Fine estate
Nelle mie piazze
e nelle mie case
tra le ombre calde
di un mese d'estate
ho visto passare
la mia gioventù.
Aveva un abito a fiori
di quelli teneri
che durano un giorno,
correva in quel posto
che sa di segreto
dove la vita
s'intreccia col tempo
dove il canto
di un usignolo
col freddo di neve
annuncia il passo del vento,
ti chiede chi sei
e tu gli rispondi
- Son quella dell'anno passato
son qui come allora
dimmi che nulla è cambiato.-
Quattro premesse e un commento, di Leonardo Terzo
Prima premessa: Northrop Frye, nella sua Anatomia della critica (1957) lamenta spesso di non avere a disposizione una terminologia che permetta di individuare e descrivere in modo appropriato e condiviso i fenomeni letterari che incontra nella sua esperienza di lettore e di critico. La stessa cosa capita a tutti i commentatori che percepiscono certi effetti della poesia, ma non sono sicuri di saperli descrivere accuratamente per mancanza di una terminologia stabilita. Per questo mi sembra talvolta, nel parlare di questa poesia di Emilia Sergio, di tentare di spiegare le percezioni e le intuizioni che probabilmente tutti abbiamo nella lettura, senza essere sicuro, magari per mia ignoranza, di saperle comunicare.
Seconda premessa: l’analisi esplicativa di una poesia, non può essere piacevole come la lettura, perché la poesia è una sintesi alchemica che ottiene l’effetto del piacere, mentre la critica smonta la costruzione sintetica in glosse analitiche, appunto, dove il piacere musicale si perde, e quello razionale è aleatorio.
Terza premessa: come tutti i critici formalisti, che non sono affatto contro i contenuti e il contesto storico, ma li individuano nella loro esplicazione formale, appunto, ritengo che il miglior giudizio di valore sia quello implicito nell’analisi stessa. Spiegare come funziona il testo per ottenere i suoi effetti poetici è il modo più democratico e anti-autoritario per giustificarne l’apprezzamento.
Quarta premessa: tutto ciò che l’analisi sembra “inventare”, apparentemente persino all’insaputa dell’autrice, è invece dovuto alla qualità creativa “naturale” dell’essere umano. Il poeta non studia l’arte poetica a bottega o, se lo fa, lo fa perché può mettere a frutto una disposizione innata ad armonizzare il suo linguaggio, così come i neonati imparano a parlare: sono sempre stupefatto di fronte ad un bambino di uno o due anni che riesce a parlare l’italiano coniugando verbi, aggettivi, concordanze e inflessioni innumerevoli e complicatissime della nostra lingua. Così il poeta coniuga suoni, significati e sentimenti con la mente e i sensi, di cui solo a posteriori e a fatica sa ricostruire la meccanica. E questa è la specializzazione della critica, che invece implica affinità, congenialità, ma anche lucidità “scientifica”.
La poesia è composta di due strofe. La prima di sei versi: i primi tre e il sesto di cinque sillabe, il quarto e il quinto di sei. La “e” iniziale del secondo verso, che sarebbe un senario, si elide con la “e” finale del primo, perciò, almeno nella mia enunciazione, anche il secondo diventa quinario.
Dico questo perché la prima cosa che vorrei illustrare è (impropriamente detto) la musica lieve, ma leggermente incantatoria, di questi primi versi. Il suono di un quinario è molto breve, la ripetizione di cinque sillabe per tre volte è rapida e semplice, ma dopo tre volte una quarta diventerebbe forse monotona, perciò l’allungarsi in un senario porta un rallentamento, minimo, ma ristoratore. Tale, appena maggiore, lentezza, in un verso che descrive la visione di un movimento (ho visto passare) unisce appunto felicemente il movimento percepito alla staticità del punto d’osservazione.
Tutta la poesia infatti è una felicissima intuizione della diversità, trasformazione, contrapposizione e sdoppiamento della persona, nelle due dimensioni dell’essere e del divenire/passare, poi personificate e messe a confronto con un dialogo tra il sé puro e semplice del presente e il sé in parte inaspettatamente ignoto e problematico del passato. Questo passato, per l’essere umano, ha un nome in sé suggestivo quanto non mai: gioventù. Qui nell’ultimo verso della strofa infatti si può tornare alla brevità, che arriva come un schiocco di frusta semantica, con una parola tronca, musicalmente conclusiva, rivelatrice e sorprendente.
I primi tre versi descrivono i luoghi: piazze, case, ombre. Gli aggettivi che le accompagnano sono possessivi: “mie”, e per così dire sensitivi: “calde”, e dicono l’appartenenza dello scenario a chi parla. Ovviamente si tratta di appartenenza affettiva. Sono i luoghi della propria vita. L’aggettivo “calde” è sia epidermico che sentimentale. Infatti siamo d’estate, il tempo di una totale o relativa sospensione dell’attivismo. La mente e la sensibilità si sentono più libere di contemplare il proprio contesto esterno (i luoghi) e interiore (a che punto sono nella mia vita?). Questa libertà riflessiva è la condizione dello sdoppiamento e del dialogo con l’altra se stessa.
