queste cinque difficoltà dobbiamo risolverle tutte contemporaneamente perché non possiamo ricercare la verità sulla barbarie di certe condizioni senza pensare a coloro che soffrono di questo stato di cose; e mentre - combattendo costantemente ogni impulso di viltà - cerchiamo di scoprire le vere connessioni, mirando a coloro che sono pronti a utilizzare la loro conoscenza, dobbiamo anche pensare a porger loro la verità in modo tale che divenga un'arma nelle loro mani e al tempo stesso con tanta astuzia che il nemico non si accorga che gliela porgiamo e non possa impedirlo.
Tutto ciò viene richiesto allo scrittore, quando gli si chiede di scrivere la verità».

Ha senso riproporre oggi questo scritto? E riproporlo a chi si occupa di poesia? A prima vista tutto congiura contro questo mio tentativo di ripensare e riattualizzare questo Brecht, sia pur in modo critico come vorrei fare.
Oggi quasi nessuno:
- pensa che anche in democrazia la menzogna predomini come minimo - secondo me - per l’80% nei rapporti sociali e politici (ma anche, di conseguenza, in quelli interpersonali);
- si sente ignorante: nel senso di riconoscere che, malgrado i suoi eventuali studi da diplomato o laureato e la sua esperienza di vita, ignora - e quindi non è in grado di influire - sulle gigantesche e oscure forze che determinano la sua esistenza;
- crede più che la verità sia un obiettivo irrinunciabile (specie in poesia); e che (specie in poesia) non si debba scrivere (o parlare) “come si vuole” inseguendo, quando capita e quando se ne ha voglia, cento altri obbiettivi: divertirsi, divertire, mascherarsi, fingere, simulare, immaginare, godere, far godere il lettore, dimostrare la propria bravura, ingannare, stupire, impressionare;
- pensa che ci sia una verità (o delle verità) da ricercare e da dire agli altri, perché - si dice - ciascuno avrebbe la  sua e non bisogna, nel rispetto della democrazia o della tolleranza o della libertà, disturbargliela o contestargliela;
 è in grado di mostrare fondamenta solide e inattaccabili per la verità o le verità che suppone di possedere.

Perché, dunque,  ritornare su Brecht e mettere questo cappio della ricerca della verità al collo della gente democratica (e soprattutto al collo di poeti)? Dio è morto, come dimostrò Nietzsche, e morti sono anche i cacciatori di verità. (Anche l’amico Giorgio Linguaglossa ha obiettato su questo blog, a proposito di Fortini, che la verità  è concetto che «resta inquinato dal sedimento teologico che quella parolina portava (e porta) con sé». Basta con  rompicapi invecchiati o insolubili.  Brecht è superato. Non può essere oggi né maestro, né punto di riferimento.

Non mi imbarcherò in una discussione per convincere gli scettici o chi la sa più lunga di me. Semplicemente scommetto sull’utilità di «combattere la menzogna e l’ignoranza» nelle forme  raffinate che assumono in democrazia e che dominano pure nella poesia contemporanea, del cui degrado o confusione tanto  ci lamentiamo e dico che uno come
come Brecht fa comodo, perché nella vita e in poesia ha fatto appunto il cacciatore di verità.

Prendere  però questo scritto di Brecht del 1935 e piantarlo qui, nell’Italia del 2012, è un’operazione che richiede cautela e senso critico. Brecht è come un’antica quercia e non è più possibile trapiantarlo nei piccoli “vasi” culturali che ci ha fornito l’educazione scolastica democratica di massa. E non è che si può seguire il suo esempio ripetendo tali e quali i suoi discorsi. O semplicemente parafrasarli. O ritenere che la crisi che stiamo vivendo oggi sia tale e quale a quella della sua epoca (la crisi del ’29) e automaticamente
ci condurrà al fascismo.
Se le difficoltà di scrivere la verità sotto il fascismo erano grandi, lo sono altrettanto, anzi di più, oggi in democrazia, che a quasi tutti pare  un regime in cui domina la verità, almeno quella possibile su questa terra.
E poi bisogna tener conto di un’altra differenza: Brecht possedeva (o credeva di possedere) la «grande verità» della sua epoca. Che, come qui scrive, per lui era questa: «il nostro continente sta sprofondando nella barbarie perché i rapporti di proprietà dei mezzi di produzione vengono mantenuti con la violenza».
Nel 2012 non posso nascondermi che quella  sua «grande verità», in effetti per la prima volta pronunciata da Marx, è stata ripetuta per oltre  150 anni in diverse lingue,  ma è stata resa inerte non solo nei paesi democratici ma anche in quei paesi socialisti che  quei «mezzi di produzione» volevano socializzare dimostrando le menzogne della democrazia liberale. Il fallimento dei regimi socialisti in Urss e in Cina  ha dimostrato quante nuove menzogne avevano seppellito  la «grande verità» di Marx. Così le stesse  menzogne della democrazia si sono scolorite. Ed essa appare, comunque,  il meno peggio e resta per moltissimi l’unica verità o la menzogna-verità a cui rassegnarsi.
Parafrasando  amaramente l’incipit di Brecht, potremmo dire, dunque, che, anche quando si è trovato il coraggio di scrivere la «grande verità» di Marx e l’accortezza di riconoscerla,  non è stata trovata «l'arte di renderla maneggevole come un'arma; l'avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace; l'astuzia di divulgarla fra questi ultimi». E così molti di quelli, che l’avevano appresa e la sostenevano, l’hanno abbandonata in fretta. 
Nel Novecento trasformazioni imponenti e non indagate del capitalismo, sfuggite allo stesso Brecht e appena intuite solo da alcuni pensatori marxisti (Lenin, Mao), hanno impedito di aggiungere a quella «grande verità» le altre verità - piccole o grandi -  sulla realtà in incessante trasformazione.
Quindi esiste una differenza forte tra noi e Brecht:  noi non abbiamo nessuna «grande verità» da scrivere, anche se fossimo convinti che quella di Marx, ripresa da Brecht, sia ancora una «grande verità»  incancellabile anche se è stata resa inerte ed è mancato, per così dire, il resto. Perché una verità non può essere detta una volta per tutte. Né alimenta i nostri pensieri e le nostre azioni se ripetuta come una giaculatoria.
Si tratta, dunque, oggi di avere un altro coraggio: non  quello di scrivere la verità ma di cercarla ancora. Mentre gli altri consigli di Brecht mi pare che possano tutti ancora funzionare.
Possono i poeti assumersi un tale compito? E perché no.  Se essi  tanto spesso sostengono che la poesia è strumento di conoscenza addirittura più duttile di quelli delle scienze o della filosofia, sarebbe il momento di mettere alla prova questa loro convinzione. (E perciò insisto con la mia proposta per una poesia esodante…).


P.s.
Pubblicherò sul sito di POLISCRITTURE  un articolo più esteso su questo scritto di Brecht, seguendo più da vicino e nei dettagli tutta la sua analisi.


