Una decina d’anni fa (suppergiù), scrissi la poesia che
segue. Ho l’impressione che il tema sia proprio quello del dialoghetto di
Abate. Samizdat e il Poeta invisibile sono convinti o no dell’esistenza di una
scala? Mi pare di no. Mi pare che riducano tutto ad un problema di occupazione
di potere (delle redazioni dei giornali, dell’industria editoriale, della
“visibilità”…). Il problema esiste, ma c’è poco da illudersi. Se Samizdat non
fosse ridotto a riordinare macerie e il Poeta invisibile fosse assunto nella candida rosa dei Nobel, si abolirebbe la
scala? Penso di no. Perciò la poesia s’interroga sulla natura di questa scala…
Così vid' i' adunar la bella
scola
di quel segnor de l'altissimo
canto
che sovra li altri com'
aquila vola.
Inferno, IV,
94-96
C’è una scala, si vede. La puoi
liberamente disegnare.
L’ultimo
gradino non è mai l’ultimo. E’ avvolto nella nebbia.
Tu sai e
non sai fin dove ti puoi spingere.
La scala
c’è. Edificata nel tempo e nello spazio.
Puoi
osservare un gradino centimetro per centimetro e descriverlo.
Puoi dargli
un nome: il Vento del Presente.
Parole-chiave,
rime delle palpebre e delle labbra,
giri di
frasi, catene di significati, lime sentimentali.
L’endoscopio
puoi farlo risalire fino alla flessura epatica.
Il paziente
– chi? Io, tu, noi tutti – riferirà non il dolore
ma la
dolorabilità. E, quando l’avvisterà la telecamera,
come
Colombo, dirà: E’ lì, è lì il noto polipo plurilobato!
Ricamato
come foglia di quercia. E’ lì, a larga base d’impianto.