In quei luoghi, in questa estate, si percepisce qualcosa che sta passando, che passa, è passato. È un tempo incarnato, una fase della vita, e la più idealizzata: la gioventù. L’accento finale sancisce un’apparizione. Il disvelamento è doppio, vedere la propria gioventù come un’altra cosa/persona, staccata da sé, è anche percepire di essere un’altra rispetto a quella. È la rivelazione della propria “non gioventù”. Perciò il sentimento che accompagna lo schiocco accentato è ambivalente e sostanzialmente spaesato.
Ma la musica, non facilmente spiegabile, non essendoci in questa prima strofa neanche delle rime, è data certamente da un effetto più difficile da percepire, perché non si tratta neppure di vere assonanze: si tratta del fatto che tutti i primi cinque versi terminano con parole che finiscono con le vocali “a” ed “e”, inframmezzate da un suono consonantico, peraltro sempre diverso: piazze, case, calde, estate, passare. Questo effetto non si percepisce chiaramente, ma opera e “culla” in profondità, finché viene troncato dall’apparizione della ”ù”.
La gioventù è passata, e ora l’apparizione, prodotta dal ritrovamento dei luoghi e della stagione, la fa vedere passare. Il tema è degno di Proust e Leopardi, ma ogni poeta è l’ultimo arrivato, e anche il primo uomo/donna sul pianeta della creazione.
La seconda strofa è più lunga e descrittiva, fatta di sei periodi di varia lunghezza, prima di arrivare al dialogo finale in cui il presente e la gioventù si confrontano.
Il primo periodo è di tre versi La gioventù si identifica in un abito, estivo e perciò allegro, ma precario, forse perché leggero e quindi fragile. L’abito estivo, come si conviene, è un vestito a fiori, ma di quelli che appassiscono subito. Qui il meccanismo è a strati di significato sovrapposti: la persona è il vestito, il vestito è i fiori del disegno, i fiori sono caduchi perché “teneri”. La tenerezza è quella della gioventù stessa, una qualità tra natura e cultura, un termine che si riferisce sia alla materialità che alla sensibilità, propriamente giovanile e femminile.
La gioventù personificata, col suo vestito a fiori, correva. “Correva” per la vivacità giovanile e per la sua brevità propria (specialmente per i poeti). Qui l’invenzione dell’autrice è grande e perfetta: dove corre la gioventù? Verso qualcosa di non chiaro (perché i giovani non lo sanno, né forse gli interessa saperlo), che perciò “sa di segreto”, non “misterioso”, che pure avrebbe fatto al caso, ma suonerebbe più banale. E non è, altrettanto banalmente, la morte, ma appunto il passare del tempo, di nuovo poi adombrato dal “passo del vento”, con un’assonanza felice e forse spettacolare. Il passare del tempo si “intreccia” con la vita. La vita è tempo, ma qui si rifiuta questa riduzione: può essere qualcosa che si colloca nel tempo, ma non è solo tempo, e col tempo si intreccia, ma non si identifica totalmente: è qualcosa che passa, ma anche resta, come la domanda finale, piena di pathos, aspira ad affermare, pur non essendone sicura.
L’alchimia degli strati semantici coinvolge altri sensi: il canto dell’usignolo annuncia il freddo, la neve, il vento e, sottilmente impensati a tutta prima, riferimenti sotterranei al passero solitario. Il vento ha un passo, che è la trasformazione e diversificazione dell’immaterialità del tempo in qualcosa di più concretamente percepibile, ma ancora relativamente immateriale come l’aria, che però, mossa, diventa un agente un po’ minaccioso come il vento.
Infine c’è il dialogo tra interlocutori che si appartengono. Lo sdoppiamento non è semplicemente doppio, ma triplice perché la poetessa racconta di due sé, la gioventù (lei ti chiede) e la non gioventù (tu le rispondi), rispetto alle quali chi racconta è una terza voce (io), che le comprende nel doppio senso di contenerle e di capirle, o tentare di capirle, perché il dialogo ha tutta la sorpresa, la tristezza anche, a cui fa fronte la speranza, di una conclusione sospesa. La sorpresa è quella di avere avuto accesso, per effetto del ricordo, ad una scena inedita, sull’orlo di una visione impensata della propria vita.
Il dialogo ha una grande forza patetica: esprime il tentativo di tenere a bada una disperazione temuta. Ciò è ottenuto con un linguaggio comune, eppure ineludibile, come se la forma volesse sparire di fronte alla potenza del significato. Così porta un suono di verità nel cuore dell’immaginario. Ciononostante, la spia di questa forza resta però nell’unica rima vera di tutta la composizione. Essa ci rammenta che siamo in una poesia.
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