APPENDICE

APPENDICE


Si tenga conto che questo  scritto Brecht lo pubblica nel 1935, dopo l'avvento di Hitler al potere. Esso circolerà clandestinamente, mentre egli è ormai in esilio. Brecht si rivolge agli artisti e agli intellettuali. Il 1935 è anche l’anno in cui il Komintern inaugura la stagione dei fronti popolari, l'alleanza tra le forze democratiche e i comunisti per contrastare l'avanzata del nazi-fascismo, in marcia verso la guerra. Nello stesso anno, lo scrittore viene ufficialmente privato della cittadinanza tedesca e costretto a peregrinare per diversi paesi europei, prima del definitivo approdo negli Stati Uniti. In questo contesto drammatico, mentre si dedica allo studio sistematico delle opere di Marx, Brecht si pone il problema dell'impegno e della responsabilità dell'intellettuale nella lotta contro il terrore del nazismo.[E.A.]


Cinque difficoltà per chi scrive la verità

Chi ai nostri giorni voglia combattere la menzogna e l'ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà. Deve avere il coraggio di scrivere la verità, benché essa venga ovunque soffocata; l'accortezza di riconoscerla, benché venga ovunque travisata; l'arte di renderla maneggevole come un'arma; l'avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace; l'astuzia di divulgarla fra questi ultimi. Tali difficoltà sono grandi per coloro che scrivono sotto il fascismo, ma esistono anche per coloro che sono stati cacciati o sono fuggiti, anzi addirittura per coloro che scrivono nei paesi della libertà borghese.

1. Il coraggio di scrivere la verità.
Sembra cosa ovvia che colui che scrive scriva la verità, vale a dire che non la soffochi o la taccia e non dica cose non vere. Che non si pieghi dinanzi ai potenti e non inganni i deboli. Certo, è assai difficile non piegarsi dinanzi ai potenti ed è assai vantaggioso ingannare i deboli. Dispiacere ai possidenti significa rinunciare al possesso. Rinunciare ad essere pagati per il lavoro prestato può voler dire rinunciare al lavoro e rifiutare la fama presso i potenti significa spesso rinunciare a ogni fama. Per farlo, ci vuole coraggio. Le epoche di massima oppressione sono quasi sempre epoche in cui si discorre molto di cose grandi ed elevate. In epoche simili ci vuole coraggio per parlare di cose basse e meschine come il vitto e l'alloggio dei lavoratori, mentre tutt'intorno si va strepitando che ciò che più conta è lo spirito di sacrificio. Quando i contadini vengono ricoperti di onori, è prova di coraggio parlare di macchine e foraggi a buon prezzo, capaci di agevolare quel loro lavoro tanto onorato. Quando tutte le radio vanno gridando che un uomo privo di sapere e d'istruzione è meglio di un uomo istruito, è prova di coraggio domandare: meglio per chi? Quando si discorre di razze superiori e inferiori, è prova di coraggio chiedere se non siano la fame e l'ignoranza e la guerra a produrre certe deformità. Così pure ci vuole coraggio per dire la verità sul conto di se stesso, di se stesso, il vinto. Molti di coloro che vengono perseguitati perdono la capacità di riconoscere i propri difetti. La persecuzione appare loro, come la più grave delle ingiustizie. I persecutori, dato che perseguitano, sono i malvagi, mentre loro, i perseguitati, vengono perseguitati per la loro bontà. Ma questa bontà è stata battuta, vinta, inceppata e doveva quindi trattarsi di una bontà debole; di una bontà difettosa, inconsistente, su cui non si poteva fare affidamento; giacché non è lecito ammettere che alla bontà sia congenita la debolezza così come si ammette che la pioggia debba per definizione essere bagnata. Per dire che i buoni sono stati vinti non perché erano buoni, ma perché erano deboli, ci vuole coraggio. Naturalmente la verità bisogna scriverla in lotta contro la menzogna e non si può trattare di una verità generica, elevata, ambigua. Di tale specie, cioè generica, elevata, ambigua, è proprio la menzogna. Se a proposito di qualcuno si dice che ha detto la verità, vuol dire che prima di lui alcuni o parecchi o uno solo hanno detto qualcos'altro, una menzogna o cose generiche; lui invece ha detto la verità, cioè qualcosa di pratico, di concreto, di irrefutabile, proprio quella cosa di cui si trattava.
Poco coraggio invece ci vuole per lamentarsi della malvagità del mondo e del trionfo della brutalità in genere e per agitare la minaccia che lo spirito finirà col trionfare, quando chi scrive si trovi in una parte del mondo in cui ciò è ancora permesso. Molti assumono l'atteggiamento di uno che stia sotto il tiro dei cannoni, mentre sono semplicemente sotto il tiro dei binocoli da teatro. Vanno gridando le loro generiche rivendicazioni in un mondo amico della gente innocua. Chiedono genericamente una giustizia per la quale non hanno mai mosso un dito e chiedono genericamente la libertà, quella di ottenere una parte del bottino che già da gran tempo è stato spartito con loro. Considerano verità solo ciò che ha un bel suono. Se la verità ha a che fare con cifre, con fatti, se è cosa arida, che per essere trovata richiede sforzo e studio, allora non è una verità che faccia per loro, non ha nulla che li possa inebriare. Solo esteriormente hanno l'atteggiamento di chi dice la verità. Con loro il guaio è che non conoscono la verità.

2. L'accortezza di riconoscere la verità.
Poiché è difficile scrivere la verità, dato che ovunque essa viene soffocata, i più pensano che scrivere o non scrivere la verità sia una questione di carattere. Credono che basti il coraggio. E dimenticano la seconda difficoltà, cioè quella di trovare la verità. Nessuno potrà mai dire che trovare la verità sia cosa facile.
Prima di tutto non è affatto facile rendersi conto quale verità valga la pena di esser detta. Oggi, per esempio, i grandi stati civilizzati vanno sprofondando l'uno dopo l'altro nell'estrema barbarie davanti agli occhi del mondo intero. È inoltre noto a chiunque che la guerra interna, condotta coi mezzi più spietati, può trasformarsi da un giorno all'altro in una guerra esterna che forse ridurrà il nostro continente a un ammasso di rovine. Questa senza dubbio è una verità, ma naturalmente ce ne sono anche altre. Così per esempio è perfettamente vero che le sedie servano per sedersi e che la pioggia cada dall'alto verso il basso. Molti poeti scrivono verità di questo tipo. Sono simili a pittori che ricoprano di nature morte le pareti di una nave che sta affondando. Per loro la nostra prima difficoltà non esiste, eppure si sentono la coscienza tranquilla. Senza lasciarsi turbare dai potenti, ma altrettanto imperturbabili alle grida delle vittime della violenza, essi continuano a ripassare il pennello sulle loro immagini. L'assurdità del loro modo di comportarsi genera in loro stessi un pessimismo che essi smerciano a buon prezzo e che, a dire il vero, sarebbe più giustificato negli altri di fronte a tali maestri e a tale smercio. E, bisogna dire, non è nemmeno facile riconoscere che le loro sono verità del genere di quelle sulle sedie e sulla pioggia: di solito hanno un suono ben diverso, come se fossero verità che riguardano cose importanti. Infatti la creazione artistica consiste proprio nel conferire importanza a una cosa.
Solo a guardare con molta attenzione ci si rende conto che essi altro non dicono se non che e che .
Codesta gente non è capace di trovare una verità che valga la pena di scrivere. Altri invece si occupano realmente dei compiti più urgenti, non temono i potenti né la povertà e nondimeno non sono in grado di trovare la verità. Mancano loro le nozioni necessarie. Sono pieni di vecchie superstizioni, di pregiudizi famosi, la cui felice formulazione risale spesso ai tempi più antichi. Per loro, il mondo è troppo complicato, non conoscono i dati di fatto e non vedono le connessioni. Oltre ai principi occorrono delle nozioni che si possono acquisire e dei metodi che si possono imparare. Tutti coloro che scrivono nella nostra epoca di rapporti complicati e di grandi mutamenti debbono conoscere il materialismo dialettico, l'economia e la storia. Sono nozioni che si possono acquisire mediante i libri e l'insegnamento pratico, quando non faccia difetto la necessaria applicazione. Parecchie verità, parti di verità e situazioni di fatto che portano a rintracciare la verità si possono scoprire in modo più semplice. Quando si ha intenzione di cercare, è bene avere un metodo, ma si può trovare anche senza metodo e persino senza cercare. In questa maniera casuale è certo però assai difficile che si riesca a rappresentare la verità in modo tale che gli uomini, grazie a questa rappresentazione, sappiano come devono agire. La gente che annota solo i piccoli dati di fatto non è in grado di rendere maneggevoli le cose di questo mondo. Questo però e nessun altro è lo scopo della verità. Quella gente non è all'altezza di scrivere la verità.
Quando uno è pronto a scrivere la verità e capace di riconoscerla, gli restano ancora tre difficoltà da superare.

3. L'arte di rendere la verità maneggevole come un'arma.
La verità deve essere detta per trarne determinate conclusioni circa il proprio comportamento. Quale esempio di una verità da cui non si possono trarre conclusioni, o soltanto conclusioni sbagliate, ci può servire l'opinione largamente diffusa secondo la quale le condizioni deplorevoli in cui versano certi paesi derivano dalla barbarie. Tale opinione vede nel fascismo un'ondata di barbarie che si è abbattuta su certi paesi come una catastrofe naturale.
Secondo tale opinione il fascismo sarebbe una nuova terza forza accanto al capitalismo e al socialismo (e al di sopra di essi); secondo essa, non solo il movimento socialista ma anche il capitalismo avrebbe potuto continuare ad esistere senza il fascismo, ecc. Questa naturalmente è una affermazione fascista, una capitolazione dinanzi al fascismo. Il fascismo è una fase storica in cui è entrato il capitalismo, si tratta quindi di un qualcosa di nuovo, e di vecchio allo stesso tempo. Nei paesi fascisti il capitalismo non esiste se non come fascismo e il fascismo non può essere combattuto se non come capitalismo, come la forma più nuda, più sfacciata, più oppressiva e ingannevole di capitalismo.
Come è possibile che uno pretenda di dire la verità sul fascismo - del quale è avversario - se pretende di non dire niente contro il capitalismo che lo genera?
Come è possibile che la sua verità risulti praticamente applicabile?
Coloro che sono contro il fascismo senza essere contro il capitalismo, che si lamentano della barbarie che proviene dalla barbarie, sono simili a gente che voglia mangiare la sua parte di vitello senza però che il vitello venga scannato. Vogliono mangiare il vitello, ma il sangue non lo vogliono vedere. Per soddisfarli basta che il macellaio si lavi le mani prima di servire la carne in tavola. Non sono contro i rapporti di proprietà che generano la barbarie, ma soltanto contro la barbarie. Alzano la voce contro la barbarie e lo fanno in paesi in cui esistono bensì gli stessi rapporti di proprietà, ma i macellai si lavano ancora le mani prima di servire la carne in tavola.
Le sonanti accuse contro certi provvedimenti barbarici possono avere efficacia per breve tempo, finché coloro che le odono siano convinti che nei loro paesi provvedimenti del genere non siano possibili. Certi paesi sono ancora in grado di mantenere i loro rapporti di proprietà con mezzi meno brutali che non altri. La democrazia rende loro ancora quei servigi per i quali gli altri sono costretti a far ricorso alla violenza; garantisce cioè la proprietà dei mezzi di produzione. Il monopolio sulle fabbriche, le miniere, le terre genera ovunque condizioni barbariche; tuttavia qui esse sono meno evidenti. La barbarie diviene evidente non appena per proteggere il monopolio si rende necessario far ricorso alla violenza aperta.
Alcuni paesi che non sono ancora costretti, per salvaguardare questi barbari monopoli, a rinunciare anche alle garanzie formali dello stato di diritto e a cose piacevoli come l'arte, la filosofia, la letteratura, prestano ascolto con particolare compiacimento ai loro ospiti che accusano la propria patria di aver rinunciato a tali cose piacevoli, dato che ciò può tornar loro utile nelle guerre che si prevedono. Si può forse dire che abbiano riconosciuto la verità coloro che, per esempio, vanno richiedendo a gran voce una lotta spietata contro la Germania ? È piuttosto il caso di dire che si tratta di gente stolta, impotente e nociva. Infatti la conclusione da trarre da tali vaniloqui sarebbe che bisogna distruggere la Germania. L'intero paese con tutti i suoi abitanti poiché i gas, quando uccidono, non stanno a scegliere i colpevoli.
La persona superficiale che non conosce la verità si esprime in termini generici, elevati e imprecisi. Va cianciando tedeschi, va lamentandosi male e chi lo ascolta, nel migliore dei casi, non sa che fare. Deve forse decidere di non essere più tedesco? E forse che l'inferno sparirebbe purché lui fosse buono? Anche i discorsi sulla barbarie generata dalla barbarie sono della medesima lega. A sentirli, la barbarie proviene dalla barbarie e sparisce con la civiltà che proviene dall'istruzione. Tutto ciò viene espresso in termini assolutamente generici, non in vista di conclusioni da trarne per l'azione e in fondo non è rivolto a nessuno in particolare.
Un simile modo di raffigurare le cose mette in luce solo pochi anelli della catena causale e presenta certe forze motrici come forze incontrollabili. Un simile modo di raffigurare le cose contiene in sé molti lati oscuri i quali nascondono le forze che stanno preparando le catastrofi.
Basta un po' di luce perché si veda che all'origine delle catastrofi ci sono degli uomini! Infatti noi viviamo in un'epoca in cui il destino dell'uomo è l'uomo.
Il fascismo non è una catastrofe naturale la cui chiave si possa rinvenire semplicemente nella «natura» dell'uomo. Ma persino nel caso di catastrofi naturali si possono raffigurare le cose in maniera degna dell'uomo, facendo cioè appello alla sua energia combattiva.
Dopo un grande terremoto che distrusse Yokohama, in molte riviste americane si potevano vedere delle fotografie che mostravano una distesa di macerie. Sotto c'era scritto (l'acciaio è rimasto in piedi) e in effetti chi alla prima occhiata non aveva visto altro che rovine ora, reso più attento dalla didascalia, notava alcuni alti edifici che erano rimasti in piedi. Tra tutte le possibili maniere di parlare di un terremoto, la più importante è senza confronto quella degli ingegneri che, tenendo conto degli spostamenti del terreno, della violenza delle scosse e del calore che si sviluppa ecc., aprono la via a nuove costruzioni antisismiche. Chi vuole descrivere il fascismo e la guerra, grandi catastrofi che non sono catastrofi naturali, deve costruire una verità suscettibile di essere tradotta in pratica. Deve dimostrare che si tratta di catastrofi a danno delle enormi masse di coloro che lavorano senza possedere mezzi di produzione propri, provocate dai proprietari di tali mezzi di produzione.
Quando si vuole scrivere efficacemente la verità su certe condizioni deplorevoli, bisogna scriverla in modo che se ne possano riconoscere le cause evitabili. Quando le cause evitabili vengono riconosciute, le condizioni deplorevoli si possono combattere.

4. L'avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani la verità diventa efficace.
Grazie alle secolari consuetudini che, sul mercato delle opinioni e delle descrizioni, hanno regolato il commercio degli scritti, grazie cioè al fatto che lo scrittore veniva liberato da ogni preoccupazione circa le sorti dei suoi scritti, lo scrittore si è fatto l'idea che il suo cliente o committente, il mediatore, provvedesse a mettere i suoi scritti a disposizione di tutti. Pensava: io parlo e chi vuole sentirmi mi sente. In realtà, egli parlava e chi poteva pagare lo sentiva. Le sue parole non erano udite da tutti e chi le udiva non voleva udirle tutte. Questo è un punto di cui si è parlato molto, anche se sempre troppo poco; qui voglio solo mettere in rilievo che  lo  «scrivere per qualcuno» si mutò semplicemente in «scrivere» . Ma la verità non si può semplicemente scriverla e basta; è indispensabile scriverla per qualcuno che possa servirsene. La conoscenza della verità è un processo comune a chi scrive e a chi legge. Per dire delle cose buone bisogna sapere ascoltare bene e udire cose buone. La verità deve essere detta con calcolo, e deve essere udita con calcolo. E per noi che scriviamo è importante sapere a chi la diciamo e chi ce la dice.
La verità su certe condizioni deplorevoli dobbiamo dirla a coloro che di queste condizioni più soffrono e da loro dobbiamo apprenderla. Non basta parlare a coloro che hanno una data opinione; bisogna parlare a coloro ai quali, data la loro situazione, tale opinione può convenire. E il vostro uditorio muta di continuo! Persino ai carnefici è possibile parlare, quando per impiccare non ricevono più il salario o quando la loro professione si fa troppo pericolosa. I contadini bavaresi erano contrari a ogni rivoluzione, ma dopo che la guerra fu durata abbastanza a lungo e dopo che i loro figli, tornando a casa, non trovarono più posto nelle fattorie, allora fu possibile conquistarli alla rivoluzione.
Importante per quelli che scrivono è trovare il tono giusto per dire la verità. Quello che comunemente si ode è un tono molto mite e lamentoso, il tono di chi non sarebbe capace di far male a una mosca. Chi lo ode e si trova in miseria non può che diventare ancora più miserabile. Così parlano, uomini che forse non sono nemici ma certo non sono dei compagni di lotta. La verità è combattiva, non solo combatte la menzogna, ma anche quelle determinate persone che la divulgano.

5. L'astuzia di divulgare la verità fra molti.
Vi sono molti che, fieri di avere il coraggio di dire la verità, felici di averla trovata, stanchi forse della fatica che costa il ridurla a una forma maneggevole, impazienti di vederne entrare in possesso coloro i cui interessi essi vanno difendendo, non ritengono più necessario usare una particolare astuzia per divulgarla. In tal modo tutto il frutto della loro fatica va spesso in fumo. In tutti i tempi, quando la verità veniva soffocata e travisata, si è fatto ricorso all'astuzia per divulgarla. Confucio falsificò un vecchio e patriottico almanacco storico. Si limitò a cambiare certe parole. Dove era scritto: «Il sovrano di Kun fece uccidere il filosofo Wan oerché aveva detto questo e quello» , Confucio, invece di «uccidere», metteva «assassinare» . Se c'era scritto che il tiranno tal dei tali era rimasto vittima di un attentato, egli metteva che «era stato giustiziato». Con ciò Confucio aprì la strada a un nuovo modo di giudicare la storia.
Chi al giorno d'oggi dice «popolazione»  invece di «popolo» e «proprietà fondiaria» invece di «suolo» già così evita di dar credito a parecchie menzogne. Infatti spoglia le parole del loro marcio misticismo. La parola «popolo» indica una certa unità e allude a interessi comuni; la si dovrebbe quindi usare soltanto quando si parla di diversi popoli, poiché tutt'al più in questo caso è concepibile una comunanza di interessi. La popolazione di un dato territorio ha interessi diversi, anche contrastanti, e questa è una verità che si vuole soffocare. Così anche chi dice «suolo» e rende percepibili al naso e agli occhi i campi che descrive e parla del loro odore di terra e del loro colore, favorisce le menzogne dei potenti; giacché ciò che conta non è la fertilità del terreno e nemmeno l'amore e la cura che l'uomo gli porta, ciò che più conta è il prezzo del grano e del lavoro. Quelli che traggono il loro utile dalla terra non sono gli stessi che ne traggono il grano e l'odore di zolla che emana dai campi è ignoto alle Borse. Esse hanno tutt'altro odore.  «Proprietà fondiaria» è invece il termine giusto; con esso è meno facile imbrogliare. Là dove regna l'oppressione, la parola disciplina dovrebbe essere sostituita dalla parola ubbidienza, perché la disciplina è possibile anche senza i potenti e per questo ha in sé qualcosa di più nobile che non l'ubbidienza. E meglio della parola onore è l'espressione dignità umana. Usandola è meno facile che il singolo scompaia dal campo visivo. Si sa bene che gentaglia si fa avanti per difendere l'onore di un popolo! E con quanta prodigalità i sazi largiscono onori a coloro che li saziano soffrendo a loro volta la fame. L'astuzia di Confucio può venir usata ancora oggi. A dei giudizi ingiustificati su certi avvenimenti nazionali egli ne sostituiva altri giustificati. L'inglese Tommaso Moro in un'utopia descrive un paese le cui condizioni di vita erano giuste - era un paese ben diverso da quello in cui egli viveva, ma gli somigliava in molte cose, tranne che nelle condizioni di vita!
Lenin, minacciato dalla polizia dello zar, voleva descrivere lo sfruttamento e l'oppressione dell'isola di Sakhalin da parte della borghesia russa. Scrisse  «Giappone» in luogo di Russia e «Corea» in luogo di Sakhalin. I sistemi della borghesia giapponese richiamavano alla mente di ogni lettore quelli della borghesia russa a Sakhalin ma, dato che il Giappone era nemico della Russia, lo scritto non fu proibito. Parecchie cose che in Germania non si possono dire della Germania, sono lecite parlando dell'Austria.
Ci sono varie astuzie con le quali è possibile eludere la sospettosa vigilanza dello stato.
Voltaire combatté la fede clericale nei miracoli scrivendo un poema galante sulla Pulzella d'Orléans. Egli descrisse i miracoli che senza dubbio erano stati necessari perché, in mezzo a un esercito, a una corte e fra dei monaci Giovanna restasse vergine.
Coll'eleganza del suo stile e descrivendo avventure erotiche, ispirate alla lussuriosa vita dei potenti, egli induceva costoro ad abbandonare una religione che procurava loro i mezzi per tale vita dissoluta. Anzi, ciò gli permise di far giungere per via illegale i suoi lavori a coloro cui erano destinati. I suoi lettori appartenenti alle classi dominanti ne favorivano o tolleravano la diffusione, tradendo così quella polizia che proteggeva i loro piaceri. E il grande Lucrezio dice esplicitamente di fare grande affidamento sulla bellezza dei suoi versi per la diffusione dell'ateismo epicureo.
L'alto livello letterario di certe prese di posizione può effettivamente costituire per esse uno schermo. Sovente però esso desta anche dei sospetti. Allora può essere il caso di abbassarlo coscientemente. Ciò accade per esempio quando nella disprezzata forma del romanzo poliziesco si introduce di contrabbando qualche descrizione di condizioni deplorevoli in punti che non diano nell'occhio. Descrizioni del genere sarebbero senz'altro sufficienti a giustificare un romanzo poliziesco. Per ragioni assai meno importanti il grande Shakespeare abbassò il proprio tono drammatico quando, volutamente, impresse una forma inefficace al discorso con cui la madre di Coriolano affronta il figlio che sta per attaccare la sua città natale - egli voleva che Coriolano fosse distolto dall'attuazione del suo piano non già da argomenti validi o da una profonda emozione, bensì da una certa inerzia che lo faceva cedere a una vecchia abitudine. In Shakespeare troviamo anche un esempio di verità propagata con l'astuzia, nell'orazione che Antonio tiene davanti al cadavere di Cesare. Egli non si stanca di insistere sul fatto che l'assassino di Cesare, Bruto, è un uomo onorevole, ma nello stesso tempo descrive l'azione che egli ha compiuto e la descrive in maniera più efficace di quel che non faccia per il suo esecutore; l'oratore lascia così che siano i fatti stessi a vincerlo, conferendo loro un'eloquenza maggiore che non . Un poeta egiziano vissuto quattromila anni fa si servì di un metodo simile. Era un'epoca di grandi lotte di classe. La classe fino allora dominante si difendeva a fatica dal suo grande avversario, cioè da quelle parte della popolazione che fino allora era stata asservita. Ora, nel poema, si presenta alla corte del sovrano un savio che esorta a lottare contro i nemici interni. A lungo, con insistenza, egli descrive il disordine causato dall'insurrezione delle classi inferiori. La descrizione suona così:
"Non è forse così? I nobili sono pieni di doglia e gli umili pieni di gioia. Ogni città va dicendo: scacciamo i forti dal nostro seno.
Non è forse così? Gli uffici pubblici vengono aperti e presi i registri; gli schiavi divengono padroni.
Non è forse così? Il figlio di un notabile non si riconosce più; il bambino della padrona diventa il figlio della sua schiava.
Non è forse così? Hanno messo i cittadini alla macina. Coloro che non vedevano mai il giorno sono usciti alla luce.
Non è forse così? Le cassette di ebano dei sacrifici vengono fatte a pezzi; del preziosissimo legno di Sesnem si fanno lettiere.
Guardate, in un'ora la capitale è crollata.
Guardate, i poveri del paese sono diventati ricchi.
Guardate, chi non aveva pane, ora possiede un granaio; le provviste del suo granaio erano proprietà di un altro.
Guardate come fa bene a un uomo mangiare il suo pasto.
Guardate, chi non aveva un chicco di grano ora possiede interi granai; chi chiedeva il grano in elemosina, ora lo fa distribuire.
Guardate, chi non aveva un giogo di buoi, possiede ora delle mandrie; chi non si poteva procurare i buoi per l'aratro, possiede ora degli armenti.
Guardate, chi non poteva farsi una stanza, ora possiede quattro pareti.
Guardate, i consiglieri cercano ricovero nei fienili; chi non osava riposarsi nemmeno sui muri, ora possiede un letto.
Guardate, chi non poteva costruirsi una barca, ora possiede delle navi; se il proprietario va per vederle, esse non sono più sue.
Guardate, coloro che possedevano abiti, ora vanno coperti di cenci; chi non tesseva per sé, ora ha del lino finissimo.
Il ricco va a dormire assetato; chi prima chiedeva la feccia del suo bicchiere, ora possiede della birra forte.
Guardate, chi non s'intendeva di musica, ora possiede un'arpa; colui per il quale non si cantava, ora apprezza la musica.
Guardate, chi era tanto povero da dover dormire da solo, ora trova delle gran dame; colei che mirava il suo viso nell'acqua, ora possiede uno specchio.
Guardate, i maggiorenti del paese vanno in giro e non trovano niente da fare. Ai grandi non si portano più messaggi. Chi prima li portava, ora manda un altro...
Guardate, ecco cinque uomini mandati dai loto padroni. Essi dicono: ora camminate voi, noi siamo arrivati."
Evidentemente questa descrizione ci presenta un disordine che agli oppressi deve apparire molto desiderabile. Ma sarebbe difficile farne colpa al poeta. La sua condanna di quel disordine è esplicita, anche se mal condotta...
In un libello Jonathan Swift propose, per portare il benessere nel paese, di mettere in salamoia i bambini dei poveri e venderli come carne. Fece dei calcoli esatti che dimostravano quanto si possa risparmiare purché si lasci da parte ogni scrupolo.
Swift faceva il finto tonto. Difendeva con molto zelo e precisione una certa mentalità che detestava e lo faceva a proposito di una questione in cui l'infamia di quella mentalità doveva risultare chiara a chiunque. Chiunque poteva essere più intelligente di Swift, o almeno più umano, soprattutto chi fino ad allora non aveva badato alle conseguenze che derivano da certe opinioni.
La propaganda perché la gente ragioni, in qualsiasi campo la si faccia, è sempre utile alla causa degli oppressi. Questa propaganda è altamente necessaria. Sotto i governi che servono gli sfruttatori, il ragionare è considerato cosa bassa e volgare.
Si giudica basso e volgare ciò che è utile a quelli che sono tenuti in basso. Si giudica bassa e volgare la continua ansia di riuscire a saziarsi; il disprezzo per gli onori che vengono fatti balenare davanti agli occhi di colui che dovrebbe difendere il paese in cui soffre la fame; i dubbi nei riguardi di un condottiero che conduce alla rovina; l'avversione per il lavoro che non nutre chi lo compie; il ribellarsi quando viene imposta una condotta insensata; il disinteresse per la famiglia cui l'interesse non servirebbe più a nulla. Quelli che hanno fame vengono insultati per la loro ingordigia, quelli che non hanno niente da difendere per la loro codardia, quelli che dubitano del loro oppressore per i loro dubbi sulla propria forza, quelli che vogliono farsi pagare il lavoro che fanno per la loro pigrizia, ecc. Sotto simili governi il ragionare è considerato in genere cosa bassa e volgare e viene screditato. Non si insegna più a pensare e il pensiero viene perseguitato ovunque si manifesti. Ciò nonostante ci sono sempre dei campi in cui è possibile additare senza pericoli i successi del pensiero; sono quei campi in cui le dittature hanno bisogno di esso. Per esempio è possibile mostrare i successi del pensiero nel campo della scienza militare e della tecnica. Anche per rimediare, grazie all'organizzazione e all'invenzione di surrogati, all'insufficienza delle riserve di lana è necessario il pensiero. Il peggioramento dei generi alimentari, l'addestramento dei giovani per la guerra, sono tutte cose che richiedono l'uso del pensiero: e questa è una cosa che è possibile descrivere. Si può invece astutamente evitare l'elogio della guerra, dello sconsiderato scopo di tanto sforzo cerebrale; così il ragionamento derivante dalla domanda può portare a domandarsi e si può applicare alla domanda
Naturalmente è ben difficile porre pubblicamente una simile domanda. Non è dunque possibile sfruttare il pensiero che si è propagato, renderlo cioè efficace? Sì che è possibile.
Perché in un'epoca come la nostra continui ad essere possibile l'oppressione che permette a una parte della popolazione (la meno numerosa) di sfruttare l'altra (la più numerosa), è indispensabile da parte della popolazione un ben preciso atteggiamento di fondo che investa tutti i campi. Una scoperta nel campo della zoologia come quella dell'inglese Darwin poteva da un momento all'altro mutarsi in un pericolo per gli sfruttatori; tuttavia per un certo tempo fu solo la chiesa a preoccuparsene, mentre la polizia non si accorgeva di niente. In questi ultimi anni le ricerche dei fisici hanno portato a certe conclusioni nel campo della logica che senza dubbio potrebbero rappresentare un pericolo per tutta una serie di dogmi utili all'oppressione. Hegel, il filosofo dello stato prussiano, occupato in ardue indagini nel campo della logica, ha fornito a Marx e a Lenin, i classici della rivoluzione proletaria, metodi di inestimabile valore. Lo sviluppo delle diverse scienze avviene in maniera organica ma non uniforme e lo stato non è in grado di tenere d'occhio ogni cosa. I pionieri della verità possono scegliere posti di combattimento che passano relativamente inosservati. L'unica cosa che conta è che si insegni un modo giusto di ragionare, un modo di ragionare che in ogni cosa e in ogni avvenimento ricerchi il lato transitorio e mutevole. I potenti nutrono una forte ostilità nei riguardi dei grandi mutamenti. Vorrebbero che tutto restasse com'è, possibilmente per mille anni. La cosa migliore sarebbe che la luna si fermasse, che il sole non girasse più! Allora a nessuno verrebbe fame e nessuno pretenderebbe di cenare la sera. Dopo che hanno sparato loro, il nemico non dovrebbe più avere il diritto di sparare, vorrebbero che il loro colpo fosse l'ultimo. Considerare le cose mettendo in particolare rilievo il loro lato transitorio è un buon sistema per rianimare gli oppressi. Mostrare che in ogni cosa, in ogni condizione, sorge e si sviluppa una contraddizione: anche questo è un fatto che bisogna opporre ai vincitori. Un simile modo di ragionare (cioè la dialettica e la dottrina del flusso delle cose) si può adottare per settori di ricerca che per qualche tempo sfuggono ai potenti. Lo si può applicare alla biologia o alla chimica. Ma anche descrivendo il destino di una famiglia ci si può esercitare ad applicarlo senza dar troppo nell'occhio. La dipendenza di ogni cosa da molte altre che mutano di continuo è un pensiero, pericoloso per le dittature e lo si può presentare in molti modi senza offrire appigli alla polizia. Una descrizione completa di tutte le circostanze, di tutte le procedure in cui si trova coinvolto un uomo che apra una tabaccheria può rappresentare un serio colpo contro la dittatura. Basta che uno ci rifletta un poco per capire il perché. I governi che conducono le masse umane alla miseria devono evitare che nella miseria si pensi ai governi. Parlano molto del destino. Il destino - non già i governi - è responsabile dell'indigenza. Chi tenta di scoprire le cause dell'indigenza viene arrestato prima che si imbatta nel governo. Tuttavia è possibile opporsi in termini generali ai discorsi sul destino; si può dimostrare che chi fa il destino dell'uomo sono gli uomini.
Anche a questo si può arrivare in diversi modi. Per esempio, si può raccontare la storia di una fattoria, mettiamo una fattoria di contadini islandesi. Tutto il paese va dicendo che sulla fattoria pesa una maledizione. Una contadina si è buttata nel pozzo, un contadino si è impiccato. Un bel giorno si conclude un matrimonio, il figlio del contadino sposa una ragazza che porta in dote alcuni campi. E la maledizione sparisce. Il villaggio non è concorde nel giudicare questa svolta felice. Gli uni l'attribuiscono all'eccellente carattere del giovane contadino, gli altri ai campi che la ragazza ha portato in dote e che hanno permesso al podere di cominciare a fruttare. Ma persino in una poesia che descrive un paesaggio si può raggiungere qualche risultato, e precisamente nel caso che nella natura si incorporino le cose create dall'uomo.
Per diffondere la verità ci vuole astuzia.

Riepilogo.

La grande verità della nostra epoca (che non è sufficiente limitarsi a riconoscere, ma senza la quale non è possibile scoprire nessun'altra verità importante) è questa: il nostro continente sta sprofondando nella barbarie perché i rapporti di proprietà dei mezzi di produzione vengono mantenuti con la violenza. A che cosa servirebbe uno scritto coraggioso dal quale risulti la barbarie delle condizioni nelle quali stiamo per cadere (il che in sé è verissimo), se poi non risultasse chiara la ragione per cui veniamo a trovarci in queste condizioni? Dobbiamo dire che degli uomini vengono torturati perché i rapporti di proprietà rimangano immutati. Certo, se lo diciamo, perderemo molti amici che sono contrari alla tortura perché credono che i rapporti di proprietà si possano mantenere anche senza di essa (il che non è vero).
Dobbiamo dire la verità in merito alle barbare condizioni del nostro paese, dobbiamo dire che è possibile fare ciò che è sufficiente a farle sparire, e cioè qualcosa che modifichi i rapporti di proprietà.
Dobbiamo dirla inoltre a coloro che di questi rapporti di proprietà soffrono più di tutti, che hanno il maggiore interesse a cambiarli, ai lavoratori e a coloro che possiamo trasformare in loro alleati perché in realtà non partecipano nemmeno loro alla proprietà dei mezzi di produzione, anche se partecipano ai guadagni.
E per quinta cosa dobbiamo procedere con astuzia.
E queste cinque difficoltà dobbiamo risolverle tutte contemporaneamente perché non possiamo ricercare la verità sulla barbarie di certe condizioni senza pensare a coloro che soffrono di questo stato di cose; e mentre - combattendo costantemente ogni impulso di viltà - cerchiamo di scoprire le vere connessioni, mirando a coloro che sono pronti a utilizzare la loro conoscenza, dobbiamo anche pensare a porger loro la verità in modo tale che divenga un'arma nelle loro mani e al tempo stesso con tanta astuzia che il nemico non si accorga che gliela porgiamo e non possa impedirlo.
Tutto ciò viene richiesto allo scrittore, quando gli si chiede di scrivere la verità.

1935.

(da B. Brecht, Scritti sulla letteratura e sull'arte, Einaudi, Torino 1973)


14 commenti:

Anonimo ha detto...

La difficoltà maggiore nel cercare o raccontare la verità, sta nel fatto che ha bisogno di SINCERITA'. la nostra sincerità e il nostro modo di rapportarci con gli altri spessissimo non è sincero. Spessissimo assumiamo un certo atteggiamento quando siamo nell'ambiente di lavoro, quando parliamo delle nostre passioni, quando insomma dobbiamo studiare un comportamento adatto all'occasione. Solo quando viviamo a lungo con qualcuno per il quale o per la quale per una questione sentimentale, ci siamo rivelati nel tempo, solo allora viene fuori la nostra vera sincerità, la stessa che avremmo dovuto riconoscere anche fuori da questo sentimento. Certamente prima di cercare la verità, dovremmo pensare alla nostra sincerità, lo siamo? Non lo siamo? Per quanto riguarda l'astuzia sento, non penso, che non faccia parte della sincerità che ricerca la verità, certo è un mezzo per poter arrivare ad un grande fine ma solo un mezzo che dovrebbe poi essere chiarito. Questo post di grande importanza e chiarezza mi è giunto con una forza che solo un grande può esprimere. Grazie ad Ennio che insiste sull'importanza della verità, che se anche nel tempo può cambiare di significato, non può però mai essere ingannata. Emy

Anonimo ha detto...

Ennio ti ringrazio per questo prezioso articolo, su Brecht
Un saluto Angela

Anonimo ha detto...

Giuseppe Beppe Provenzale

1935! Lo stesso Brecht avrebbe rivisto questo testo. Allora gli mancavano Stalin, il Maccartismo, Mao, Pol Pot, la bancarotta dell'URSS e la sparizione dell'aggettivo marxista, l'indebitatissima Cina e gli assegni lasciate sulle poltrone degli illustri.
Leggere questo lunghissimo testo é sicuramente utile se si riesce ad avere pazienza, ma omettendo le successive informazioni non ha senso chiosarlo per renderlo attuale. In queste condizioni é un esercizio quasi masochistico.

Anonimo ha detto...

GBP

Ps. correggo 'lasciate' in 'lasciati' e mi scuso dell'errore di battitura.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Non ho nessuna intenzione di omettere le "successive informazioni". Lo si vede, credo, già da questa breve riflessione.
Ho (come indicato in P.s.) semplicemente rinviato a un saggio approfondito che sto scrivendo.
Bisogna... avere pazienza.

Unknown ha detto...

Lei ha proprio ragione, infatti i rapporti vengono mantenuti con la pace, soprattutto quella dei premi nobel. Se si ricorda Mayoor -in un carteggio della lista moltinpoesia(quando non ero ancora stata butta fuori)- s'era definito il diavolo e lei l'acqua santa, facciamo dunque una bella bevuta.Cin Cin.

Anonimo ha detto...

Trovo questo contributo indiscutibile (non commendabile). Non perché condivida appieno le analisi, che per me si sono fatte ormai dilaganti verso nuovi approdi, ma perché vi si legge un "come fare" che regolarmente viene saltato nel dibattito solo-teorico. Non credo manchi l'impegno sociale, in ogni poeta, però può essere utile una iniezione di fiducia verso le proprie verità nascoste.
mayoor

Anonimo ha detto...

Certo la "sceneggiatura" delle 5 difficoltà, andrebbe attualizzata specie per tutti quei problemi trasversali che non hanno il solo centro di gravità intorno al tema dei rapporti di proprietà. Dire che " Chi tenta di scoprire le cause dell'indigenza viene arrestato prima che si imbatta nel governo" è concetto di sorprendente attualità (brutta cosa, perché vuol dire che niente è cambiato). L'impianto resta valido poiché la narrazione fuori esce dalla logica prettamente ideologica. Si parla di ricerca verità, che ricorda i discorsi dei movimenti anti globalizzazione che hanno fatto pulizia ideologica rifiutando complesse strategie politiche che portano all'indottrinamento. Del resto non siamo esattamente nell'area delle posizioni politiche ortodosse, Brecth aveva aderito al movimento spartachista caratterizzato da una forte componente libertaria. enzo g.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Enzo G.:

Quando parliamo di un qualsiasi scrittore dovremmo essere in grado di capire quanto più possibile testo (i suoi scritti) e contesto (biografia, epoca storica, ideologia esplicita o implicita che egli ha inevitabilmente assorbito, anche quando dicesse che lui è “contro tutte le ideologie”). Per i più vari motivi tendiamo invece a ritagliarci un segmento soltanto di questo tutto complesso o a privilegiare una parte contro un’altra.
A Brecht, dopo la sua morte, è toccato un po’ la sorte che è toccata a Fortini. La loro ideologia di riferimento era il comunismo e il comunismo per una buona parte del pubblico colto occidentale è stato sempre e solo opera del demonio (sicuramente meno del nazismo, vista la collaborazione fra Chiesa e fascismo/nazismo), mentre per i suoi simpatizzanti è diventato sempre più qualcosa di indifendibile: hanno dovuto prima accorgersi delle sue difficoltà, poi delle sue crepe ( già vivo Brecht si ebbe nel 1953 una rivolta operaia nella Berlino Est sedata dall’intervento dei carri armati sovietici e nel 1956 ci fu quella d’Ungheria) e infine del suo crollo. Moltissimi (anche ex comunisti) sono passati armi e bagagli al liberalismo e altri, che si occupavano di letteratura, hanno pensato bene di stendere un velo pietoso su questi “trascorsi comunisti” di certi letterati e hanno cominciato a parlare di Fortini soprattutto e solo come poeta, sorvolando sul contesto storico della sua poesia. Lo stesso si è fatto anche per Brecht (ma possiamo dire si è fatto per Dante, per Céline, per Benn, per i futuristi, ecc.).
Io sono convinto che bisogna distinguere il poeta dal suo mondo ideologico, ma lasciarglielo sullo sfondo, non cancellarglielo e soprattutto continuare a indagare sia sui suoi testi sia sui legami col suo mondo ideologico (esplicito o implicito).
Brecht così sfuggirebbe agli stereotipi che lo presentano come "grande poeta, ma opportunista, vigliacco di fronte ai crimini di Stalin, propagatore di una visione politica che "per nostra fortuna" non si è mai realizzata e che comunque non andrebbe presa seriamente in considerazione" (da Peter Kammerer, Bertolt Brecht scopre come suo unico spettatore Karl Marx, in "L'ALTRO NOVECENTO.Comunismo eretico e pensiero critico" a cura di P.P.Poggio, Jaka book 2010).
Il suo amico, il musicista Hans Eisler, lo definiva un "bolscevico senza tessera”. Kammerer dice pure che "il comportamento di Brecht era molto complesso ed era, nell'insieme, quello di un saggio, di un poeta, di un militante che lotta e di un uomo che gode tra i tanti piaceri anche quello di un uso raffinato della dialettica". E la sua figura è interessante proprio «per la tensione provocata dallo scontro tra un Brecht dalle forti venature anarchice e un Brecht in cerca di comunismo, principio di un ordine ragionevole. Insomma un duello tra Rimbaud e Lenin».

[continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):

Anche i suoi problematici rapporti con lo stalinismo non sono di piatta subordinazione. Kammerer ricorda che «pur conoscendo almeno in parte i crimini e le illegalità commesse, Brecht ha visto Stalin come una necessità storica con una funzione, sempre dal punto di vista storico, positiva, ed ha creduto, con una fede di tipo religioso, che il superamento della proprietà privata nell’Unione sovietica costituisse un salto diqualità nella storia dell’umanità e fosse un fatto irreversibile. Da queste convinzioni discendono tutte le sue prese di posizione e tutti i suoi silenzi, che pesano forse ancora di più. Brecht si rifuta di merttere in discussione il carattere socialista dell’Urss e affronta lo stalinismo, la sua ortodossia e la sua prassi criminale di potere, con una strategis fatta di allusioni, di parabole, di riferimenti impliciti» (p. 375).
Una attualizzazione di Brecht non può semplicemente cancellare le convinzioni principali che guidarono il suo lavoro di drammaturgo e poeta. La sua persuasione marxiana della centralità dei «rapporti di proprietà» non può essere accantonata. Noi che abbiamo assistito al fallimento dell’Urss, che lui non ha visto, ma stiamo assistendo anche ai chiari di luna della globalizzazione (con il suo strascico di continue guerre), dobbiamo interrogarci sia sulle ragioni di quel fallimento ma anche sul perché, finito il comunismo, la democrazia è diventata guerrafondaia e non è il “migliore dei mondi possibili”. Nei suoi confronti siamo come Brecht davanti allo stalinismo. Non pesano i nostri silenzi sulle guerre “democratiche” o “umanitarie” contro Irak, Afghanistan, Libia e ora le manovre dei vari servizi segreti in Siria? Potremmo imparare qualcosa anche da Brecht e dalle sue ambivalenze.

[Fine]

Anonimo ha detto...

Grazie per le delucidazioni riguardanti lo scontro tra un Brecht dalle forti venature anarchice e un Brecht in cerca di comunismo..... Insomma un duello tra Rimbaud e Lenin». enzo g.

Anonimo ha detto...

È interessante notare come in assenza di libertà politica e di espressione, Brecht sproni le coscienze intellettuali alla verità per denunciare violenza e barbarie, in modo che la verità possa farsi essa stessa veicolo di libertà e riscatto morale. Attribuendole cioè quel ruolo di affrancamento (mediante l’indignazione e la rivolta), che solo la libertà può offrire.
Verità e libertà dovrebbero andare di pari passo, quando ciò non è possibile (nei regimi autoritari non lo è mai), mancando la libertà la verità può solo richiamarla all’appello. Un messaggio senza dubbio attuale.
Giuseppina Di Leo

Anonimo ha detto...

Certo Giuseppina,
oggi abbiamo davvero bisogno di rileggere questo Brecht, oggi in cui la libertà politica e di espressione sembra ormai un'illusione. Chi si azzarda a comunicare libertà e verità, viene tacciato come incosciente o pazzo.Le dinamiche, il motore, che spinge l'umanità a denunciare e a ribellarsi, sono sempre gli stessi , ma spesso ce ne dimentichiamo. Emy

roberto b ha detto...

Condivido le cautele e le avvertenze con cui Abate ha ri-portato questo scritto di Brecht sulla scena artistico-culturale e politica contemporanea. Brecht l'ha scritto in una situazione particolare (dopo l'ascesa al potere di Hitler), ma gli elementi che esso pone alla riflessione sono stimolanti anche oggi. Data la loro ampiezza, voglio concentrarmi sulla terza delle "5 difficoltà",ossia l'arte di rendere maneggevole come un'arma uno scritto. Oltre alla "chiarezza della ragione per cui veniamo a trovarci in queste condizioni", in altri termini oltre alla lucidità dell'enunciato, mi pare ci sia anche una faccenda estetica, per così dire, vale a dire di stile, di forma. Naturalmente faccio un po' violenza all'interpretazione letterale di questo scritto di Brecht, perché nel contesto "arte" ha il significato di "capacità", mentre qui la intendo come capacità formale. Ora, se la forma è ciò che consente la mediazione tra la "verità della barbarie", di ordine storico-sociale, e la bellezza (o godibilità) di un testo, di ordine estetico, è nella forma che si concentra la specificità conoscitiva di un testo, ed è la forma a sussumere su di sé gli altri quattro requisiti brechtiani. Questo per distinguere un testo letterario da un volantino o da un pamphlet, riduzione che non piaceva nemmeno a Engels. Ciò nondimeno, la forma in letteratura è squisitamente politica, come sosteneva Fortini quando, ad esempio, avvertiva che una poesia sugli uccelletti del bosco, che lo si voglia o no, parla (anche) d'altro. Per cui, ritengo che la "grande verità" esista sempre in qualsiasi epoca storica, anche nella nostra, e che è sempre possibile esprimerla, che lo scrittore ne sia consapevole o no, semmai è una questione politica, nell'analisi teorica come nell'espressione letteraria, e semmai si tratta di strumenti analitici insufficienti o inadeguati per quanto concerne il discorso politico-economico, e di forme politicamente insufficienti o inadeguate per quando concerne il "discorso" letterario. Per concludere, vorrei dire che a questo testo di Brecht sarebbe opportuno, per scendere nello specifico estetico, affiancare le considerazioni di Benjamin a proposito della bellezza e dell'orrore insiti in un'opera d'arte, quando cioè Benjamin invitava a leggere con orrore (dovuto al contesto storico di barbarie in cui l'opera è sorta)ciò che per la sua bellezza ci da un godimento estetico. Per fare un esempio concreto, la forma politica a cui faccio riferimento, legata alla conoscenza del mondo sociale fornita da un testo letterario, la trovo nei romanzi di Houellebecq ("Le particelle elementari" in particolare).